Il Bianco & il Rosso - anno II - n. 12/13 - gen./feb. 1991

da rinnovi contrattuali sperequati fra industria e pubblico impiego, fra operai o il complesso universo del mondo impiegatizio. C'è, quindi, un grande bisogno di una decisa ripresa della logica e della prospettiva confederale. Essa, infatti, non esaurisce i livelli e gli obiettivi della tutela del lavoro, ma può assicurare un ragionevole grado di equità, quando si ispira a questi tre principi: pari remunerazione per lavori ritenuti simili o comparabili; quote di riconoscimenti retributivi in ragione all'andamento economico del settore e impresa e in ragione del rendimento del lavoro; minimi salariali garantiti per i segmenti di lavoratori meno favoriti sul mercato e dalle condizioni di mercato. Una ripresa della confederalità può avvenire ''alla grande'' in caso di ampie solidarietà politiche e culturali e questo non è il caso del nostro paese. Una ripresa "pratica" può essere perseguita ponendo le domande rivendicative sotto i vincoli oggettivi (competitività, inflazione, debito pubblico). Ciò implica un ritorno dei settori manifatturieri come indicatori concreti e significativi della dinamica salariale, rispetto ai quali gli i>lt BIANCO lXltll.OSSO iiiiiihld altri settori non possono discostarsi. È quello che avviene ancora in importanti paesicome la Germania e ilGiappone. È esattamente l'opposto di quello che è avvenuto in Italia in questi anni, nei quali sono il pubblico impiego e taluni servizi essenziali a determinare il "clima" delle relazioni industriali, con effetti negativi sul piano dell'equità e, specificamente, per ciascuno dei tre principi sopra riportati. Immagino l'obiezione. Per realizzare quanto appena detto ci vorrebbe un governo forte e stabile. È vero, anche se si può osservare che un governo forte ciò farebbe anche senza i sindacati, come è già avvenuto, ad esempio, in Belgio e in Danimarca. Nel contesto italiano, molto può essere fatto dalle confederazioni e dai sindacati di categoria ad essi aderenti. Certo ci vuole coraggio e molto. Se l'unità sindacale fosse la condizione per realizzare il passaggio dal "circolo vizioso" delle giungle a quello "virtuoso" dell'equità, ben venga. Se essa si profilasse come un obiettivo prevalentemente di immagine e di rafforzamento organizzativo, il gioco, forse, non vale la candela. Milano. Apprendista di tipografia 1910. Tra errori del passato e nuove strategie Q ual'è oggi in Italia ed in Europa la prospettiva del sindacato? Si va verso una redistribuzione del potere che accorda maggiori ambiti di autonomia al "privato" rispetto al collettivo e pubblico? Si va quindi verso una riduzione del ruolo della politica? E se è così, quali sono i destini del sindacato? Quali sono questi destini in particolare in Italia, dove il sindacato è stato, sia pure per un breve periodo, più capace che in altre di Ada Becchi Collidà esperienze di farsi portatore di grandi obiettivi di trasformazione della società? Sembrerebbe questo il contesto problematico in cui si collocano le questioni più specifiche che la rivista pone. In altri termini, se è vero che i mutamenti in atto, ad est e ad ovest, in Italia e nel resto d'Europa, indicano il prevalere di modelli motivazionali antisolidaristici, quale sorte attende un sindacato come quello italiano che, pur nelle sue divisioni postbelliche, ha trovato la sua collocazione e ha fondato il suo titolo alla rappresentanza su un'idea forte di solidarietà? Supererà questo sindacato divisioni che l'eclissi delle ideologie renderebbe immotivate? Ritroverà un'impostazione rivendicativa, e prima di tutto un'autonomia di decisione ed azione, che gli consentano di rappresentare effettivamente il mondo del lavoro dipendente? Riuscirà, a partire da questo

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