zione operativa degli ultimi decenni, quella che più volte è stata identificata come meridionalismo di Stato, è profondamente invecchiata. Sopravvive a se stessa in istituti per lo più stanchi, inadeguati ormai a svolgere i compiti loro assegnati. La realtà delle cose, riconosciuta anche in inchieste e dibattiti, ci dice che l'Italia, almeno sotto il profilo economico, può vivere e progredire malgrado il Mezzogiorno. È questa, se vogliamo, una conferma dei termini nuovi (ma in parte antichi) con i quali si ripropone al presente il meridionalismo. Quella del Mezzogiorno è soprattutto una questione di civiltà e una società non è tenuta insieme solo dal mercato e dal rispetto del codice mercantile. Se la questione non la si affronta in questi termini e se rapidamente non la si risolve, i guasti, per tutto quanto il paese, che già si vedono, saranno senza rimedio. Ma non sono guasti di cui è il Sud a portare l'intera responsabilità, e non solo perché uno dei problemi prioritari per il Mezzogiorno è il miglioramento sostanziale del quadro amministrativo, sociale e culturale, che investe le competenze della giustizia, della sanità, dei trasporti, dell'energia elettrica, delle telecomunicazioni, dei servizi locali, del sistema scolastico e della ricerca scientifica e tecnologica. Con uno sforzo intelligente il Mezzogiorno potrebbe diventare il laboratorio del rinnovamento, urgente e improcrastinabile, della pubblica amministrazione nazionale. Per essere concreti, duplice è l'ordine delle priorità che emergono da queste considerazioni. La prima è la necessità di riconsiderare, con realismo, l'intervento straordinario. L'altra è quella di riproporre politiche, se non vogliamo definirle di programmazione - parola nel nostro paese troppo compromessa - di coordinamento, che chiamino finalmente in causa l'intervento ordinario. Sono pertanto due i tasti che vanno spinti in vista del '93. Il primo è rappresentato da un vero e proprio processo di creazione dello Stato nella sua struttura ordinaria nel Mezzogiorno attraverso il potenziamento delle articolazioni regionali e locali, ma anche con l'appropriata rifondazione della presenza e del ruolo dello Stato centrale. Il secondo è costituito da una coraggiosa, progressiva riduzione di ampiez- {)jJ. lll.\\(:O '-1(.11. nosso •h•Eild Napoli, Fontana Medina za dell'intervento straordinario che sicuramente non ha più, né potrebbe pretendere, quei caratteri globali, di soggetto generale dello sviluppo, che ha avuto, con buona fortuna, nei 15-20 anni successivi alla costituzione della Cassa per il Mezzogiorno, nel 1950. L'intervento straordinario, piuttosto, andrebbe orientato sia al sostegno culturale e organizzativo ai processi di sviluppo imprenditoriale ed alla rete delle autonomie regionali e locali (sfoltendo le procedure, snellendo e riqualificando gli strumenti d'intervento), sia ad alcune azioni strategiche (acqua, telecomunicazioni e formazione). Ma semplificando gli strumenti di intervento e rifuggendo dalle logiche del passato. È scarsamente produttivo e, in ultima analisi, dannoso immaginare interventi di supplenza. Ai nostri giorni le carenze del Mezzogiorno relative al1'acqua, per fare un esempio di grande significato, sono quelle proprie di tutto il paese. Nel Mezzogiorno esse sono maggiori per motivi d'ordine naturale ma soprattutto per deficienze organizzative. Ecco perché nel Mezzogiorno c'è necessità di uno sforzo aggiuntivo, che abbia risvolti culturali e più marcate esigenze procedurali. Qui sta il problema. L'aggiuntività e la straordinarietà del Mezzogiorno negli anni '90 risiede in un supplemento di cultura, di energia, di responsabilizzazione dei poteri pubblici centrali e locali, di nuova solidarietà nazionale, pubblica e privata, intorno ad obiettivi ben definiti nello spazio e nel tempo, mirando a risultati validi per tutta •. 17 •- - --- - --- -- quanta la società nazionale. Probabilmente è solo se ci si mette in questa ottica che si potranno affrontare i problemi che si pongono per il Mezzogiorno d'Italia nel 1993: niente è perduto, ma le cose da fare sono molte, importanti ed improrogabili, e richiedono l'apporto consapevole e convinto cosi del centro come di quella che, in un tempo ancora recente, veniva definita la periferia. Quest'ultima al presente costituisce la componente di base di una più ricca ed articolata realtà nazionale ed europea. Eppure anche nei nostri anni si è assistito, di fatto, alla deresponsabilizzazione dei meridionali, attraverso una troppo lunga consuetudine di incentivi, sussidi e perfino, in tempi recenti, attraverso la scelta di opere pubbliche locali decise al centro. Merita attenzione il fatto che mentre, ad esempio, cresce un volontariato motivato, agguerrito, capace di puntare al bene comune e con forte carica creativa e mentre al tempo stesso si è affermata una nuova, seppur ancora ristretta, classe imprenditoriale, nel complesso gli interventi che si continuano a proporre e a faticosamente realizzare nel Sud sembrano guardare più al passato che al presente, e ancor meno alla sfida europea e mondiale. Tra l'altro, si insiste tuttora pressoché esclusivamente sulla linea della esecuzione delle opere pubbliche, trascurando la gestione e la manutenzione delle infrastrutture esistenti e di quelle che stanno per essere ultimate. Si ripropone quindi il tema della classe dirigente del Mezzogiorno. C'è
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