Napoli, Palazzo della Regina Giovanna. essere di più intellettuale, di praticare quello che Barthes ha chiamato il grado zero della scrittura o scrittura d'intervento, di abbandonare cioè in qualche modo lo stile e di praticare il linguaggio logico, politico. Mi invita, di conseguenza, a ritornare nel Sud da cui sono partito, ritornare moralmente e fisicamente: perché, si deduce da questo suo invito, il Meridionalismo ancora non è morto; perché è ancora possibile operare sulla Questione meridionale. Ora, prima di rispondere a questo mio amico (il quale, dimenticavo di dire, non è meridionale e non pensa, al contrario del piemontese Norberto Bobbio, che "la questione meridionale è prima di tutto un questione dei meridionali"), prima di rispondergli, dovrei qui declinare le mie generalità, come si dice, raccontare cioè nel modo più succinto la mia storia di intellettuale meridionale. Nato nel '33, venuto fuori dalla guerra e cresciuto nel dopoguerra, finiti gli studi medi, sono approdato la prima volta a Milano per gli studi universitari. All'Università Cattolica di piazza Sant' Ambrogio. Erano gli anni Cinquanta. C'erano, in quell'università, tanti altri studenti meridionali come me, e di alcuni ricordo ancora i nomi: Ciriaco ed Enrico De Mita, Gerardo Bianco, Riccardo Misasi... Oltre l'uni1)11. BI.\\ICO '-.Xli.BOSSO Uti#hlii versità, nella piazza Sant' Ambrogio c'era anche una caserma della Polizia e il Centro Orientamento Emigrati. Ogni giorno, in quegli anni, prelevate direttamente alla Stazione Centrale con tram senza numero, venivano scaricate nella piazza masse e masse di contadini meridionali che nel Centro erano sottoposti a visita medica e quindi, equipaggiati di casco, lanterna e mantellina di tela cerata, venivano avviati nelle miniere di carbone del centro Europa. A noi privilegiati studentelli poteva insomma capitare, come è capitato a me, di incontrare in quegli anni, in quella piazza dei destini non incrociati, ma dei destini divergenti, un compaesano vestito da celerino di Scelba o un compaesano che emigrava in Belgio o in Francia. Le mie letture di allora erano, forse esclusivamente, di argomento meridionalista. Finiti gli studi, me ne tornai nel Sud per poter studiare e rappresentare narrativamente quella realtà. Nel '68, conclusosi il Grande Esodo dal Sud al Nord, sparitami sotto gli occhi la realtà che volevo rappresentare, mi ritrasferii a Milano, anche perché m'ero illuso che da questa città avrei potuto narrare la Grande Trasformazione, il processo di integrazione del mondo contadino meridionale con quello industriale del Nord. Ma questa è un'altra storia. Il Sud, mentre ne ero lontano, veniva sempre più chiuso nelle maglie di ferro dei condizionamenti politici, da una parte, dall'altra dalle maglie violente e atroci della malavita organizzata: mi sembrava che divenisse sempre più una Vandea in balia della corruzione e della criminalità; la Questione meridionale mi sembrava ridotta a puro pretesto per la costruzione di carrozzoni sub-politici e clientelari. E oggi, che cos'è il Meridione? Il Meridionalismo è morto? Stando qui a Milano, il Meridione oggi mi sembra diventato sempre di più il rovescio, compatto, duro, inscalfibile, metallico della medaglia italiana; il cui diritto è questo Nord post-industriale, come lo chiamano, ma che bisognerebbe chiamare post-operaistico, sempre più violento economicamente, sempre più invasivo e persuasivo con i suoi terribili strumenti di diffusione del messaggio pubblicitario per il condizionamento politico e per la riduzione consumistica. Il Meridione mi sembra la faccia ormai irrimediabilmente passiva, immobile (dove gli unici movimenti sono quelli della corruzione, dello sfascio delle istituzioni, della malavita) della controfaccia protervamente e cinicamente attiva del Settentrione. Il Meridionalismo è morto? Non so rispondere a questa domanda. Come non so rispondere alle provocazioni del mio nobile, generoso amico meridionalista. Al quale posso solo dire oggi, chiedendogli intanto il tempo di riflettere, di smaltire questo mio risentimento: "Caro G., nei tuoi propositi e nelle tue proposte di tornare a operare nel Meridione, mi sembri ancora indefettibilmente spinto dall'istinto (non mi piace usare il termini freudiano di complesso) di David. Con la tua povera fionda della rivistina ti illudi di poter combattere contro il gigante del vuoto ideologico, di abbattere il mostro della sazietà e dell'alienazione. E inviti anche me a prendere la fionda. Mi metti così in crisi, facendomi sentire ancora più estraneo e fuori posto in questa Milano dove abito e aumentando contemporaneamente la mia renitenza a tornare nel Sud. E vuoi togliermi infine, mettendola in discussione, la mia illusione, la consolazione della poesia. Tuo Vincenzo". Milano, 9 luglio 1990
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==