può avvenire solo dove le responsabilità collettive e individuali sono precisamente imputabili: ossia dentro un diverso sistema elettorale e dentro una diversa forma di governo. Il Psi, a partire dal suo Congresso di Torino, ha avuto il coraggio di porre per primo il problema in termini di «revisionismo democratico», ma ha poi sacrificato al tatticismo governativo le velleità di Grande Riforma, finendo addirittura con l'opporsi all'unico mezzo possibile per attuare quella strategia, i referendum elettorali, come ha più volte evidenziato su «Il Sole 24 Ore» uno dei commentatori che avevano seguito con maggiore simpatia il «nuovo corso» socialista, il professore Giuseppe Are. Più precisamente, a mio avviso, Orlando è figlio legittimo (anche se molti esponenti della Sinistra Dc avrebbero da ridire) di un'altra, successiva, spinta di riformismo istituzionale, quella di Ciricaco De Mita, legata al nome di Roberto Ruffilli. Che ha fatto di altro Orlando se non comportarsi come se le nuove regole della politica, di una democrazia dell'alternanza, delle alternative programmatiche, a cominciare dall'elezione del sindaco, fossero già in vigore? E questo nello stesso momento in cui il Psi, che aveva scagliato il sasso ritraeva la mano (sostenendo di voler «tenere in ostaggio l'elezione del sindaco» come scambio con l'elezione del Presidente della Repubblica) e mentre De Mita espungeva dal suo programma di governo qualsiasi riferimento alle riforme istituzionali, perdendo in anticipo sui contenuti quella battaglia che avrebbe poi perso anche in termini di schieramento, sul governo e sul partito. Essendosi reciprocamente logorati Craxi e De Mita nel tentare di distruggersi l'un l'altro (incontrandosi solo nell'unica occasione della limitazione del voto segreto contro l'asse consociativo Andreotti-Natta) essi hanno finito per produrre un unico risultato: la restaurazione andreottiana, ossia di quel sistema di potere che rappresenta nel nostro Paese l'antitesi della democrazia dell'alternanza, del principio liberaldemocratico per cui i cambiamenti di politica si traducono necessariamente, per coerenza, anche in cambiamenti di classi dirigenti. In Italia, invece, come nei Paesi del «socialismo reale» fin- ~!I. RI \ :\:CO lXll,llOSSO 11#1h1lii ché esso ha retto, è sempre la stessa nomenklatura immutabile che gestisce i cambiamenti di linea. Ora, a Palermo, le collusioni della Dc locale con la mafia hanno determinato nei primi anni '80 una parziale delegittimazione della Dc a governare, imponendo l'emergere di una leadership non compromessa. In altri termini la consapevolezza della forza di legami mafiosi ha svolto il ruolo di equivalente funzionale a quello che nelle «Repubbliche dei cittadini» è il ruolo delle sconfitte elettorali: quando un partito è mandato all'opposizione dagli elettori (il cui voto ha un significato inequivoco, non manipolabile) cambia programmi e anche leaders, giacché i programmi camminano sulle gambe degli uomini. Orlando in tutta la sua parabola ha voluto introdurre la logica per cui in democrazia deve essere visibile chi vince e chi perde: l'esatto contrario della filosofia proporzionistica che postula un ceto politico immobile che a seconda dei propri relativi successi o arretramenti passa da un incarico di serie A ad uno di serie B o viceversa, secondo copione da Manuale Cencelli, perfetta creatura del proporzionalismo. Proprio nella sua caduta, volendo rendere esplicita la sconfitta, Orlando ha rotto la convenzione che consiste nel ritirarsi momentaneamente nell'angolo, in silenzio, in attesa di essere richiamato in gioco dall'alterno combinarsi degli stati maggiori. Una rottura a cui ha corrisposto un'analoga rottura da parte della Dc della simmetrica convenzione per cui essa ha sempre difeso i propri uomini: nei confronti di Orlando, di colui che alla Dc aveva portato in dote migliaia di voti in più, è stato paradossalmente ostentato un atteggiamento oscillante dal gioco al massacro palese e occulto (Andreotti) a imbarazzanti silenzi (vari leader della Sinistra Dc che lo temevano come rivale nella successione a De Mita). Tutt'altro stile, da democrazia matura, rispetto ai tatticismi di corridoio della Sinistra Dc che fa uscire dal governo i ministri per la legge Mammi ma poi vota la fiducia al governo sulla stessa Legge (che altrimenti non sarebbe stata approvata) e vi lascia i Sottosegretari o del Psi palermitano che preferisce svolgere il ruolo di puntello esterno e subalterno dell'on. Lima. Sia chiaro: non parlo qui dei contenuti di Orlando, che per il momento sono chiaramente identificabili solo nella discriminante morale e nella critica al proporzionalismo, mentre tutto il resto (e non è poco) è solo evocato per allusione, ma di quella che è la prima discriminante, quella di anticipare nei propri comportamenti le regole nuove che si vogliono far assumere all'intero sistema. È lecito avere dubbi, in misura più o meno ampia, sul fatto che Orlando rappresenti una rispo~ta ai problemi della nostra democrazia, ma è indubbio che oggi egli rappresenti in forma democratica e con una cultura integralmente civile (a differenza di Bossi) il modo di dar voce a istanze frustrate dai tatticismi altrui, dai limiti ben più consistenti delle altre aree riformatrici, dalla Sinistra Dc che per rientrare in gioco accetta di votare Gava (1), da un Psi contento di giocare non sul tavolo della Grande Riforma ma su quello dei piccoli veti (per quanto ancora sarà possibile?) e da un Pds il cui sforzo di rinnovamento è indebolito dal fatto di nascere da una sconfitta storica dell'idea comunista. La nuova formazione di Orlando non avrà molti problemi a ritagliarsi un consenso in termini antipartitocratici dentro questo sistema: finalmente molti avranno un'alternativa all'astensione, al voto bianco e nullo, al dover votare Bossi «turandosi il naso». Il problema sarà dopo, nella capacità di battersi per cambiare sistema istituzionale, e dentro una moderna «Repubblica dei cittadini», quello di rinnovare l'intero polo di Sinistra assieme alle forze riformatrici rimaste nei partiti tradizionali. Stiano attenti, però, Craxi e Occhetto se il motivo del contendere è quello della leadership del polo: i cambiamenti istituzionali della Francia tra Quarta e Quinta Repubblica non ricompattarono fa Sinistra né su Thorez, leader del Pcf, impresentabile per motivi ideologici, né su Guy Mollet, leader socialista, troppo compromesso coi governi deboli e consociativi della Quarta Repubblica, ma su Mitterand, che in origine faceva parte di un piccolo gruppo né socialista né comunista. E il dibattito sul rinnovamento della Sinistra si è sviluppato per anni, affondando i vecchi leaders insieme alla loro «Repubblica dell'impotenza», tra le
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