Il Bianco & il Rosso - anno I - n. 9 - ottobre 1990

_p_l), BIANCO '-Xli-ROSSO Ui•iil•P Liberismo economico e dislivelli produttivi di Bruno Amoroso e onsapevole di porsi controcorrente rispetto all'atteggiamento dominante di «esaltazione generica o di critica pregiudiziale dei tentativi di integrazione europea» e nel rifiuto di «lasciarsi rimorchiare dagli eventi, anziché seguire e - nei limiti del possibile - antivederne gli sviluppi» (Caffé, Sguardi su un mondo economicoin trasformazione in Saggi critici di economia, De Luca Editore, Roma 1958, p. 61-75), il professor Federico Farré segnalava all'indomani della firma dei «Trattati istitutivi della Comunità Economica Europea» (marzo 1957) i rischi di un programma di integrazione economica basato su «di uno spensierato liberismo economico» che avrebbe portato ad «aggravare i dislivelli produttivi e di tenore di vita nelle varie zone, anziché colmarli» con una ripetizione delle vicende «della unificazione politica italiana ed alle connesse ripercussioni economiche sulle regioni meridionali del paese». Considerazioni, queste, che anticipavano quelli che sono stati gli sviluppi interni alla Cee, tra le sue varie regioni ed in particolare rispetto all'Europa del Sud, e gli sviluppi che hanno assunto i rapporti tra la Cee e le regioni del Sud e del Mediterraneo in particolare. L'ipotesi imperiale, cioè di una Europa che concepisse il rapporto di concorrenza con le altre due grandi potenze industriali (Usa e Giappone) in termini di imitazione del loro ruolo mondiale, tra cui la creazione di vaste zone di dominio neo-coloniale, sembra confermata da una serie di recenti indagini. La Relazione in merito alla «Politica mediterranea della Comunità europea» (Relazione Amato), elaborata per conto del Comitato economico e sociale delle Comunità europee (Bruxelles, 26 giugno 1989), conferma con una accurata documentazione che «dopo più di un decennio di questa politica, gli obiettivi che essa si era posta sono ben lontani dall'essere stati raggiunti ed anzi, per certi versi, sono diventati più lontani». Recuperando un importante dibattito sui modelli di sviluppo, che la retorica liberista e del mercato degli ultimi anni ha in parte oscurato, la Relazione conclude che ogni tentativo di estendere o esportare il modello di sviluppo industriale nei paesi mediterranei e del terzo mondo oltre ad essere irrealistico è indesiderabile. La rilevanza di questo problema si è manifestata nei recenti dibattiti nella Cee intorno al problema della «dimensione sociale» e del «dumping sociale». Il concetto di «dumping sociale» ha infatti trovato una strana elaborazione che riflette il pensiero dei paesi «forti» della Comunità su questo problema. Il «dumping sociale»viene definito come il rischio che i paesi meno sviluppati della Comunità (Grecia, Portogallo, Spagna e Italia) possano esportare verso altri paesi prodotti agricoli o industriali a prezzi competitivi con quelli, ad esempio, della Germania o dell'Olanda, servendosi del minor costo del lavoro in questi paesi. È ben noto che i paesi «forti» della Comunità (Germania, Francia, Olanda, ecc.) invadono i mercati degli altri paesi con prodotti a basso costo grazie al loro vantaggio relativo dovuto all'abbondanza di capitale e di tecnologie avanzate. Avviene così, per ragioni misteriose, che un modello di sviluppo e un sistema industriale che, in base a scelte proprie di razionalità, impieghi un sistema di produzione ad alta intensità di capitale, venga definito come competitivo ed efficiente, mentre un altro sistema industriale che per ovvie e legittime ragioni dia priorità a un sistema di produzione basato su una più alta intensità di manodopera, venga giudicato inefficiente ed accusato di praticare concorrenza sleale. Insomma, il dumping tecnologico dei paesi «forti» è buono, quello della mano d'opera e

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