{)!), BIANCO lX11,nosso •fr•~i•HN 3) - Quali sono gli argomenti con i quali pensate sia possibile dimostrare la «superiorità» del sindacalismo confederale? 4) - Quali sono i cambiamenti (organizzativi, culturali, rivendicativi, «politici») necessari ad un rilancio del sindacalismo confederale? 5) - Se il sindacalismo non è finito è comunque finita un'epoca (la classe operaia, la ricerca delle protezioni di base per il lavoro, il mito del «pubblico», ecc.). Cosa significa questo? Quali valori e quali ambizioni possono animare l'impegno dei dirigenti e dei militanti? 6) - È possibile oggi legittimare agli occhi dei lavoratori le vecchie divisioni fra le Confederazioni? Quali prospettive per l'unità? Quali cambiamenti saranno necessari nelle vecchie Confederazioni? Pubblichiamo, in questo numero della nostra rivista, una prima serie di risposte pervenuteci. Nel prossimo numero completeremo lapubblicazione degli interventi, troppo numerosi per stare in questo solo quaderno, e tireremo le nostre conclusioni, come ReS. Al vaglio dei nuovi problemi L ' idea di sindacato generale si configura sempre di più come un involucro dentro il quale ci sta una sostanza ben diversa: un insieme di categorie, gruppi, realtà organizzate ognuna delle quali tira l'acqua al suo mulino. Quando una organizzazione o un movimento negano nel proprio atteggiamento e comportamento soggettivo l'identità che proclamano questa è la tipologia più grave di crisi, quella che può dar luogo ad un processo di decadenza. Sono di opinione che questa sia la situazione prevalente del sindacalismo confederale italiano di qualsiasi sigla. Le cause di questa situazione sono molte. La principale risale alla divisione e contrapposizione che ci travaglia da circa un decennio con il suo snodo decisivodel 1984. Divisione e contrapposizione generano una concorrenza che non si svolge sul terreno di chi readi Aldo Amoretti lizza meglio l'interesse generale, ma di chi tutela meglio il gruppo rappresentato, anche se questo avviene a spese di un altro gruppo di lavoratori, oppure a spese dell'interesse generale che tuttavia si proclama di voler rappresentare. Ci si potrebbe dilungare in esemplificazioni, ma non è il caso di farla lunga. Tutto questo c'entra con l'autonomia, quella intesa nel rapporto con partiti e governi. Al dunque siamo stati in un incastro semplice: i comunisti a tirare per posizioni critiche verso i governi; tutti gli altri a tirare per la posizione opposta. È un ragionamento che andrebbe fatto meglio e fatto davvero anche relativamente al 1984, ma non si andrebbe tanto lontano: firmare prendeva il significato di aderire al governo, non firmare voleva dire essere all'opposizione. Ma si dirà che questo è il vecchio metodo di dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Certo si può imbellettare il discorso, ma ci sono an17 che slanci di interpretazione autentica da parte degli autori come quello di Gianni De Michelis che appena l' 11 settembre 1986, parlando a Orta in un convegno Anci-FedermeccanicaFedertessile, spiegava che il decreto sulla scala mobile aveva si un significato economico, ma lo aveva anche politico e cioè quello di mettere in riga lavoratori e sindacati. Un'altra ragione della mancata unità sta nel timore che i soli a guadagnare potessero essere i comunisti. È d'altra parte vero che il clima generato nel paese dal processo di unità dei migliori anni '70 aveva favorito i successi del partito che più si rappresentava come dei lavoratori; come è vero che l'assemblerismo favoriva l'egemonia delle forze più battagliere mettendo ai margini quelle di altra ispirazione. Né questo era mitigato dal garantismo nella formazione dei Consigli, o dalla pariteticità nella formazione degli organi
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