~J),BIANCO lXltROSSO ii 111D11l1i1i pazione le valutazioni non sono, però, catastrofiche. L'Italia costituisce, tuttavia, un'allarmante eccezione. Intanto tra i maggiori paesi industrializzati abbiamo la maggiore dipendenza dal petrolio e quando il petrolio rincara risale l'inflazione ed i conti pubblici si fanno insostenibili. «II livello di indebitamento del settore pubblico italiano - scriveva qualche tempo fa The Economist - fa sembrare, a confronto, quello americano un modello di rettitudine fiscale». Eppure in cifre assolute il debito degli Stati Uniti è quattro volte superiore a quello italiano. Ma se si guardano le proporzioni ci si accorge che la situazione italiana è ben più grave. L'economia americana, infatti, ha una dimensione sette volte maggiore della nostra. Così se misuriamo il debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo possiamo constatare che il nostro è ormai superiore al reddito, mentre negli Stati Uniti è poco più della metà. Le conseguenze in termini di fabbisogno sono ovvie. L'Italia ha, a questo riguardo, un indiscutibile primato tra i paesi industrializzati. In rapporto al prodotto interno lordo il nostro fabbisogno è 8 volte quello della Francia, 6 volte quello della Germania, 5 volte quello degli Stati Uniti, 4 volte quello del Canadà, per non parlare del Regno Unito e del Giappone dove il problema è inconsistente. «L'Italia - ha scritto l'Ocse - è appesa ad un filo sopra l'orlo di una trappola debitoria, se i tassi reali di interesse continueranno ad essere superiori a quelli di crescita e se, come nel caso italiano, è lo stesso governo ad essere causa del deficit (dato che le spese, incluso il pagamento degli interessi sul debito continuano a superare le entrate) allora le teorie economiche ammoniscono che il tasso debito-prodotto interno lordo potrebbe crescere senza limiti». È il debito stesso, infatti, ad autogenerarsi. Il debito di un anno sommato anche solo agli interessi porta ad un debito comunque maggiore per l'anno successivo. Il meccanismo determina una quota di interessi da pagare ancora maggiore l'anno dopo. E così di seguito. In una situazione del genere l'ultima cosa che il governo dovrebbe fare per contrastare le tendenze inflazionistiche è di utilizzare misure monetarie. Un aumento del costo del danaro dell' 1 per cento comporta, infatti, per lo Stato circa 10.000 miliardi di interessi in più da pagare. Ma quello che il governo (in teoria) dovrebbe evitare è invece costretto a fare (in pratica) per coprire il fabbisogno. Se vuole che la gente continui aprestargli i soldi mentre l'inflazione cresce è costretto ad aumentare i tassi di interesse (e quindi il costo del debito). Al di là delle chiacchiere è del tutto evidente, del resto, che il livello dei tassi di interesse è una variabile dipendente dalle condizioni della finanza pubblica. La situazione non induce, perciò, ad ottimismi. In questo quadro, a partire dalle prime settimane di settembre, è ripreso il rito della Finanziaria. La stampa nazionale, con la consueta tendenza ad enfatizzare l'inconsistente, ci descrive ministri alacri ed insonni intenti ad arrotare la scure, a preparare stangate, a spiegare l'inderogabile necessità di rigorose misure di risanamento. Le confabulazioni ministeriali non sembrano, però, nemmeno in grado di contrastare le tendenze al peggio. Il disavanzo previsto per il prossimo anno dovrebbe, infatti, superare i 160.000 miliardi. Sarà il record planetario assoluto. Nessun paese, nemmeno gli Stati Uniti riuscirà ad avere un deficit maggiore del nostro. Prospettiva che induce persino l'onorevole Andreotti, abitualmente incline a minimizzare, a riconoscere che «siamo con le spalle al muro». In una situazione simile, certo, spetterebbe soprattutto al governo il dovere di promuovere un accordo politico-sociale per il risanamento della finanza pubblica, con una equilibrata redistribuzione delle risorse e dei costi. Ma credo che non ci si debba fare illusioni. Sia per la precarietà della situazione politica, sia perché è stato lo stesso governo ad assecondare una politica salariale nel settore pubblico che teneva d'occhio più le elezioni di maggio che i conti dello Stato. Salvo, dopo le elezioni, presentare, con ponderata arbitrarietà, il conto della disinvolta politica contrattuale in termini di rincari dell'acqua, del gas, delle poste, della benzina, di bolli vari, in attesa che maturino nuove idee. Intanto comunque le discussioni fervono intorno alla necessità di una manovra di 50.000 miliardi per la Finanziaria 91. Il copione è quello consueto. L'unica cosa che cambia è la cifra della manovra. Che ogni anno aumenta. Proprio come il deficit. La conclusione che si dovrebbe trarre è che con queste manovre annuali, con una politica di meri tagli, non si arriva da nessuna parte. Ma questa presa d'atto stenta a farsi strada. Per risanare la finanza pubblica si deve soprattutto agire dal lato delle entrate. E piuttosto dolorosamente per alcune categorie che oggi pagano poco o non pagano nulla. Calcoli di diverse fonti hanno concordemente messo in evidenza che l'evasione fiscale, so-
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