Il Bianco & il Rosso - anno II - n. 12/13 - gen./feb. 1991

L. 6.000 1 4 7 10 12 14 16 42 LBIA mt•nsilt• di dihattito politi('o S1wd. in ahh. postale - Gr. 111/70% • Anno II sommano gennaio/febbraio 191)1 EDITORIALE: Aspettando giugno..• Saddam permettendo, di P. Camiti ATTUALITÀ: Carcere: un mondo in evoluzione "Apologia" di una giusta legge, di M. Gozzini Tra leggi e problemi, la realtà, intervista a Nicolò Amato, di G. Gennari L'economia industriale oggi: al vaglio della crisi n linguaggio dei fatti, di S. Scaiola Prepensionamenti:un rimedio rischioso, di M. Bertin A nuovi problemi, soluzioni nuove, di M. Colombo DOSSIER: Futuro del sindacato e futuro delle Confederazioni Interventi di G.P. Cella, A. Amoretti, G. Baglioni, A. BecchiCollidà, M. Bordini, L. Borgomeo, R. Caviglioli, G. Cazzola, F. Farinelli, L. Filippi, A. Mariani, P. Merli Brandini, S. Miniati, I. Spezzano, R. Tittarelli, S. Veronese, S. Vinci, C. Squarzon L'EUROPA E IL MONDO: Elezioni pantedesche: la «Realpolitik» non basta, di N. Di Meola Cee: senQl Margareth, davanti q Saddam, di F. Mattioli 44 Cercando Europa, di G. Pellarini 46 Albania in bilico, di G. Castriota 47 L'Albania di fronte all'Europa, di A. Langer 48 DOCUMENTO: «La questioneoperaia», di C. Cantù 51 VITA DELL'ASSOCIAZIONE: "Sindacato doma- 57 ni. Le buone ragioni dell'unità" (Roma ll/XIl/90) Soggetti e strumenti della democrazia governante, di G. Amato Lavoro pubblico e privato: un dualismo da supera- 65 re, di G.P. Cella Una nuova costituzione delle relazioni sindacali, di 6!) G. Giugni III Forum di ReS: Cattolici, politica e riformismo 74 socialista (Venezia, 15/XII/90) Cattolici italiani e socialismo liberale, di G. Tassani Progressismo cattolico e riformismo socialista: un 7!) conflitto inevitabile? di A. Ossicini IMMAGINI: Lavoro industriale (1900-1950) Aspettando giugno ... Saddam permettendo di Pierre Camiti Meno due. Al fatidico gennaio 1993 mancano infatti ormai meno di due anni. Il terzultimo, quello che è appena terminato si è chiuso con un bilancio tutt'altro che esaltante. La ragione maggiore di preoccupazione è sempre la finanza pubblica. Il disavanzo che all'inizio dell'anno era stato programmato in 133 mila miliardi è salito attorno ai 180 mila, dei quali solo 30 mila, o poco più, sono stati recuperati nel corso dell'anno. Le

~-!.LUIANCO lXlt llOSSO 1811• 11 AliNI premesse per l'anno che è iniziato non sono migliori. Anzi. Il 1991 si presenta, infatti, come un anno di particolari difficoltà per il finanziamento del disavanzo, per la gestione dei tassi di interesse e quindi, in definitiva, per l'inflazione. In tutto questo la crisi del Golfo c'entra relativamente. Il rincaro del petrolio è stato finora assorbito dalla flessione del dollaro e quel poco, o quel tanto, che può aver ridotto la domanda mondiale potrebbe essere compensato dall'espansione tedesca che l'unificazione sta potenziando. Certo tutto può cambiare drammaticamente in peggio se la crisi sfociasse in una guerra. Al punto in cui siamo la possibilità concreta di scongiurare questo epilogo catastrofico sta nelle mani di Saddam Hussein. Non è facile immaginare le sue intenzioni. Certo i suoi comportamenti non inducono a valutazioni ottimistiche. Ha intrapreso una guerra contro l'Iran che doveva concludersi in due settimane e che è invece durata otto anni. Ha promosso l'invasione del Kuwait che doveva essere accettata, o perlomeno tollerata, dalla comunità internazionale, la quale invece ha mobilitato la più imponente armata dai tempi del secondo conflitto mondiale. Il meno che si possa dire è che la lungimiranza non è certo una sua virtù. Ma se, come noi continuiamo a sperare, il diritto sarà ripristinato ed il conflitto evitato dovremo fare seriamente i conti con le nostre difficoltà interne. In uno scenario di pace, agganciata alla Germania come è l'economia italiana, il quadro esterno non sarebbe poi tanto negativo, se non fosse per il fatto che essa non ha la forza per approfittarne. Al di là delle dispute se nel mondo ci sia recessione o soltanto rallentamento produttivo, se il ciclo di sviluppo sia stato arrestato da Saddam o da motivi preesistenti alla invasione del Kuwait, fatto sta che le condizioni comatose della finanza pubblica ed il collasso della pubblica amministrazione hanno un peso sempre più grave per il nostro apparato produttivo. La conseguenza è che la quota del mercato mondiale coperta dalle esportazioni italiane si va riducendo. Segno questo di una perdita di competitività del sistema produttivo. A causa della tradizionale preferenza della nostra classe dirigente a curare i sintomi anziché la malattia, si accentua l'attenzione sul costo del lavoro. Si accentuano anche di conseguenza le aspettative miracolistiche per il negoziato previsto a giugno sulla cosiddetta «ri- • ? ■ - forma della struttura del salario». Nessuno sa esattamente cosa significa questa formula magica. Per ora si deve constatare che per ciascuna delle parti in causa: governo, sindacati, Confindustria, essa ha un significato diverso. Sicché sarà difficile non solo (com'è naturale in ogni trattativa) mettersi d'accordo sul come risolvere i problemi ma, addirittura, stabilire quali dovrebbero essere i problemi da affrontare. Per il sindacato lo scopo del negoziato dovrebbe essere soprattutto una duplice razionalizzazione: del salario e delle contrattazioni. Problemi che sono sul tappeto da 20 anni e che per misteriose ragioni oggi sono considerati urgenti. Per il ministro del Bilancio Cirino Pomicino c'è invece «un problema di costo del lavoro da affrontare ... inteso nella sua globalità come questione salariale, fiscale e contributiva». Secondo le spiegazioni dello stesso ministro si dovrebbe discutere di scala mobile, di fiscal drag, di contributi sociali. A sua volta la Confindustria, per bocca del suo vice presidente Carlo Patrucco, assegna all'appuntamento di giugno non solo l'esigenza «di trovare una sostituzione alla scala mobile e disquisire di altre tecnicalità», ma soprattutto quella dovrebbe essere «l'occasione per mettere in moto una revisione complessiva della struttura del costo del lavoro intervenendo sui diversi aspetti che penalizzano le imprese italiane». Come si può vedere sull'oggetto di questo possibile confronto si fanno tante ipotesi che comunque finisca (immaginando che possa cominciare) si troverà sempre qualcuno che potrà dire: «l'avevo detto». Con opinioni così diversificate la cosa meno improbabile è che alla fine, come è già avvenuto lo scorso anno, tutto si risolva in un po' di fiscalizzazione di contributi sociali. La Confindustria, del resto, non perde occasione per lamentare che il peso dei contributi sociali sulle imprese italiane sarebbe eccessivo. Dal confronto sull'incidenza effettiva dei contributi obbligatori sul costo del lavoro risulta, in effetti, che l'Italia si colloca nella fascia alta (18,5% rispetto ad una media Cee del 16%). Ma va anche detto che è superata dai suoi più importanti partners commerciali, a incominciare dalla Francia e dalla Germania (che presentano rispettivamente incidenza del 23,6% e 20,3%). Anche se poco fondata, la querelle della fiscalizzazione è aperta da tempo. Quando, in seguito alla riforma sanitaria, si sono estese le prestazioni dai lavoratori alla genera-

~.lLBIANCO i.xli.BOSSO •l11k1A1 liMN lità della popolazione rendendole un bene pubblico si è incominciato infatti anche a discutere il passaggio da un sistema di finanziamento fondato sui contributi in proporzione ai salari ad un metodo più simile a quello danese basato sul sistema tributario generale. Per varie difficoltà non se ne fece nulla. Qualche anno più tardi, per distribuire un po' più equamente il costo del finanziamento del sistema sanitario, è stata istituita la «tassa sulla salute» per il lavoro autonomo e per i redditi diversi da quelli da lavoro dipendente. Si deve dire, tuttavia, che non sono stati adeguatamente risolte, né le esigenze di equità, né quelle del finanziamento del sistema sanitario. Anche se in Europa il sistema contributivo è la regola ed il sistema tributario l'eccezione, nulla naturalmente impedisce che da noi siano cercate soluzioni ritenute più funzionali. La prima cosa che serve è, però, quella di avere ben chiare le conseguenze delle diverse soluzioni che si ipotizzano. Bisogna sapere quindi che con il finanziamento della sicurezza sociale attraverso la tassazione, come in Danimarca, si riduce il peso del costo sul lavoro, ma non sull'intera economia. Questo significa che per poter pagare meno contributi le imprese devono pagare più tasse. Come in Danimarca, appunto. A sua volta il finanziamento di una riduzione dei contributi con un aumento del1'I va sui consumi (soluzione caldeggiata dalla Confindustria) riduce il peso della contribuzione sul costo del lavoro e consente un vantaggio competitivo perché l'Iva è recuperata sulle esportazioni. Ma questo meccanismo innesca tensioni inflazionistiche, perché l'aumento dell'Iva si trasferisce immediatamente sui prezzi al consumo, mentre gli sgravi contributivi si trasferiscono solo con ritardo o non si trasferiscono affatto sui prezzi. Con un'inflazione doppia rispetto all'Europa dovremmo guardarci bene dall'assumere decisioni che la possano aumentare. Infine, secondo alcuni sindacalisti un'alternativa potrebbe essere quella di un finanziamento della fiscalizzazione dei contributi malattia attraverso un prelievo commisurato al valore aggiunto prodotto. Ma un'imposta sul valore aggiunto prodotto avrebbe conseguenze negative per gli investimenti. E con la disoccupazione che ci ritroviamo non sembra proprio un'idea da incoraggiare. In ogni caso ciò che non può essere offuscato è che, al punto in cui siamo, non esistono pranzi gratuiti e quindi il confuso happening previsto a giugno non può certo risol- - 3 - - - versi in una tresca con un trasferimento di oneri a carico del bilancio dello Stato. Semmai il disastro della finanza pubblica, che è divenuto un autentico nodo scorsoio per l'economia, esigerebbe, al contrario, che il confronto fosse finalizzato ad un convergente impegno di severe misure di risanamento del disavanzo ed in questo quadro di una efficace politica dei redditi. Ma a simile approdo, almeno per il momento, le parti sociali non sembrano orientate. Per la verità anche tra i responsabili del governo dell'economia c'è chi pensa che l'adozione di una drastica politica dei redditi non sia poi la cosa più urgente e che comunque essa non dipenda dal consenso delle parti sociali. Secondo questa visione delle cose, in un sistema di cambi fissi la politica dei redditi sarebbe ormai determinata dal cambio. Chi volesse infatti spingere i redditi oltre il cambio «alla fine fallisce o viene licenziato». L'argomentazione potrebbe apparire persuasiva se non fosse contraddetta dal fatto che in metà dell'economia (nel settore pubblico ed in tutti quelli non esposti alla concorrenza interna ed internazionale) non si corre il rischio né di fallire, né di essere licenziati. Del resto, fuori da un accordo e da un esplicito impegno triangolare, qual'è l'alternativa? Che siano Cirino Pomicino e Gaspari a garantire per il settore pubblico il rispetto delle compatibilità che la situazione economica del paese esige? Sarebbe, come ha osservato argutamente un sindacalista, affidare alle volpi la guardia del pollaio. Non è un pregiudizio, ma piuttosto la constatazione di ciò che è stato fatto con i contratti del pubblico impiego appena firmati e già in fase di rinnovo. Ma se la politica dei redditi non può essere affidata al volonteroso funambolismo finanziario di qualche ministro, non può nemmeno essere fatta senza una coerente azione di governo. E questo è un punto delicato. Ci si deve chiedere se si può realisticamente affrontare una questione così impegnativa con un governo traballante e quindi non in grado di assumere obbligazioni per il futuro? Poiché si deve dare ragionevolmente una risposta negativa, un chiarimento politico appare non solo necessario, ma prioritario. Il resto, comprese le divisioni, le dispute, le insicurezze del movimento sindacale si collocano soltanto nella mischia delle cose che confondono e delle quali sarebbe bene liberarsi se si vogliono scongiurare i rischi di soluzioni finte per problemi veri.

~!I, BIA!\CO il-11,ROSSO iii•lil•Q Carcere: un mondo in evoluzione Sulla«leggeGozzini», taloraancheimpropriamente,e in generesulla realtàdellecarceriitalianedopo la legge di riforma carcerariavaratanegli scorsi anni, nell'opinionepubblica italiana è stata, ed è, polemica. Abbiamo ritenuto opportuno chiederealprof Mario Gozzini, che ringraziamodi cuore, un articolosulle vicenderelativea questa leggeche hapreso il suo nome - comeprimo dei tantissimifirmatari dellarelativaproposta - e che continuaafar discutere.Sullasua conferma, cheper fortuna pare assicurata,sebbenecon alcune correzioni«tecniche»,o sullasua cancellazione è in corso un dibattito in Parlamentoe all'internodel Governo stesso. Contemporaneamente ci è parso necessarioandarea «tastare il polso» dellarealtàcarcerariain sensostretto. In questo numeropubblichiamo una intervistaal Dr. Nicolò Amato, DirettoregeneraledegliIstituti di Prevenzione e Pena. Nei prossimi numeri torneremo sull'argomento. ''Apologia'' di una giusta legge di Mario Gozzini e he il legislatore italiano abbia tendenze schizofreniche, è un dato certo. Basta pensare ai termini di custodia cautelare, o carcerazione preventiva (come si diceva prima de11'84), ora abbreviati (reiteratamente condannati in sede internazionale come siamo, per la loro lunghezza), ora riallungati per evitare scarcerazioni di pericolosi criminali i cui processi non si è riusciti a concludere in tempo utile. Un'altra conferma delle tendenze schizofreniche è venuta dalla vicenda del decreto legge contro la criminalità nella parte che riguarda l'ordinamento penitenziario: blocco per cinque anni, ordina il governo, la Camera dice no, e indica una strada molto diversa. Terzo esempio: mentre siamo «in guerra» (dice il ministro Scotti) e la stampa chiede a gran voce provvedimenti restrittivi, il legislatore vara un ampio indulto. A proposito del quale due annotazioni: se è diretto a sanare le ineguaglianze fra chi fu giudicato col vecchio codice e chi secondo il nuovo rito, bisognava farlo prima e congegnarlo meglio; la modifica costituzionale per ridurre la possibilità del ricorso a misura di clemenza (in media una ogni tre anni), limitata com'è a richiedere la maggioranza dei due terzi, non serve proprio a nulla, perché amnistie e indulti sono sempre stati ap-

B iii•ii••d provati quasi all'unanimità. Ma torniamo alla vicenda del decreto legge: una vicenda ancora lontana dalla conclusione al momento in cui scriviamo. Ma alcune cose sono ormai del tutto chiare e inequivocabili. La prima è che si è fatta una gran confusione: scaricando sull'ordinamento carcerario colpe che non sono affatto sue. Come gli arresti domiciliari al terrorista Maietta «per motivi di studio», concessi dalla Corte d'Assise subito dopo averlo condannato in primo grado a 27 anni di galera: provvedimento aberrante per il quale il Procuratore generale della Cassazione ha avviato opportunamente procedimento disciplinare contro il presidente di quella Corte. Come le scarcerazioni di decine e decine di fior di criminali o per decorrenza termini di custodia cautelare o per decisioni quanto meno discutibili della Suprema Corte, comunque a seguito di provvedimenti in corso di processo che nulla hanno a che fare con le norme penitenziarie, le quali riguardano solo i condannati definitivi, con sentenza passata in giudicato. Quando Andreotti dice che le nostre carceri hanno le porte girevoli, può anche dire qualcosa di esatto. Ma se la prenda prima di tutto con la lentezza insopportabile dei processi. Ora la confusione fra scarcerazioni dovute alla procedura processuale, decise dai giudici procedenti, e scarcerazioni dovute ai «benefici» previsti nell'ordinamento penitenziario, decise dai giudici di sorveglianza, è da addebitare, sì, alla superficialità e alla disinformazione di una parte dei media ma anche a un disegno politico preciso: far pensare alla gente che le disfunzioni, diciamo pure gli scandali, della nostra giustizia dipendano soprattutto, se non proprio esclusivamente, dal lassismo nei confronti dei condannati, da una legge penitenziaria «di nobile ispirazione», ma irrealistica e pericolosa. Fa parte di questo disegno la personalizzazione insistita e insolita sul mio nome, quasi a indicare un capro espiatorio. Ciò che è contrario non solo alla verità formale - legge dello Stato, approvata da un Parlamento unanime - ma anche alla storia - la legge 663/86 fu scritta da autorevolissimi giuristi, Giuliano Vassalli e Marcello Gallo in primo luogo (anche se ciò non risulta dagli atti parlamentari perché si lavorò in comitato ristretto dove non si verbalizza); io, non giurista, feci prevalentemente la parte dello stimolatore implacabile, per esempio costringendo Vassalli a rinunciare, il mercoledì, alla pennichella pomeridiana. D'altronde, se la legge è nota sotto - ---- - ---- -- 5 il mio nome, ciò si deve al fatto che, una volta manifestata la volontà concorde di maggioranza, opposizione e governo, di rivisitare tutto l'ordinamento del 1975, Martinazzoli ministro rinunciò, per accelerare i lavori, a presentare un progetto governativo e decise che si sarebbe proceduto per emendamenti aggiuntivi a un mio disegno di legge, limitato e timido, del 1983, volto soprattutto a disciplinare legislativamente la «massima sicurezza», ossia i carceri speciali degli anni di piombo, allora abbandonati alla totale discrezionalità dell'amministrazione. La seconda cosa chiara è la resistenza della Camera, per me imprevedibile in quella misura, al decreto legge del governo. Una resistenza che esprime una consapevolezza cresciuta non solo in ordine al superamento della cultura meramente custodialistica del carcere, ma anche sugli aspetti positivi realizzati nei fatti dall'ordinamento: scomparsa della violenza nelle carceri, diminuzione delle recidive (lo ammettono perfino i carabinieri) attraverso il riconoscimento dello Stato e della legge e il progressivo reinserimento sociale da parte della stragrande maggioranza dei condannati (oltre il 98% di «benefici» andati a buon fine). La rivolta di Porto Azzurro nel 1987 poté concludersi, grazie alla legge, senza una goccia di sangue laddove nel carcere di Alessandria, nel 1974, una rivolta di proporzioni molto minori si chiuse con morti e feriti. Altra cosa chiara: lo schieramento della Chiesa in modo compatto dalla parte della legge. Non solo i cappellani e la stampa cattolica; non solo i gruppi di volontari; ma anche le più alte autorità hanno fatto sentire la loro voce. Penso alla lettera del card. Poletti, presidente della Cei, ai detenuti: un documento esemplare, nella sua stringatezza, per solidarietà umana e nitidezza dell'appello alle autorità civili. Penso al discorso del card. Martini ai detenuti del carcere di Opera (Milano), centrato sul «patto d'alleanza» e sulla «fiducia sociale», in pratica uno splendido incitamento a rispettare la legge, a tornare regolarmente in carcere dal permesso o dalla semilibertà. Credo si debba dire che si è verificato un esempio eccellente (e raro) proprio di quella collaborazione fra Stato e Chiesa sancita nel nuovo Concordato; nel senso che la Chiesa, pur rimanendo nell'ambito della sua missione specifica, ha aiutato lo Stato sia a prender coscienza dei valori contenuti nelle sue stesse leggi (lo ha riconosciuto esplicitamente l'on. D'Onofrio nell'aula della

~!I.BI.\NCO lXll.llOSSO iii•iiilil Camera) sia a far crescere l'opinione pubblica dall'emotività impulsiva al discernimento sereno di quegli stessi valori. Meno chiara è l'oggettiva separazione che va fatta fra criminalità organizzata di stampo mafioso e terrorismo. Questo voleva abbattere lo Stato, uccidere i suoi «servitori» più fedeli, assaltava le banche per finanziarsi. La mafia nello Stato, nelle banche, nei consigli elettivi si infiltra e cerca di servirsene per i suoi scopi criminosi di guadagni illeciti. Ecco perché il decreto, nella parte penitenziaria, era irrazionale: il blocco temporaneo per cinque anni trascurava del tutto il fatto che la criminalità organizzata è un fenomeno endemico di questa società, non è una emergenza. Illudersi di poterlo debellare in cinque anni è peggio che sbagliato; è mentire sapendo di mentire. Molto più razionale scegliere la strada dell'indurimento permanente delle norme per i condannati per mafia, sequestro di persona, narcotraffico: possibilità dei permessi-premio non dopo un quarto di pena scontata (troppo poco!) ma dopo metà e anche più; idem per le misure alternative; necessità della prova che ogni collegamento con le cosche criminali è davvero interrotto, e da tempo. Due considerazioni finali. La prima riguarda il fatto, abbastanza strano, che nessuno parla della «sorveglianza particolare», l'istituto destinato ai detenuti particolarmente pericolosi. Sui tre articoli relativi della legge, 14 bis, ter e quater, la Commissione giustizia del Senato, fra 1'83 e 1'85, lavorò più a lungo e Trieste 1902. Manifestazione I Maggio. 1 6 con maggiori fatiche che su tutto il resto della legge. Perché questo istituto - chi vi è assegnato è evidentemente escluso da qualsiasi concessione - non è applicato? Se le procedure sono ritenute eccessivamente garantiste, lo si dica, se ne discuta, eventualmente si correggano le norme. Quello che mi sembra inaccettabile, è il silenzio, il far come se quegli articoli, quell'istituto, non ci fossero. La riforma degli Agenti di custodia è giunta finalmente in porto, con quindici anni di ritardo; avrebbe dovuto essere fatta contemporaneamente alla riforma per i detenuti e invece si finì per versare vino nuovo in otri vecchi. Si tratta ora di attuarla quanto più celermente possibile: spetta ai partiti, al Parlamento, vigilare attentamente, in particolare per quanto riguarda la preparazione prof essionale, demandata dalla legge a una commissione da costituire e da far funzionare. Quanto ai direttori, educatori, assistenti sociali - per i quali nulla ancora si è fatto, salvo qualche adeguamento economico e di organico - si ricordi che si hanno vuoti, negli organici stessi, anche per più del 500Jo,col fenomeno costante, che anzi si va accentuando, degli esodi precoci. In queste condizioni di personale, bisogna onestamente riconoscere che l'ordinamento penitenziario ha avuto un'esecuzione molto positiva. Con le minime percentuali di mancati ritorni dalle uscite legali e con un numero di delitti gravi, commessi durante queste uscite, che non superano le dita di due mani.

Pll, lllAl\1(;() l.X.11.nosso iii•iii•Q Tra leggi e problemi, la realtà di Giovanni Gennari Nicolò Amato, siciliano di Messina, 56 anni, magistrato. Da sette anni, dopo venticinque di carriera come giudice, e con nel curriculum processi sulla vicenda Moro e sull'attentato a Giovanni Paolo II, è direttore generale degli Istituti di Prevenzione e Pena. Un mondo, con circa 250 carceri, 30,000 detenuti (erano 35.000 fino al recentissimo indulto) e 30.500 agenti di custodia. Con lui abbiamo parlato della situazione generale delle carceri, dopo la legge di riforma penitenziaria, che nel 1975 attuò l'artico/o 27 della Costituzione (pene non disumane e tendenti alla rieducazione e al recupero), e dopo circa quattro anni di applicazione della legge 663/86, detta correntemente «legge Gozzini». Nei giorni in cui il direttore Amato ci ha rilasciato l'intervista era in corso, in Parlamento, la discussione sugli eventuali ritocchi migliorativi alla «Gozzini», e quindi ci è parsa comprensibile la sua prudenza, in merito. Per i lettori ricordiamo che nella legge sono previsti, in sostanza, cinque benefici solo per i carcerati già condannati con sentenza definitiva: lavoro esterno, affidamento inprova al servizio sociale, permessi-premio, semilibertà e detenzione a domicilio. Ci interessa, Presidente, parlare di due argomenti: la attuazione della cosiddetta «legge Gozzini» e, innanzitutto, la situazione generale delle carceri italiane.· Cominciamo di qui. Sei anni fa, in una intervista, lei parlò con preoccupazione dell'organico ... A che punto siamo, oggi? «Vanno tenute presenti le singole categorie del personale. Per i direttori, ad esempio, l'organico prevederebbe 505 persone, ma noi ne abbiamo solo 261. Di fronte ad un organico previsto di 860 Educatori ne sono presenti 504. Degli 880Assistenti sociali in organico ce ne sono 531». Ma chi dovrebbe provvedere? E perché la cosa non avviene? «Le cause sono diverse. Innanzitutto è da tempo in vigore un blocco dei Concorsi, perché si vuole che prima si completi il processo di mobilità interna al personale della Pubblica Amministrazione. C'è una legge apposita che prevede le possibilità di passaggio da una amministrazione ad un'altra, da un Ministero ad un altro, e allora sono stati bloccati i Concorsi... Questo vuol dire che per fare un Concorso noi abbiamo bisogno di una deroga esplicita. Di qui una ragione del blocco. C'è anche il fatto che, obiettivamente, la mobilità interna non ci favorisce davvero: la gente tende a trasferirsi in posti più tranquilli, con meno rischi, meno responsabilità, e meno in prima linea... Ora la cosa si dovrebbe sbloccare. C'è un disegno di legge del Governo che tende a sbloccare i Concorsi per tutta l'amministrazione della giustizia. Ma c'è anche il problema della lentezza delle procedure, che rendono lunghi i nostri Concorsi. Però ritengo che queste carenze di organico siano in fase di superamento. Grazie a queste deroghe eccezionali, e allo sblocco generale dei Concorsi penso che copriremo con rapidità i posti vacanti. La situazione difficile, dunque, è in via di superamento. E in questo contesto va anche collocata, in questi giorni, la leggedi riforma del Corpo degli agenti di custodia, che trasforma profondamente l'amministrazione penitenziaria. Essa prevede la smilitarizzazione degli stessi agenti, che vengono sostituiti dal Corpo di polizia penitenziaria, che comprende gli uomini e le vecchie vigilatrici... ». •. • 7

.i>ll. UIANCO '-Xli. nos.so iii•iil•ii La situazione dovrebbe migliorare? «Si, perché si prevede un consistente aumento dell'organico. Oggi siamo circa a 30.500 agenti, dovrebbero diventare 40.000 in breve tempo. Ma il miglioramento della situazione dipenderà anche da altri fattori. Il Corpo di Polizia penitenziaria assumerà gradualmente nuovi compiti, come il piantonamento dei detenuti ammalati in ospedale e la traduzione da un carcere all'altro o dal carcere nelle aule dei tribunali. Erano compiti finora svolti dai carabinieri e dalla Polizia ... ». In questo contesto di difficoltà, ma anche di rinnovamento, qual'è stata l'esperienza della applicazione della "legge Gozzini", e delle discussioni attuali, vista da voi, dall'interno delle carceri? «In sostanza non ci sono stati episodi preoccupanti. Dal momento in cui la legge è stata messa in discussione, in pubblico e sugli organi di stampa, noi abbiamo avuto manifestazioni di detenuti, ma assolutamente pacifiche, che sono consistite in alcuni scioperi della fame o nella pubblicazione di alcuni documenti, molto civili e molto ragionevoli. Noi, quindi, non abbiamo avuto ragioni di preoccupazione o di allarme. D'altra parte mi sembra di poter dire che in tutto questo dibattito, nessuno abbia messo in discussione l'ispirazione e i principi della legge di riforma. Si è soltanto posto un problema specifico, che nasceva da fatti reali, giacché si erano verificati alcuni casi negativi. Questo bisogna ammetterlo». Ma a quanto pare i casi negativi, che hanno fatto discutere, non venivano dall'applicazione della legge Gozzini ... «Alcuni no. E questo va detto come chiarimento preliminare. Quando per esempio si parla di una scarcerazione per "decorrenza dei termini", come nel caso dei 14 mafiosi di Torino, la Gozzini non c'entra nulla. E quando si tratta degli "arresti domiciliari" dati ad un terrorista condannato per omicidio, ciò non ha a che vedere neppure con la legge di riforma. Alla legge, in realtà, si possono riferire solo alcuni casi. Li ho contati: in quattro anni, quelli più clamorosi, sono stati sette o otto, relativi a dodici o quattordici detenuti. Si tratta di detenuti particolarmente pericolosi, cui onestamente i benefici non avrebbero dovuto essere concessi. Invece sono stati concessi, e questi sono scappati, e poi qualcuno di loro ha I x commesso altri delitti. .. Io comprendo che l'opinione pubblica sia rimasta turbata, e giustamente, da questi fatti, e dico che è doverosa ed elementare la solidarietà per le vittime di questi ulteriori atti di violenza, ma non mi pare che il punto essenziale sia questo. Il punto essenziale è che la legge di riforma è stata una legge molto positiva, che ha migliorato le condizioni delle nostre carceri, ci ha dato un sistema penitenziario molto civile, ci ha messi all'avanguardia nel mondo. Essa va difesa, va salvata, e non deve essere messa in discussione. L'inconveniente è venuto da alcune applicazioni della legge. Una legge buona può anche essere, talora, applicata male. Qui è il punto, e mi pare sia sostenuto in pieno anche dal dibattito parlamentare in corso: salvare la legge, sia quella di riforma che la cosiddetta "Gozzini", e correggere dove occorre la sua applicazione». A questo proposito qualcuno pensa che una delle cause della cattiva applicazione si stata una certa discrezionalità lasciata al singolo giudice,chequindi è solodi fronteal detenuto che chiede i benefici. Quanto più questi è pericoloso, tanto più può intimorire il giudice perché gli conceda ciò che chiede ... «Le rispondo con franchezza. Su un piano teorico non si può escludere che ambienti criminali esercitino pressioni. Ma io sono profondamente convinto che la assoluta generalità dei magistrati e degli operatori penitenziari non è influenzata da tali pressioni, e da tali minacce. Se queste ci sono, - e certo non sono diffuse come si può credere - , riguardano solo determinate situazioni, ma sono del tutto inefficaci. Certamente non sono una realtà piacevole, perché nessuno vuole essere minacciato ... E direi di più: se da un detenuto vengono delle minacce, allora quello è certamente un detenuto che non ha diritto ai benefici, perché ancora legato alla mentalità e agli ambienti criminali». Ma allora da dove sono nati gli inconvenienti? «Mi pare che ciò che è mancato, e che è il principale correttivo da apportare, è l'avvertenza che, quando si tratta di un detenuto che ha commesso un delitto particolarmente grave, che mostra un suo collegamento con la criminalità organizzata (commercio organizzato di droga, sequestri di persona, terrorismo ... ),

.,\).f-1. HIANOl l.Xll.llOSSO iii•iil•il prima di concedere il beneficio si deve verificare attentamente se quei collegamenti con l'organizzazione criminale sono ancora in atto, o sono cessati. Questo la legge in qualche modo già lo prevede, ma è il caso di insisterci con molta maggior attenzione e con maggiore rigore. Però ciò spetta alla Polizia. Solo la Polizia può accertare se un detenuto ha ancora collegamenti con ambienti criminali. Se questi ci sono il discorso è netto: niente benefici. A me sembra che questa sia la direzione in cui si sta muovendo anche il dibattito, pubblico e parlamentare. E ciò è in difesa della legge, perché quando si concede un beneficio ad un detenuto che non ne ha diritto, allora si lavora contro la legge, la si scredita e si suscita nell'opinione pubblica una reazione che poi riguarda la legge stessa nel suo complesso. Quanto alla discussione specifica sulla "Gozzini", mi pare sia avviata in modo sereno e costruttivo. Ho avuto una audizione alla Commissione Giustizia della Camera, ed ho visto molta attenzione, senso di responsabilità ed equilibrio. Non sta a me entrare in valutazioni politiche, sul decreto o su questa o quella correzione da apportare alla legge. Il centro del problema, che riguarda anche l'amministrazione, è che si sia avviato un dibattito serio. Ciò che serve è che ci sia, da parte di tutti, il senso di responsabilità ed anche quello della necessità di una informazione esatta, perché l'opinione pubblica non sia falsamente indotta a far carico degli inconvenienti alla legge di riforma. Ognuno ed ogni cosa deve rispondere soltanto delle proprie responsabilità». J\n ----- ATII~T A.DISTA Agenzia di notizie, documenti e rassegne: tutto quello che avviene, si dice, si scrive e si tace nel mondo cattolico italiano e internazionale esce due volte a settimana Con alle spalle ben 24 anni di attività informativa ADISTA si propone quest'anno di potenziare i suoi servizi e di allargare il già vasto campo dell'utenza ADISTA assicura, 2 volte a settimana, dierettamente a casa degli abbonati, la più ampia e tempestiva informazione dal e sul mondo cattolico italiano e internazionale, con appena 40 mila lire l'anno d'abbonamento Chi, oltre al proprio abbonamento (nuovo o rinnovavate), ne procura uno nuovo, riceverà in Omaggio l'ultimo libro di GONZALEZ RUIZ «LA CHIESA NELLE INTEMPERIE» Anche i nuovi abbonati, procurando un altro abbonato hanno diritto al libro di Gonzalez in omaggio ABBONAMENTO 1990: L. 40.000 Versamento sul ccp n. 33867003, oppure assegno bancario non trasferibile, oppure vaglia postale. intestare a: ADISTA - Via Acciaiali, 7 00186 Roma Di ADISTA hanno scritto: ' ' ADISTA, redatta con intenti critici e con taglio apertamente ecumenico, svela sovente anche I'«altra faccia• della realtà ecclesiale, i «nodi• che la stampa diocesana non sempre ha il coraggio di affrontare, sia per oggettiva mancanza di informazione adeguata, sia per un certo timore reverenziale che ancora si avverte in molti periodici di casa nostra quando è in gioco l'istituzione ' ' Angelo Montonati (Vita pastorale n. 5/89) ' ' AD/STA è il miglior osservatorio esistente in Italia per quanti sono interessati a seguire l'attività del mondo religioso, ' Enzo Forcella (Epoca 13-8-1987)

{)JJ, BIANCO lX11.nosso iii•ii•id L'economia industriale • • oggi: al vaglio della CflSl "La festa è finita": ha detto così, di recente, il presidente della Fiat Gianni Agnelli parlando della crisi attuale della società industriale e volendo come mettere sull'avviso leforze politiche e sindacali circa la necessità di contromisure economiche e occupazionali per consentire al più presto il superamento della crisi stessa. Noi di ReS siamo convinti che ci sono molti in Italia, soprattutto tra i lavoratori dipendenti, che a proposito di questa "festa" non si sono neppure accorti che sia cominciata. In ogni caso sui rimedi prontamente proposti da alcune imprese e presentati dalla stampa come panacea di ogni crisi abbiamo ritenuto opportuno riportare l'opinione di alcuni esperti: Silvano Scaiola, sindacalista Cis/; Mario Bertin, direttore delle Edizioni Lavoro; Mario Colombo, presidente dell'Inps. La discussione su "Il Bianco & il Rosso" resta comunque aperta. (G.G.) Il linguaggio dei fatti di Silvano Scaiola S ettori importanti del sistema industriale italiano sembrano rispondere con i fatti alla "crisi" già annunciata dalla Confindustria da alcuni mesi. È in vistoso rallentamento il settore automobilistico; sono sul tappeto 4000 esuberi all'Olivetti, 2300 alla Fiat Geotech, 572 alla Snia Bpd, un migliaio alla Philips. Complessivamente si stimano 30.000 esuberi nel settore meccanico, 5.000 nella siderurgia, 10.000 nel settore chimico. Nel settore tessile, il "ridimensionamento" annunciato parla di 300.000 lavoratori entro i prossimi dieci anni. Fin qui la crisi visibile perché evidente, i dati che fanno notizia. Sicuramente il disagio attraversa ampi strati dell'impresa minore, portando complessivamente ad un'inversione di tendenza rispetto agli ultimi quattro anni. Quali le cause, quali possono essere le previsioni per il futuro? La diagnosi non è semplice, perché cause di lungo periodo si intrecciano con appuntamenti storici, come il comple- : IO tamento del mercato comune europeo ed episodi dagli esiti incerti, come la crisi del Golfo. Una prima valutazione è che sicuramente assistiamo ai primi effetti di una trasformazione di lungo periodo già in atto nella base produttiva, che ridimensiona settori tradizionali, a effetto negativo sull'ambiente o più facilmente decentrabili a livello internazionale. È l'onda lunga descritta da Alvin Toffler, destinata a portarci in un ambiente "post industriale'' nel giro di qualche anno. È il caso del1'auto, della chimica, del tessile, amplificati da una congiuntura sfavorevole. In secondo luogo il ciclo di investimenti avviato con forza dal 1986 sta dando i primi risultati in termini di capacità di razionalizzazione e produttività del lavoro industriale, il che spiega la caduta dell'occupazione ed i fenomeni di espulsione del lavoro, evidenti anche per gli impiegati. Saranno i giovani assunti con il contratto di formazione lavoro nel corso

i>ll BIANCO '-Xli, BOSSO iiiiliNNli di questi anni i soggetti adatti a gestire la nuova fase industriale, più esigente in termini di qualificazione, scolarizzazione, familiarità con le nuove tecnologie. Il terzo effetto, già visibile, è quello delle politiche d'ingresso nell'Europa del 1992. La competizione " a tutto campo" sta già producendo visibili effetti in molti settori, in termini di decentramento produttivo e razionalizzazione. Per l'industria italiana la politica di cambio adottata con grande consenso generale ha fatto emergere, oltre che il problema del debito pubblico, un differenziale negli andamenti dei costi monetari del lavoro con i paesi concorrenti, non più mascherabile con una accorta politica di navigazione della lira fra dollaro e marco. L'aggancio stretto con la moneta tedesca, oltre la necessità di mantenere elevati i tassi di interesse reali per sostenere una massa di debito pubblico ormai pari al Pil, ha drammatizzato sia il tema della scala mobile che del costo del lavoro industriale. Gli obiettivi di distribuire incrementi di produttività ai lavoratori dell'industria e del sostegno del debito pubblico sono ormai chiaramente inconciliabili. Basti pensare che nel 1991 è previsto un aumento del Pil dell'l %, mentre il pagamento degli interessi sul debito dovrebbe assorbire una quota Pil almeno del 5-6%. Pagare il biglietto d'ingresso per non essere schiacciati dalla competizione comunitaria significa ridurre di oltre la metà un tasso di inflazione italiano che è almeno il doppio della media comunitaria. Il dover trasferire risorse ai possessori italiani ed esteri di titoli del debito pubblico spinge l'industria ad accelerare, dove e quando può, i suoi progetti di ristrutturazione e razionalizzazione, avendo pochissimo da offrire ai lavoratori coinvolti. Il caso italiano, in cui il livello di valore aggiunto prodotto dall'industria manifatturiera sul totale è molto meno elevato che in paesi come la Rft o il Giappone, offre spazi minori alla diversificazione industriale ed alle opportunità di spostare la produzione in settori con tecnologie avanzate. Per il sindacalismo industriale italiano l'orizzonte è particolarmente duro. L'ingresso nell'ambiente europeo da un lato ha ridotto le categorie di riferimento culturali al puro gioco del mercato, inteso come entità sempre più astratta e prossima alle categorie dello spirito; dall'altro ha portato ad una difesa difficile delle garanzie sociali esistenti, come la scala mobile e la cassa integrazione, poco esportabi- : - 11 Genova. Stabilimenti Ansaldo, 1907. li nell'area delle relazioni industriali dominate dal marco. Il dilemma se costruire un sistema di garanzie più adatto ad uno spazio sovranazionale o ''partecipare'' alla gestione di crisi occupazionali dirette dalle logiche oggettive del mercato allargato, è evidente nelle prime risposte alla Fiat, all'Enimont, all'Olivetti. A nessuna delle due ipotesi il sindacalismo italiano ed europeo sembra essere credibilmente attrezzato a rispondere. La nuova fase propone un percorso di crescita notevole e vaste sprovincializzazioni. È anche evidente che il riferimento alle modalità di gestione della ristrutturazione della prima metà degli anni ottanta è insufficiente. Gli spazi sono più stretti e gli ammortizzatori più consumati.

i>ll, BI.\\U) lXII.HOSSO iiliiilid Prepensionamenti: un rimedio rischioso di Mario Bertin L a previdenza è un settore cui frequentemente si è fatto ricorso per intervenire sia sulla distribuzione del reddito, sia a sostegno dell'attività produttiva. In tale ambito, uno degli strumenti maggiormente utilizzati nel corso degli anni Ottanta, per far fronte alle crisi e alle ristrutturazioni aziendali, è stato l'istituto del prepensionamento. E ad esso si continua a rivolgersi ogni qualvolta si profilano eccedenze di manodopera, con l'obiettivo di dirottare sulla collettività gli oneri che dovrebbero ricadere sull'azienda o sui singoli lavoratori giudicati in esubero. Emblematico è il recente caso Olivetti. Pur potendo essere considerato un provvedimento indolore se considerato nelle particolari situazioni concrete, nel contesto micro, il prepensionamento, se adottato in misura estesa, può comportare, come sta succedendo in Italia, altissimi costi economici e sociali, provocare effetti degenerativi sull'intero sistema della tutela, dar vita ~ spirali di disgregazione nei rapporti sociali. Il prepensionamento, insomma, è una medicina da prendere a piccolissime dosi perché ricca di controindicazioni. Il numero dei prepensionamenti per effetto delle norme a sostegno dei settori in crisi supera le trecentomila unità e comporta una spesa media annua superiore ai tremila miliardi, che si riversa, con le comprensibili gravi conseguenze, sui bilanci delle gestioni pensionistiche. All'onere derivante dalle prestazioni, per tutto il periodo dell'anticipazione, vanno aggiunti i mancati introiti contributivi. La durata media dell'anticipazione risulta pari a 3,8 anni, ma essa sale a 8,8 anni per il settore siderurgico e dell'alluminio. È davvero difficile capacitarci di fronte ad atteggiamenti governativi che, da una parte, per il peggioramento del rapporto tra lavoratori/ contribuenti e pensionati, propongono l'elevazione dell'età pensionabile e, dall'altra, consentono un ricorso più massiccio ai pensionamenti anticipati, che tale rapporto non fa che aggravare. Ma di tali paradossi è ricca la politica previdenziale di questo governo: basti pensare all'altro clamoroso provvedimento che stanzia migliaia di miliardi per sanare la cosiddetta «pensioni d'annata», mentre contemporaneamente altre se ne creano con la riduzione dal 2 all' 1,75 per cento annuo del tasso di rendimento. In aggiunta bisogna tener conto che l'adozione di misure speciali di prepensionamento viene ad inserirsi in un tessuto già molto logorato da questo punto di vista. L'Italia, infatti, è il paese dei pensionamenti anticipati, che rappresentano, si può quasi affermare, la norma. Nel settore pubblico, l'anzianità media di servizio di coloro che si collocano in pensionamento è inferi ore ai 30 anni. Come ci si può attendere, essa è più bassa nelle donne che negli uomini. Vanno in pensione con 35 e più anni di servizio soltanto il 90Jodegli assicurati. Qualora si consideri l'età, cessano dal servizio al compimento dell'età pensionabile e dopo soltanto il 15,20Jodei maschi e il 170Jodelle donne. Anche tra gli assicurati al Fondo pensioni lavoratori dipendenti dell'lnps (settore privato) la percentuale dei lavoratori che anticipano l'abbandono del lavoro, rispetto all'età legale, pur non essendo altrettanto clamorosa, è comunque piuttosto alta (nel 1987, il 46,50/o dei maschi e l'll,50Jo delle donne). A favore degli esodi anticipati nel pubblico impiego gioca prevalentemente il fattore convenienza (assicurazione di una quota consistente dell'indennità integrativa speciale, che rappresenta la «voce» più significativa della retribuzione), mentre il settore privato è maggiormente condizionato dalla impossibilità per molti di far valere una adeguata anzianità contributiva (per cui si fa ricorso al pensionamen-

illt BIANCO l.Xll,ROSSO iiliiilib to per invalidità che richiede soltanto cinque anni di versamenti contributivi) e dalle situazioni di crisi e di ristrutturazione aziendale. A ciò si deve aggiungere che i pubblici dipendenti che scelgono la pensione anticipata confluiscono nella quasi totalità nel mercato del lavoro non regolamentato. Anzi, il più delle volte, la scelta di andare in pensione è motivata dalla disponibilità già accertata di un'altra occupazione. Ciò è meno vero per i lavoratori del settore privato, per i quali il prepensionamento non è quasi mai il risultato di una libera scelta. Oltre ai costi economici, l'uscita dal lavoro non volontaria, in una età ancora pienamente efficiente e produttiva, ha pesanti risvolti psicologici e sociali e provoca un abbassamento del livello individuale di vita, anche nel caso in cui venga mantenuto il precedente livello di reddito (alcuni ricercatori hanno parlato di «anestesia psichica»). Infatti il lavoro continua a soddisfare una serie di importanti bisogni immateriali, quali la conferma dell'identità acquisita, l'autostima, il senso di sicurezza, la valorizzazione e la realizzazione della persona, ecc. Una ricerca recente nell'area milanese (Patrizia Mendorina, in «Anziani e Società», n. 19, gennaio-marzo 1990), ha confermato che il passaggio determinato dall'evento del prepensionamento viene considerato dagli interessati come un «sacrificio inutile», dovuto più ad una «errata politica sindacale», che alla crisi del settore, e alla «politica economica governativa»; governo e sindacato non hanno saputo garantire in tempo la riconversione professionale della manodopera eccedente. L'individuo che lascia prematuramente il lavoro non per sua volontà appare confinato in uno stato di inutilità, di depressione, di disorientamento, di solitudine, che ha pesanti ripercussioni anche sulla vita familiare. Aumentano i conflitti interpersonali, si impoveriscono i rapporti sociali, si sta peggio di salute, risultano inibite anche le attività socialmente connotabili. «Un soggetto - scrive Mendorina - fuori del tempo ... , che sta affrontando un passaggio evolutivo estremamente problematico, aperto sia a possibili riprogettazioni che a più prevedibili involuzioni e cristallizzazioni. Un individuo alle prese con l'elaborazione di un difficile e sottile lutto, ove ciò che sembra aver immediatamente perso non è solo una mansione, una competenza, un riferimento professionale, bensì un complesso 'ambiente lavorativo' essenziale per i propri collaudi personali e sociali». Troppo alti appaiono, quindi, i prezzi che l'intervento di risanamento aziendale attraverso il prepensionamento accolla all'individuo e alla società. La manovra sull'età pensionabile può costituire un elemento di politica economica e di politica industriale, ma da usare all'interno di complesse compatibilità. Più che al prepensionamento, forse si dovrebbe ricorrere alla flessibilità dell'età pensionabile congiunta al godimento progressivo della pensione (con possibilità di cumulare pensione e retribuzione) e ad opportunità di riqualificazione professionale cui collegare forme di mobilità occupazionale. In tale contesto, si può addirittura ipotizzare il ritiro definitivo dal lavoro oltre l'età legale di pensionamento, favorendo, cosi, l'indirizzo che tende ad abbattere la barriere tra una fase e l'altra della vita. Su questi aspetti la riflessione è maturata, la documentazione sulla sperimentazione fatta al1' estero assai ricca, le proposte avanzate dal sindacato abbastanza circostanziate. Non resta che abbandonare il costume di gestire questi eventi con il metodo del giorno per giorno, ed avviare una concreta riprogettazione dell'intero sistema delle tutele sociali. Genova. Operaio Ansaldo (inizio secolo).

.{)Jl BIANCO l.X11, nosso iiiiiiiib A nuovi problemi, soluzioni nuove di Mario Colombo I processi di ristrutturazione e riconversione del sistema produttivo rappresentano spesso passaggi importanti nella storia economica e sociale dei paesi occidentali. Fino ai nostri giorni tali processi si ripresentavano ciclicamente, con intervalli più o meno lunghi di "quiete". Questa caratteristica sta mutando sotto i nostri occhi. Constatiamo infatti che ristrutturazioni e riconversioni costituiscono ormai un "continuum", che disegna ogni giorno nuovi profili d'impresa, con i cambiamenti conseguenti nel modo di produrre beni e servizi. Esse apportano inoltre modificazioni significative nelle psicologie e nei comportamenti dei lavoratori, e di tutti i soggetti coinvolti. Infine, con la caduta delle cortine che hanno diviso per tanti anni l'umanità in blocchi, le conseguenze dei mutamenti e delle innovazioni negli apparati produttivi si ripercuotono, amplificate, in ogni angolo def mondo. Quali sono le origini di questa nuova situazione? Credo che, per evidenziarle, sia utile sviluppare qualche ragionamento più generale sul ruolo delle ristrutturazioni e riconversioni aziendali, e di settore, nel passato, anche recente. Il fuoco dell'attenzione era allora puntato soprattutto sui problemi della produzione (organizzazione del lavoro, costi e ricavi, innovazione tecnologica, ... ) o su fatti esterni all'impresa, che ne potevano sconvolgere gli equilibri (come le mutate ragioni di scambio tra materie prime e prodotti finiti). Le politiche d'azienda conservano ancora molta attenzione a quegli elementi. Ad essi se ne sono aggiunti però alcuni, certo non nuovi, ma oggi considerati di importanza strategica: in particolare il ruolo della risorsa umana e il tema della qualità. "L'orientamento sul cliente", la novità più rilevante rispetto alle scelte aziendali tradizionali, è figlio di questi nuovi elementi prioritari nelle strategie d'impresa. Ne consegue che tali strategie devono seguire i comportamenti, le esigenze, anche i "gusti" dei clienti, considerandoli input fondamentali per la politica aziendale. Orbene, questi input non obbediscono a cicli storici, ma costituiscono materia fluida, in continua mutazione: con questa realtà bisogna ogni giorno fare i conti. Dall'insieme di questi elementi, soprattutto l'ultimo citato e quello dell'esasperata innovazione tecnologica, emerge perciò la necessità di quella "ristrutturazione continua" di cui prima parlavo. Il ruolo dei cosiddetti ammortizzatori sociali, (Cassa integrazione ordinaria e straordinaria, pre-pensionamenti, indennità di disoccupazione, un certo uso "anomalo" della formazione ... ) che hanno accompagnato e segnato le fasi tradizionali delle ristrutturazioni aziendali, soprattutto nel decennio 1975-85, viene a sua volta profondamente modificato dalle nuove caratteristiche di tali processi. Nel quadro classico, questi strumenti hanno un diverso impatto di ordine temporale: alcuni (come la Cig) danno vita a situazioni, anche prolungate nel tempo, ma per loro natura reversibili. Altri (come i pre-pensionamenti) costituiscono invece situazioni permanenti. Inoltre le normative e la contrattazione hanno creato una disparità nel rapporto costibenefici (es. la Cig ordinaria nei confronti di quella straordinaria e dei pre-pensionamenti) e le parti sociali finiscono per orientarsi, ovviamente, verso le soluzioni più "convenienti". Da queste brevi notazioni credo emergano alcune coordinate per il necessario adeguamento degli "ammortizzatori sociali" alle mutate caratteristiche dei processi di ristrutturazione, che da periodici sono divenuti quotidiani. È quindi necessario, a mio parere, valorizzare le misure capaci di aumentare la flessibilità del mercato del lavoro rispetto alla "ristrutturazione continua". Da questo punto di vista il terreno principale resta quello della formazione professionale, che non va però considerato solo un "ammortizzatore" quanto so-

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