Il Bianco & il Rosso - anno I - n. 10/11 - nov./dic. 1990

sue guide avessero resistito alla tentazione di aggregarsi all'anticomunismo politico, per affrontare nella sua portata profonda la sfida antropologica e religiosa rappresentata dal comunismo, riuscendo a mettere in questione quello e sé medesima, le cose avrebbero potuto svolgersi diversamente per la stessa cristianità. La cristianità ufficiale ha visto soprattutto e forse solamente il limite immanentistico e il pericolo della istituzione totalitaria e ha aderito per lungo tempo alla crociata nei confronti dell' «impero del male» lasciandosi coinvolgere in alleanze sovente ambigue. Ma questo discorso appartiene ormai alle ipotesi di scuola. Volendo sintetizzare al massimo le reazioni dei cattolici italiani, direi che si sono manifestati tre atteggiamenti: di attesa, di delusione, di timore. L'attesa è propria delle zone ormai scontente e critiche verso la Democrazia cristiana. Una attesa che il nuovo o quanto meno il travaglio che si manifesta nell'area comunista rompa definitivamente anche le residue parvenze di incrostazioni ideologiche e renda effettiva, cioè praticabile e praticata più diffusamente, quella pluralità di opzioni politiche dei cattolici che oramai affermatasi in parole, ha visto quasi sempre l'episcopato e le gerarchie cercare di contenerla se non di smentirla sotto forma di raccomandazioni e di consigli. L'attesa rivela anche una perplessità: che l'approdo del travaglio comunista nel nostro paese possa risultare, più di quanto non si dica, segnato da un radicalismo che fa della libertà e del diritto come «egual misura», valori assoluti, trascurando la diseguale condizione degli uomini. La delusione è per lo più propria di quei cattolici che hanno operato una scelta che li ha fatti interni o vicini al partito comunista. Senza condividere massimalismi ideologici, costoro han sentito il comunismo, il partito comunista come una forza storica che limitava e resisteva efficacemente alle ambizioniespansive della controparte, all'invasione di una società certo più libera ma non amabile, una società che professa la guerra come risorsa non solo di ultima istanza, che nasconde il malessereche crea, che dissipa la ricchezza che produce, che corrompe la solidarietàe disprezza la compassione. Quindi come una realtà che pur tra li- - .{)_lJ. IU\~CO \Xli.BOSSO •h•#hld 1923 Don Sturzo, l'on. Rodinò e altri dirigenti del Ppi al congresso di Torino. miti pesanti, manteneva accesa la speranza di un mondo più umano, se non di una umanità diversa. Infine il timore, spesso strumentale e comunque tutto politico. Non è tanto la paura per l'attrazione che un partito comunista non più comunista potrebbe esercitare verso l'elettorato cattolico e per l'eventuale formarsi di una temuta alternativa. Quanto per la circostanza che il venir meno del «pericolo comunista» finisca per delegittimare una forza come la Democrazia cristiana che ha perduto nel tempo ogni interiore motivazione e, abbarbicata alle istituzioni e allo Stato, ha ormai nell'anticomunismo la sua preponderante ragione sociale. So che molte cose si potrebbero aggiungere e anche opporre a questa descrittiva. Vorrei accennare, a mo' di conclusione, al mutamento che tuttavia questa «fine del comunismo» sollecita nell'animo cattolico. Non si tratta, come talora si dice, di mettere sullo stesso piano la democrazia (cristiana o socialista) che convive con il capitalismo, e il comunismo. Si trat- (,I ta piuttosto di prender atto che la crisi del comunismo scopre in modo più crudo le angustie del suo antagonista storico in quanto lo priva della giustificazione spesso adottata, come in una lotta di resistenza, per i suoi vizi e la sua falsa coscienza. Se veramente assistiamo alla transizione dal mondo della contrapposizione al mondo della interdipendenza (e mi pare questo il messaggio più fecondo che viene da questa crisi epocale) penso che valga spendersi in una rifondazione che non è solo di un partito o di partiti, ma di una cultura: che si trova di far fronte al compito titanico di ripensare principi e ridefinire obiettivi. Si tratta in effetti di ripensare gli stessi fondamenti antropologici di una fase storica che vede il crollo delle ambizioni sovraumane di una ideologia totalizzante, ma misura le angustie di una convivenza che ha fondato il benessere sul motore dell'egoismo. Si tratta, nella responsabilità quotidiana del qui e ora, di ricostruire nella pazienza, ideali storici concreti per l'umanità incerta.

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