.{)!L BIANCO ~ILHOSSO • Iil B1411 i i ii titi Uh Elezioni libere all'Est: un bilancio e hiusasi ormai la stagione delle prime elezioni libere e «quasi» pienamente democratiche (come ha avuto giustamente a definire Jiri Pelikan) nell'Europa centro-orientale, è venuto il tempo di un bilancio che oltre al carattere post-comunista - anzi, di plebiscito anticomunista - di queste consultazioni, ne sappia leggere il significato politico per l'area europea nel suo complesso. Uscendo, se possibile, dalle generalizzazioni comode e familiari. Negare che la sinistra sia uscita penalizzata, dispersa, ancor più in crisi di identità, da queste prove elettorali, certamente non si può. Ma da quì ad affermare, come hanno fatto in parecchi - gli uni trionfalmente, gli altri amaramente - che dopo quarant'anni di colonizzazione comunista, l'Europa dell'Est si è risvegliata «democristiana», ce ne corre. È un'inesattezza riduttiva, questa, che non tiene conto della complessità e dell'articolazione politica delle ex opposizioni democratiche che oggi si ritrovano, con il Forum Democratico a Budapest, i Comitati Civici di Solidarnosé in Polonia, il Forum Civico in Cecoslovacchia, a guidare i primi governi post-comunisti nei rispettivi paesi. Non tiene conto, innanzitutto, che, in virtù di una sacrosanta reazione a quarant'anni di dominio del partito unico - e dei suoi surrogati organizzativi - le società esteuropee hanno espresso la loro diffidenza verso la stessa forma-partito premiando dei raggruppamenti politici che raccolgono le principali tendenze che erano presenti, ed operanti, nei movimenti di opposizione antitotalitari. Che il cristianesimo sia stato un collante delle varie identità culturali che resistevano alla devastazione totalitaria, è innegabile (non solo in Polo- ------ di Attilio Scarpellini nia, si pensi al ruolo delle Chiese e soprattutto delle personalità protestanti in Cecoslovacchia, in Germania orientale o tra la minoranza magiara in Romania), ma il risorgere dell'equivoco democristiano, cioè di una rappresentanza rigidamente situata dei cristiani nella vita politica, è ancora lontano dall'Europa dell'Est. Basta guardare al non più velato disaccordo tra Mazowiecki e Walesa, entrambi cattolici, per rendersene meglio conto. Il «centrismo», o peggio: il «centrodestra», di cui si è parlato, è un fenomeno più complesso di quanto non possano comprendere le boccheggianti categorie concettuali del politichese nostrano; l'attuale clima politico dei paesi esteruropei, sempre meno riconducibile all'unità «gloriosa» delle forze anticomuniste (abbastanza speculare, come è logico, all'unità antifascista del dopoguerra europeo), attende di essere ridefinito nelle sue linee di distinzione anche e soprattutto dalla riforma del sistema economico, nodo centrale di ogni futuro sviluppo democratico. L'altro dato saliente è quello della sconfitta elettorale dei partiti che in vario modo, e con diversa autenticità, si richiamavano al socialismo e alla socialdemocrazia. Per il maquillage dei vecchi partiti comunisti, sia pure «riformatori» (come quello ungherese), in nuove formazioni socialiste il discorso va da sé; l'unico paese che finora ha riciclato, sotto altra forma, la vecchia dirigenza comunista è la Romania del Fsn, non a caso la situazione più ambigua, più «balcanica», tra quante il fatidico 1989 ha prodotto. Ma sono stati penalizzati anche i vecchi partiti socialdemocratici, nonostante alcuni di essi (come quello magiaro, smembrato da Rakosy e soci do- ■ 70 po la guerra) fossero portatori di grandi tradizioni e di un consenso radicato nelle società pre-comuniste. Ma in Europa dell'Est è lo stesso termine «socialista» a creare disagio, se non irritazione, tra la gente. Del resto, tra le antiche formazioni politiche, solo quelle dei «piccoli proprietari» di ispirazione perlopiù cristiano-populista, hanno ritrovato un certo smalto. Va anche considerato il fatto che le tendenze socialdemocratiche sono state scarsamente rappresentate come tali, perché non si può negare, ad esempio, che i Michnik, i Kuron, i Geremek - la cosiddetta ala «liberal» di Solidarnosé - pur guardandosi bene dal definirsi socialdemocratici, esprimano nelle loro visioni politiche di allora e di oggi tendenze schiettamente riformiste (si pensi alla forte influenza esercitata sulla sinistra polacca non comunista dal pensiero anti-totalitario e cooperativista di Edward Abramowski, vecchio compagno di Rosa Luxembourg). Come non si può negare che correnti di sinistra riformista traversino tanto lo Mdf di Joszef Antall che il Forum Civico di Vaclav Havel. Ed è probabilmente da questi fermenti (che la resistenza al socialismo reale ha depurato da quell'ossessione «statolatrica» che è il tratto più comune tra socialdemocrazia e comunismo, rendendoli in questo più simili al socialismo mediterraneo), che occorre ripartire per definire le prospettive del riformismo di sinistra in Europa dell'Est. Caso del tutto a parte, quello della socialdemocrazia tedesca, ancora forte, ma tutto sommato penalizzata dall'unificazione gestita quasi trionfalmente dal fortunato Helmuth Kohl (leader di non eccelsequalità politiche, che ha avuto bastante senso dell'opportunità per capire di tro-
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