giori. Contrasta con l'interesse della Dc in quanto equivale alla iniziale estromissione dal governo per un periodo più o meno lungo e contrasta con l'interesse del Pci perché quest'ultimo, come tale, da solo, o semplicemente a guida di una alleanza, non è in grado di proporsi come alternativa di successo, accettabile per la generalità dell'elettorato. Ci si sono messi di buona lena anche intellettuali in cerca di originalità a spiegare che il problema italiano non è l'assenza di alternanza, ma la partitocrazia: come se non fosse, storicamente e istituzionalmente, la stessa cosa e i Paesi ad alternanza, cioè tutti i maggiori europei, non presentassero pure una ben minore invadenza partitica (il che non toglie, beninteso, che al fenomeno concorrano pesantemente sia l'intervento pubblico nell'economia sia l'accentramento dei partiti stessi). Naturalmente nessuno confessa che il motivo per cui non vuole l'alternanza è che politicamente gli nuocerebbe. Tutti preferiscono dire o che l'alternanza non è l'obiettivo o l'unico obiettivo o il principale obiettivo da perseguire, oppure che si può conseguire in tanti modi ugualmente validi e che, in particolare, quello ad effetto sicuro, cioè un autentico regime presidenziale, non è democratico. Così ciascuno propone la sua soluzione di ingegneria costituzionale e si sottrae, più o meno goffamente, al compito di dimostrare ciò che precisamente gli viene chiesto espressamente di dimostrare: che, nel sistema politico dato, nel quale non si tratta, come in Gran Bretagna e in Germania, di conservare l'alternanza, bensì di introdurla, e non più di consentirla e favorirla, bensì di determinarla, per fruire dei benefici conseguenti, tale sua personale soluzione sia non già genericamente valida, ma la migliore, cioè la più sicura nel risultato rispetto a qualsiasi altra e rispetto appunto, al regime presidenziale. Si elude la domanda quando si sostiene che l'alternanza non è l'essenza delle democrazie occidentali e in Italia è venuta meno soltanto, nei programmi e nelle alleanze, la coerenza fra elettori ed eletti per il tempo assegnato alla legislatura. Ciò è dipeso da un regime istituzionale che non ha costretto, come dappertutto altrove, alla contrapposizione a due, quindi alla vittoria .{)!I. BIANCO ~11,llOSSO 1111 #hiN Ferruccio Parri ed Enrico Mattai. elettorale di uno dei due, quindi alla stabilità, quindi a vere politiche pubbliche, insomma al governo reale del Paese. Si vuole esorcizzare l'alternanza quando si insinua che il regime presidenziale sia una specie di tentazione autoritaria e che abbandonare il regime parlamentare significhi passare dalla democrazia rappresentativa e pluralista a quella plebiscitaria. Entrambi i regimi sono ugualmente democrazia rappresentativa, né l'uno è, di per sè, più o meno democratico dell'altro. La democrazia plebiscitaria non esiste: il plebiscito, che è la decisione popolare contestuale di una costituzione e della personificazione dei suoi organi, non è democrazia. Come ci insegnavano a scuola, ogni numero superiore a 1 è plurale: il 3 non più del 2. Cento partiti non fanno più democrazia di 10, né 10 più di 5. Anzi, il regime presidenziale, avendo risolto pregiudizialmente il problema del governo, consente nel parlamento il maggior pluralismo possibile. Si inganna il prossimo, ancora troppo a digiuno dei meccanismi istituzionali, quando si mostra di credere che una riforma puramente elettorale basti a determinare la scelta della maggioranza parlamentare e del governo da parte del cittadino: semmai può favorirla, ma non necessariamente. In genere, ciò che si ha di mira è, piuttosto, costringere tutti i partiti minori a una alleanza, per loro "suicida", con uno dei due maggiori. Si esce già dallo schema del regime parlamentare quando, consapevoli della insufficienza della riforma elettorale ai fini della contrapposizione a due, della decisione popolare sul governo, della stabilità di questo, nonché dell'alternanza, si propone la contestualità della elezione del parlamento e della elezione diretta del vertice dell'esecutivo, lasciando impregiudicata l'opzione fra Presidente del Consiglio e Presidente della Repubblica (nel secondo caso è esattamente regime presidenziale). Certo, se il Presidente del Consiglio viene considerato a sé stante (a prescindere, dunque, dal governo che formerà dopo la elezione) e non deve sottostare alla "fiducia" del Parlamento, la sua elezione diretta equivale istituzionalmente a quella del Capo dello Stato, cioè a un regime presidenziale. Ma chi propone, dall'area comunista, una riforma costituzionale così anomala, inedita e tecnicamente squilibrata, non h.a in mente tanto la contrapposizione fra due candidati, quanto quella fra due coalizioni, che la elezione del Presidente del Consiglio sottolineerebbe. Ciò che invece bisogna dimostrare - ed è il senso ultimo d,elladomanda posta - è che una coalizione di partiti, nella quale sia incluso il partito che dal 1921 si chiama comunista ed ancora per un po' continuerà ad essere considerato tale dall'elettorato, avrebbe possibilità di successo pari o superiori a quelle di un candidato alla Presidenza della Repubblica in regime presiden-
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