Il Bianco & il Rosso - anno I - n. 7/8 - ago./set. 1990

f· nwn!-iilt• di dihattito politico L. 6.000 11 12 14 15 16 18 1!) 21 22 23 25 26 27 28 Spt•d. in ahb. postale• Gr. 111/70% . Annoi sommario agosto/settembre 1990 DOSSIER: Mezzogiorno e società civile Nuovo Meridionalismo: ripartire dalla società civile, di F. Vigevani Sud: al centro i problemi sociali, di G. Biondi Le due Italie: il Mezzogiorno oggi, di S. Cafiero n meridionalismo è morto? di S. Andriani Oltre il vecchio meridionalismo: il Sud dentro la società intera, di S. Zoppi L'Economia inceppata, di M. D'Antonio Camorra e politica, di A. Lamberti Mezzogiorno: traditi dalla retorica, di B. Manghi Più lavoro, meno assistenzialismo di R. Morese Dalla dipendenza allo sviluppo moderno, di E. Giustino La questione meridionale e le imprese, di L. Abete L 'lri e il Mezzogiorno, di M. Marin Sud: riorganizzare il commercio, di G. Sambucini Nuova politica per finanza e credito, di N. Nesi Cooperar.ione e Mezzogiorno, di P. Giacomelli 30 Donne e modello di sviluppo meridionale, di M. 31 Giannini Donne del Sud: qualche nota per capire, di A. 32 Cambria n nuovo precariato meridionale, di P. Botta 34 Qualificare scuola e università, di C. Ciliberto 35 Sanità e Mezzogiorno, di V. Viggiani 36 Chiesa e Sud Italia: per ricostruire l'uomo di R. 38 Cananzi Chiesa,questionemeridionale, mafia, di F.M. Stabile 3!) Sud: Napoli come "simbolo", di G. Baget Bozzo 42 "Caro amico, ti scrivo": Sud tra militanza e poe- 43 sia, di V. Consolo Fortuna o sciagurad'Italia: una bibliografiasul Mer.- 45 zogiorno, di Biblo ALL'INTERNO: altri articoli di P. Carniti, M. Sepi, G. Quintarelli, G. Surrenti; W. Galbusera, A. Benevelli, G. Perego, G. Thumser G. Liverani, F. Dassetto, L. Sciascia Scala mobile: molto rumore per nulla? di Pierre Camiti L ' accordo del 6 luglio ha concluso, dei rinnovi contrattuali per chimici e meccanicon reciproca soddisfazione, le ma- ci e possono evitare lo sciopero generale novre estive tra Confindustria e sindacati. I dell' 11luglio, scomodo test preferiale della losindacati ottengono lo sblocco delle trattative ro rappresentatività e soprattutto della preca-

DJI, BIA!\CO '-Xli.ROSSO IIU•k11diili ria unità tra i lavoratori del settore privato e quello pubblico. La Confindustria porta a casa la promessa dj un negoziato sulla riforma della struttura del salario che si effettuerà il prossimo anno e, quel che più conta, una fiscalizzazione aggiuntiva degli oneri sociali, la cui entità non è stata precisata, ma che dovrebbe aggirarsi intorno ai 1500miliardi di lire all'anno. Il Governo non ha chiarito come saranno trovate le risorse per garantire questi sgravi. Il ministro Cirino Pomicino ha lasciato capire che basterà qualche gioco di prestigio sul bilancio. Resta indicativo che Pininfarina abbia chiesto con insistenza, ed ottenuto, che dal testo dell'intesa dove si parla di "significativa e stabile riduzione degli oneri impropri a carico dell'industria" fosse cancellato il seguito della frase che diceva: «nel quadro delle compatibilità finanziarie fissate dal documento di programmazione finanziaria». In passato il governo ha spesso risolto situazioni di tensione tra le parti sociali concedendo qualcosa e ponendone il costo a carico della collettività. Questa linea di intervento, insieme all'irrisolta questione fiscale e lo sfascio della pubblica amministrazione, ha finito con l'incrementare a dismisura il debito pubblico. Il risultato è che le entrate relative all'Irpef non bastano a pagare gli interessi sul debito. Il permanente ricorso a simili "rimedi" suscita, quindi, fondate riserve. I problemi che si pongono al Paese in vista dell'Unione Economica e Monetaria europea sono infatti quelli di una eliminazione del differenziale di inflazione, di un indifferibile risanamento della finanza pubblica e dell'adozione di regole istituzionali convergenti con quelle delle più forti economie europee con le quali vogliamo integrarci. Persino la possibilità di discesa dei tassi di interesse italiani verso quelli della Germania, della Francia, del Belgio e dell'Olanda, da cui deriverebbe un decisivo sollievo per i conti dello Stato ed un ulteriore miglioramento per quelli delle imprese, dipende dalla decisione con la quale saranno sciolti questi nodi. Con questi problemi la disdetta della scala mobile e la invocazione di una "nuova struttura del salario" che la Confindustria, con un'intera pagina a pagamento su tutti i quotidiani aveva indicato come le condizioni per restare in Europa, c'entrano poco o nulla. Sono servite alla Confindustria semplicemente per drammatizzare le relazioni sindacali e battere cassa al Governo. Non a caso l'intesa Governo, sindacati, Confindustria si limita a dire che quello varato nei giorni scorsi è l'ultimo rinnovo, per legge, della scala mobile ed a promettere che le parti esamineranno in tempi brevi "la struttura del salario". Cosa concretamente questo significhi nessuno lo sa. La formula magica "riforma della struttura del salario" tiene infatti il campo almeno dalla metà degli anni '70. Dalle discussioni di allora si deduce che essa doveva servire a realizzare un rapporto più equilibrato; tra salario diretto e salario indiretto; tra automatismi e contrattazione; tra costo del lavoro e salario netto in busta paga. Da allora passi ne sono stati fatti parecchi. La prima esigenza ha, infatti, trovato una soddisfacente soluzione con gli accordi e la successiva legge che ha fortemente ridimensionato l'indennità di fine rapporto di lavoro. La seconda è stata affrontata con diversi provvedimenti che hanno ridotto (soprattutto nel settore privato) gli automatismi legati al1'anzianità ed il grado di copertura che la scala mobile assicura rispetto all'inflazione, passato, nel giro di pochi anni da circa il 90 per cento a meno del 50 per cento. La terza questione è stata fin'ora parzialmente affrontata con una fiscalizzazione degli oneri sociali di 3.750 miliardi per quest'anno che saliranno a 4.250 nel 1991 ed a 4.500 nel 1992 e che, come si è detto, a partire dal prossimo anno, sarà incrementata di altri 1.500 miliardi all'anno. Anche con questa aggiunta i prelievi italiani sulla busta paga resteranno più elevati rispetto a quelli di alcuni altri paesi europei. Ma a questo fine il negoziato sulla ''riforma della struttura del salario" previsto tra le parti sociali il prossimo anno non può nulla. La soluzione è infatti nelle mani del Governo e del Parlamento che possono ridurre gli oneri sociali decidendo però un parallelo aumento delle entrate fiscali. Innanzi tutto combattendo un'evasione scandalosa (che ci fa davvero diversi dall'Europa) e facendo pagare tutti, aziende comprese, in giusta proporzione. La riduzione degli oneri sociali in parte può anche essere finanziata chiudendo alcuni dei mille rigagnoli con cui si alimenta il fiume di denaro che viene trasferito dal bilancio pubblico al sistema delle imprese. Cosa che naturalmente si può fare. Ma dipende, appunto, dalla volontà politica, non certo dal futuro negoziato tra Confindustria e sindacati. Con questo non si intende dire che non si possa tentare di razionalizzare le voci che compongono il salario, anche se, probabilmente, i risultati saranno impari alla fatica.

iclll, BIANCO l.Xll,HOSSO IM111A11ii1ll In ogni caso, qualunque ipotesi di riordino del salario dovrà assecondare l'esigenza di una triplice ripartizione. Innanzi tutto una quota di "salario sociale" da garantire a tutti i lavoratori, anche quelli marginali non tutelati dalla contrattazione. In secondo luogo una quota di "salario professionale" legata ai rinnovi contrattuali. Infine una quota di ''salario di produttività legato al diverso andamento delle aziende. Se fossimo un paese più europeo, con una cultura meno provinciale, dovremmo prevedere anche una quota di "salario familiare" perché le differenze di reddito decisive riguardano le famiglie piuttosto che gli individui. Ma questa valutazione, per il momento almeno, sembra estranea ai responsabili della nostra politica salariale. In questo quadro con la disdetta della scala mobile la Confindustria ha messo l'accento sul primo elemento di quelli che dovrebbero concorrere a costituire il salario. Nell'accordo il Governo ha promesso che dopo il 1991 di questo istituto non ci saranno altre proroghe attuate per legge. È una buona cosa perché l'autonomia contrattuale sui problemi che riguardano il salario è sempre da preferire all'intervento della legge. È bene infatti che siaNapoli, Panorama da S. Martino. = 3 no le parti sociali a prendersi le loro responsabilità. Resta comunque il fatto che una scala mobile "privata" non produce effetti diversi da una scala mobile "pubblica", cioè adottata per legge. Nulla impedirà, naturalmente, alle parti di cambiare anche radicalmente questo istituto che, come tutti, è il prodotto della storia contrattuale e può quindi cambiare con il mutare del contesto storico. Ma le parti non potranno scavalcare il problema di garantire a tutti una quota di "salario sociale" un salario minimo da adeguare sulla base di parametri automatici o di negoziati periodici, come del resto, in vario modo, avviene in tutti gli altri paesi industrializzati. Poiché attualmente la scala mobile assicura una quota del salario intorno alle 900mila lire lorde mensili, è difficile immaginare che qualunque altro meccanismo, comunque battezzato, possa stabilire un salario sociale più basso. Ecco perché le smisurate aspettative che da alcuni commenti sono state assegnate al negoziato del prossimo anno sono, prima ancora che fuori luogo, illusorie e fuorvianti. Si può infatti anche credere nell'impossibile. Non nell'improbabile.

i.).fJ. lllANU) l.XII. ROSSO iii•iii•il La legge sul delle • commerc10 • armi di Mario Sepi I mportante tanto dal punto di vista istituzionale che sul piano dell'innovazione dei contenuti legislativi, il varo della legge sul commercio delle armi è passato però quasi inosservato nei mass media e nei resoconti di stampe. Sul piano istituzionale, questa legge frutto di una iniziativa parlamentare autonoma dal governo e in un certo senso dalle direzioni dei partiti, sostenuta dai movimenti pacifisti, si distingue significativamente rispetto ad un panorama legislativo perennemente occupato dalle iniziative e dalle proposte del governo o dei partiti. In un periodo di generale dibattito sui temi istituzionali, stupisce che questa rara assunzione di responsabilità del Parlamento non sia entrata nella discussione. Una novità che pure indica come sui temi che coinvolgono profondamente la coscienza civile del paese, il Parlamento possa svolgere un ruolo da protagonista. Tuttavia è sui contenuti che la legge è forse ancora più significativa, innanzitutto perché malgrado le opposizioni che questo provvedimento aveva trovato dentro e fuori il Parlamento, esso è stato definitivamente approvato dalle Commissioni Esteri e Difesa del Senato all'unanimità, in secondo luogo perché trovano posto al suo interno, almeno formalmente, risposte a tutte le istanze poste dai movimenti pacifisti e da una parte del sindacato. In particolare è abolito il segreto di stato sulle esportazioni di armamenti, viene prevista una regolamentazione che impedisce le triangolazioni, obbligando il paese importatore a garantire l' «end use», delle armi di fabbricazione italiana, è vietata la vendita dei sistemi di armi a paesi che si trovano in stato di conflitto armato, che non rispettano i diritti umani e civili, che siano oggetto di embargo da parte delle Nazioni Unite. C'è di più: anche il sostegno finanziario ad esportazioni illegali di armi configura un'ipotesi di reato. Sorprende che una legge del genere molto più avanzata anche dei vecchi progetti, che le forze progressiste riproponevano da ben quattro legislature, sia passata e per di più al Senato all'unanimità. Certo in questa vicenda hanno inciso, una volta tanto positivamente, gli scandali continui provocati da una politica di esportazione della nostra industria a dir poco disinvolta e in ogni caso contraria non solo ai sentimenti ed alle aspirazioni di un'opinione pubblica in gran parte pacifista, ma a volte alle stesse esigenze di sicurezza del paese: ha inciso inoltre la distensione Est-Ovest e l'avvio di progetti concreti di riduzione degli armamenti. Ma non c'è dubbio che la paziente opera di pressione fatta dal cartello delle associazioni pacifiste «Contro i mercanti di morte», e da parte di un settore consistente del sindacato abbia avuto un ruolo rilevante per isolare quel complesso militare-industriale che aveva imposto al paese, dietro presunte esigenze di bilancia commerciale e di sicurezza nazionale, la sua spregiudicata caccia ai mercati soprattutto nel Terzo Mondo. In questo quadro nessun partito e nessun uomo politico ha rischiato di affrontare un dibattito politico su questi temi. Tuttavia la legge pone due problemi collaterali la cui importanza potrebbe limitarne una corretta applicazione. Il primo è l'efficienza e l'unità operativa della nostra amministrazione. Di fronte alle difficoltà che hanno dovuto affrontare in questo campo, apparati amministrativi modello come quello francese e quello svedese, la nostra amministrazione difficilmente, sen-

i)JJ, BIANCO ~ltHOSSO iii•iil•il za un profondo rinnovamento, avrà la capacità e la forza per sconfiggere definitivamente quel sottobosco politico-militare di intermediari, che dominano questo mercato. D'altra parte questa legge prevede una collaborazione tra i settori più disparati, dal Ministero delle Ppss ai carabinieri, dai diplomatici ai servizi segreti. Se tra questi organi dello stato non si creerà una vera unità operativa si creeranno spazi invitanti per pratiche illegali sotterranee capaci di eludere il dettato legislativo. Il secondo problema riguarda la riconversione. Questo provvedimento e la distensione Est-Ovest creano le premesse per una forte riduzione dell'industria di produzione bellica. Questa legge, pur accennandovi, lascia inalterato il problema degli strumenti capaci di avviarla e sostenerla. È una grave lacuna che forse questo provvedimento non poteva risolvere, ma che il governo, oltretutto proprietario, attraverso le Ppss dei maggiori gruppi industriali del settore, dovrà prima o poi affrontare. Le decine di accordi sindacali, fatti nelle fabbriche d'armi sui temi della riconversione da prodotti militari a civili, devono infatti trovare un interlocutore istituzionale che investa sia i problemi finanziari che quelli occupazionali. Finora a parte una commissione presso le Ppss, ridimensionata con l'esclusione dei sindacati, i cui esiti si preannunciano molto deludenti, ·n governo ha preferito ignorare il problema. È facile prevedere che ancora una volta si interverrà troppo tardi e quindi con costi sociali e finanziari molto superiori a quelli che oggi sarebbero necessari. Pesticidi e fitofarmaci: tra fatti e fantasie di Giuliano Quintarelli L a Sezione Provinciale di Roma della Lega Tumori inizia una collaborazione con la rivista // Bianco e il Rosso con una serie di articoli sulla salute, discutendo di problemi che ci toccano più da vicino: dalla alimentazione, agli effetti degli stress sul nostro organismo, ai problemi connessi con l'insonnia od agli aspetti più caratteristici della senescenza, argomenti, cioè, che riguardano in modo particolare lo stile di vita attuale. Come inizio si è scelto un argomento, il problema dei pesticidi in agricoltura, che in questi giorni ha destato un notevole interesse nell'opinione pubblica ed ha posto il problema se certi fitofarmaci possono danneggiare il nostro organismo intossicandolo o, addirittura, svolgere su di esso un'azione cancerogena. Attualmente nel nostro Paese l'opinione pubblica è divisa tra coloro che ne sostengono l'abolizione e quelli che invece ne promuovono l'uso. Come premessa a questo argomento bisogna ricordare che le concimazioni dei terreni, così come si usava 40-50 anni fa, erano ben diverse dalle metodiche attuali. Un tempo il fertilizzante principale era rappresentato dallo stallatico, il prodotto cioè delle deiezioni bovine che svolgeva la sua lenta e progressiva attività biologica sull'humus. La produzione allora era piuttosto ridotta per cui un ettaro di terreno in zone collinari, ad esempio del Lazio, non rendeva più di 10-12 quintali ad ettaro. Oggi lo stesso terreno produce 40-50 quintali di grano ad ettaro e questo incredibile aumento della produttività, oltre all'uso di più potenti mezzi meccamc1, è dovuto a due specifici fattori: 1) ad un abbondante uso di fertilizzanti;

~!tBIANCO \.XII.HOSSO Mi•iil•P 2) ad una estesa utilizzazione di pesticidi. Questi ultimi si dividono in tre categorie: a) gli insetticidi (arsenicali, fluoruri, Ddt, idrocarburi di origine vegetale, derivati dal cianuro, fumiganti, etc); b) i chemiosterilizzanti (antimetaboliti, agenti alchilanti); c) i fungicidi, gli antibiotici, gli erbicidi (composti inorganici, derivati policiclici dell'azoto come ad esempio l'atrazina). Tutti questi composti agiscono con una modalità comune: bloccano l'attività metabolica del parassita pur differendo tra loro per quanto àttiene alle dosi necessarie per svolgere la loro azione. Alcuni di questi prodotti sono cancerogeni quando sperimentati sugli animali e dimostrano un'attività mutagenica sia sui batteri che su cellule coltivate in vistro. La cancerogenicità di una sostanza chimica dimostrata su animali di laboratorio non si può trasferirla sull'uomo poiché le condizioni sperimentali con cui si provoca un tumore in un animale sono ben diverse dalle modalità mediante le quali può insorgere una forma neoplastica nell'uomo. Certo, se si considera che il cancro è oggi ritenuto una malattia che ha origini multifattoriali si può desumere che l'assunzione di fitofarmaci ripetuta negli anni possa concorrere, assieme ad altri agenti, all'insorgenza di un tumore. Siamo però nel campo di ipotesi che, per quanto solide, debbono essere suffragate da prove concrete. Va inoltre ricordato che il nostro organismo dispone di mezzi di difesa eccezionali rappresentati dal sistema immunitario che gli consentono di neutralizzare l'effetto nocivo determinato da agenti chimici diversi. Un sicuro effetto cancerogeno si è riscontrato, invece, per il personale che è abitualmente a contatto con i fitofarmaci che, per motivi di lavoro, vengono manipolati giornalmente. Recenti studi svolti su 22.000 lavoratori che utilizzano pesticidi per la conservazione delle granaglie, presentano un elevato rischio per le leucemie, per il cancro del pancreas ed anche per i linfomi nonHodgkin. I fitofarmaci più frequenti usati per la conservazione delle granaglie svolgono azione mutagenica e determinano delle alterazioni cromosomiche correlabili ad altri tipi di tumore. È vero quindi che coloro i quali manipolano abitualmente certi pesticidi sono esposti a rischio oncogeno. Ma è di estremo interesse rilevare che le : 6 farine ottenute da quelle medesime granaglie trattate con questi fitofarmaci sottoposte a rigorosi esami tossicologici non presentano alcuna attività mutagena o cancerogena. È quindi ,necessario approfondire con cognizione di causa certe notizie che tendono a creare una psicosi nel lettore senza una reale motivazione. Al giorno d'oggi le tecniche analitiche consentono di evidenziare componenti chimiche in quantità talmente ridotte che si aggirano attorno a valori di milionesimi di milligrammo, determinazioni che non esistevano praticamente 30 anni fa. Non deve quindi sorprendere se con le tecniche moderne si mettono in evidenza quantità di agenti chimici che una volta non erano assoiutamente accertabili sotto il profilo analitico. A dimostrazione che la scienza può migliorare sempre più l' «habitat» fisicochimico in cui viviamo, il seguente esperimento ne dimostra tutto il suo valore e la sua validità. Recentissime ricerche di ingegneria genetica, svolte su un batterio particolare, hanno condotto alla scoperta di un vaccino per i semi delle granaglie che consente di abolire l'uso dei pesticidi. Diversamente dai vaccini umani il fitovaccino non stimola il sistema immunitario della pianta bensì ne modifica l'apparato genetico introducendo in esso il gene ottenuto da un batterio: il Bacillus Thuringiensis. Questo gene sintetizza una proteina che uccide il parassita senza alterare il patrimonio genetico del germe di grano. Questa importantissima scoperta consentirà l'eliminazione totale dell'uso dei pesticidi sulle granaglie. Il fitovaccino potrà essere utilizzato entro il 1993/94. Scoperte come questa, di così grande importanza sociale, debbono incoraggiare l'opinione pubblica la quale deve avere fiducia nell'intelligenza e nelle capacità «ripara ive» e costruttive dell'uomo. Se è vero che la nostra società, proiettatasi in questi anni verso un consumismo esasperato è la causa principale del degrado ambientale, è altrettanto vero che per sopravvivere essa dovrà trovare in sé quelle risorse scientifiche e culturali che consentiranno di ridurre le contaminazioni dell'ambiente permettendo, a tutti noi, un modus vivendi più sicuro e sereno.

~JJ. BIANCO (l(._11.ml&',O Uiiii•iit Ripensando all'unitàsindacale «Il Bianco e il Rosso» ha aperto un dibattito, con l'intervento di Ottaviano Del Turco, nel numero scorso. Tema: l'unità sindacale, eterno dilemma degli ultimi 40 anni di storia del movimento operaio italiano. In questo numero pubblichiamo gli interventi di Giuseppe Surrenti, segretario generale della Fis-Cisl, e di Walter Galbusera, segretario generale della UilLombardia. Il discorso resta, naturalmente, aperto. Unità: le ragioni della crisi attuale di Giuseppe Surrenti ' ' L a finalità originaria del sindacalismo è l'unità", così ci insegnava tanti anni fa un noto accademico del diritto del lavoro, e nessun sindacalista o lavoratore iscritto al sindacato dubita che le cose stiano così. I risultati migliori il sindacato italiano li ha realizzati nei momenti più alti dell'unità e anche adesso li realizza quando possiede una piattaforma e una posizione unitaria. Ma quarant'anni di pluralismo sindacale lasciano il segno. Che oggi siano venute meno le ragioni che diedero origine alla scissione è un fatto che rende giustizia a coloro che rifiutarono e si batterono contro il modello sindacale leninista, ma è anche un fatto che il pluralismo sindacale ha messo le radici, che rischiano di diventare ancora più salde in seguito alla nascita di nuovi attori e di nuovi centri di rappresentanza. Certo i lavoratori preferiscono un solo sindacato, ma sono anche abituati a convivere con un sindacato confederale contemporaneamente unitario e pluralista. E perché poi non dire con chiarezza che le resistenze della burocrazia sindacale delle tre confederazioni sarebbero enormi? I destini personali di molti dirigenti diventerebbero incerti o sarebbero sottoposti a profondi cambiamenti; costoro diventerebbero i più strenui dif endosi del pluralismo sindacale. Nonostante questo, o forse proprio per questo, credo che la prospettiva unitaria avrebbe una grande carica dirompente in una situazione stagnante e che sembra portare il sindacato confederale verso un lento declino. La proposta politica del sindacato conf ederale si è infatti di molto appannata. I sintomi di crisi ci sono, e anche se non ci pongono davanti ad alternative drammatiche vanno affrontate senza reticenza. Non è questa la sede per affrontare l'analisi dei punti di crisi della confederalità, ma sia consentita una rapida riflessione sul recente accordo siglato tra governo, confindustria e sindacato. Tale accordo ha permesso a tutti gli attori di uscire da una situazione di "impasse", una situazione dalle incerte prospettive, ma ha anche decretato la fine della scala mobile. Si chiude così la fase degli automatismi e delle garanzie forse un po' obsolete, ma si chiude anche la fase della solidarietà realizzata con quelle politiche, con quegli strumenti. Quale sia il modello di solidarietà al quale il sindacato confederale vorrà ispirarsi negli an-

i.>-ll• BIA!\CO u..11. nosso iii•iil•P ni futuri non è chiaro, ma non risulta neanche essere in corso un grande dibattito sull'argomento. Se si vuole perciò parlare in modo credibile di unità sindacale bisogna allora parlare con grande franchezza della crisi del sindacato confederale, perché solo da una riflessione e da una analisi comune su questo punto può nascere un progetto unitario. La crisi delle ideologie e la nascita di "nuovi tempi" non bastano. Non esistono spinte oggettive al cambiamenti e l'inerzia della conservazione tende a prevalere. Che in fondo il sindacato, perda un po' di potere e di legittimazione sociale non è da tutti visto come un fatto negativo. L'aggressività delle nuove formazioni autonome mette in discussione il monopolio della rappresentanza conf ederale, ma non la presenza e il ruolo dei sindacati confederali ed è anche vero che dalla competizione tra quest'ultimi e gli autonomi non sono finora venuti svantaggi ai lavoratori. In conclusione non ci troviamo di fronte alla evoluzione naturale del processo unitario, né si può dire che la competizione con le nuove forme di sindacato spinga necessariamente ad una nuova unità. Quest'ultima può scaturire soltanto dalla convergenza progettuale di alcune componenti innovative oggi disperse nelle tre confederazioni. Ma proprio per questa ragione l'unità non può essere il risultato di una composizione meccanica delle componenti esistenti, ma di una trasformazione degli obiettivi e del modo stesso di fare sindacato. Oltre i conflitti: le nuove regole del gioco di Walter Galbusera L a partecipazione dei lavoratori al governo dell'economia e delle imprese impone la necessità di collocarsi all'interno del sistema economico e delle sue regole per concorrere a determinare obiettivi e vincoli della politica economica e sociale della gestione delle imprese. Non si può prescindere aprioristicamente dal principio delle compatibilità inteso come fattore di stabilità, di continuità e di sviluppo. Il sindacato non è una variabile indipendente, ma è parte di un sistema che trae la propria legittimità dal consolidamento di uno stato di diritto teso ad allargare sempre più gli spazi di partecipazione e di controllo (e quindi le condizioni di trasparenza) senza per questo rinunciare alla governabilità. Ed è proprio in questa direzione che si deve sviluppare il ruolo del sindacato attraverso una richiesta di potere anche sotto forma di informazione, con l'assunzione delle responsabilità che ne derivano, soprattutto nel momento in cui la società della manifattura lascia il passo alla società dell'informazione. Circoscrivere alla sola dimensione conflittuale l'azione del sindacato significa subire la pura logica dei rapporti di forza tradizionali, che non solo è miope e inadeguata, ma che finirebbe col trascinare il sindacato all'isolamento e alla sconfitta. D'altra parte la costruzione di sed1 di partecipazione istituzionale capaci di garantire effettivi strumenti di informazione e controllo, come nuova e non esclusiva forma del potere sindacale, non può e non deve essere vissuta come un ridimensionamento degli spazi di libertà individuale o collettivi anche se impone a tutti nuove regole del gioco. In questo ambito la forma storicamente attuale dell'organizzazione della democrazia (a maggior ragione della democrazia economica), è quella della democrazia rappresentativa, fatta di procedure certe e di deleghe trasparenti. Sinora è mancata sul piano unitario una coerente ed organica politica di partecipa-

{)jJ, BIANCO ll(Jt BOSSO lililii•b zione nel senso della assunzione di responsabilità e nell'accettazione di regole del gioco che in una società complessa debbono necessariamente accompagnare il costante e rigoroso perseguimento degli obiettivi prioritari. La questione «partecipazione» continua quindi a permanere un nodo ancora irrisolto, ma resta anche una via obbligata perché non esistono ad essa alternative se non quelle della caduta progressiva di ruolo politico per il sindacato che paradossalmente rischierebbe di trovarsi nella poco rimediabile condizione di cogestire le situazioni di crisi assumendosene in parte anche le responsabilità senza trarne alcun vantaggio in termini di poteri di controllo o di diritti di informazione. Il quadro attuale delle forme di partecipazione è molto vasto, carico tanto di ambiguità quanto di vincoli rigorosi, differente per livello di poteri e di responsabilità, per la dimensione e natura dell'attività svolta dal soggetto interlocutore. Esse incidono ora sull'impresa ora sul sistema delle imprese, ora mediante l'intervento pubblico nell'economia: interessano sia il settore privato sia quello della pubblica amministrazione. Si strutturano con modalità diverse e danno luogo a regole di natura diversa oppure semplicemente a pressioni. Assai complessa è poi la realtà della P .A., a livello centrale e periferico in particolare delle strutture erogatrici di servizi pubblici essenziali, in cui l'esistenza di un rapporto di lavoro di natura pubblica e il rilievo che è venuto ad assumere nel settore la figura del giudice amministrativo costituiscono una specificità su cui sarebbe opportuna una riflessione più approfondita. È evidente che una politica che fa della partecipazione istituzionale il suo strumento di natura strategica non può che svilupparsi lungo due linee strettamente connesse: quella costituzionale e legislativa ordinaria che trova il suo campo di applicazione nel sistema delle imprese pubbliche e private e quella della concertazione, della programmazione e della politica dei redditi. Una politica di sviluppo di cui il sindacato possa essere protagonista richiede la governabilità ad ogni livello, ma ciò non può essere inteso come un tentativo di negare il conflitto ma, al contrario, di razionalizzarlo ai fini di renderlo più adeguato ad un sinda- : 9 cato che vuole essere soggetto protagonista delle scelte di fondo per il governo dell'economia. La politica dei redditi è lo strumento operativo che traduce in provvedimenti gli accordi sottoscritti al tavolo della concertazione triangolare, modulati in relazione al quadro complessivo delle scelte decise dal Parlamento che rimane depositario ultimo della sovranità popolare. Una vera politica dei redditi, strumento essenziale della concertazione, deve disporre necessariamente per essere tale, di un fisco equo ed efficiente. Essa può determinare in funzione delle circostanze tetti programmati o dinamiche predeterminate di crescita della remunerazione dei fattori produttivi e dei servizi pubblici, accompagnati da adeguate clausole di garanzia, modificare la struttura del costo del lavoro e individuare le fonti di finanziamento della fiscalizzazione degli oneri sociali. Tale politica ha bisogno di condizioni, strumenti e procedure certe. Tra l'altro si potrebbe avvalere del Cnel riformato che, in quanto rappresentante di tutte le forze sociali, potrebbe avere il necessario consenso, l'autorevolezza e la competenza ad elaborare ed omologare i diversi dati e parametri sulle dinamiche dei redditi e dei prezzi, al fine di fornire alle parti indicatori certi sulla base dei quali costruire trattative e realizzare gli accordi anche al fine di evitare incertezze interpretative. Ma la concertazione è complementare ad un coerente progetto di partecipazione alla gestione delle imprese. In questi giorni, proprio da parte di quello che da sempre è stato il più rigido dif ensore delle prerogative d'impresa, arriva l'apertura più clamorosa, che coglie la più estrema tra le soluzioni ipotizzate nel dibattito sulla partecipazione dei lavoratori. Romiti rilancia, infatti, l'ipotesi della presenza di rappresentanti dei lavoratori nei C.d.A. delle aziende. È paradossale che una simile proposta da sempre messa all'indice sia dal mondo delle imprese perché considerata evasiva, sia dalla sinistra sindacale perché «collaborazionista», e sostanzialmente abbandonata dall'area sindacale interessata alla politica concertativa perché «prematura», ricompaia ora attraverso un simile canale. È importante che noi cogliamo e com-

.{)JJ. Bl.\~CO \XII.HOSSO iiiiiilid prendiamo in pieno questa svolta. L'innovazione tecnologica e l'adattarsi dell'impresa alle nuove forme del mercato fa emergere una diversa caratteristica nella prestazione lavorativa: la flessibilità, e la responsabilizzazione sul piano dei risultati (in termini anche di quantità, ma ormai soprattutto di qualità e di economicità di impresa). Si tratta di «disponibilità» che l'azienda è costretta a richiedere al lavoratore, e che pertanto costituiscono oggetto qualificato di scambio sindacale, e al contempo con sé, come condizione realistica perché funzionino nella pratica, l'esigenza di un coinvolgimento formale e sostanziale dei lavoratori nella vita e nelle scelte dell'impresa. Quel che è stato, negli anni scorsi, oggetto più di dibattito politico e culturale che di rivendicazione convinta è ora terreno immediato e riconosciuto di confronto, di scambio e di accordo tra le esigenze delle imprese e quelle dei lavoratori. Il sindacato, perciò, deve rispondere alla sfida contenuta nel progetto della Fiat accettando il confronto, entrando nel merito della proposta, valutandola ed avanzandone una propria con l'obiettivo non, genericamente, di riaprire il dibattito, ma di arrivare ad un vero e proprio accordo. Naturalmente occorre muovere da quanto già sperimentato in materia di partecipazione: ci riferiamo soprattutto ai protocolli Iri, Eni ed Efim, che in qualche misura stabiliscono una procedura di consultazione preventiva, ma anche a numerosi recenti accordi aziendali che hanno legato gli incrementi salariali ai risultati d'impresa. Entrambi questi tipi d'esperienza si rifanno ad un modello cosiddetto dualinico, che lasciando impregiudicate le responsabilità e le titolarità dell'impresa, stabiliscono un obbligo al negoziato e un diritto di controllo da parte dei lavoratori. È un modello intermedio, formalmente meno forte della pura e semplice cogestione, ma in realtà potenzialmente assai efficace e rispettoso delle reciproche autonomie, flessibile dal punto di vista della sua applicazione. Si tratta inoltre, del modello verso il quale, tra mille incertezze e ritardi, ci si sta tuttavia muovendo in tutta la Comunità Europea. A - ADISTA Agenzia di notizie, documenti e rassegne: tutto quello che awiene, si dice, si scrive e si tace nel mondo cattolico italiano e internazionale esce due volte a settimana Con alle spalle ben 24 anni di attività informativa ADISTA si propone quest'anno di potenziare i suoi servizi e di allargare il già vasto campo dell'utenza ADISTA assicura, 2 volte a settimana, dierettamente a casa degli abbonati, la più ampia e tempestiva informazione dal e sul mondo cattolico italiano e internazionale, con appena 40 mila lire l'anno d'abbonamento Chi, oltre al proprio abbonamento (nuovo o rinnovavato), ne procura uno nuovo, riceverà in Omaggio l'ultimo libro di GONZALEZ RUIZ •LA CHIESA NELLE INTEMPERIE• Anche i nuovi abbonati, procurando un altro abbonato hanno diritto al libro di Gonzalez in omaggio ABBONAMENTO 1990: L. 40.000 Versamento sul ccp n. 33867003, oppure assegno bancario non trasferibile, oppure vaglia postale. intestare a: ADISTA - Via Acciaioli, 7 00186 Roma Di ADISTA hanno scritto: , , ADISTA, redatta con intenti critici e con taglio apertamente ecumenico, svela sovente anche l'•altra faccia• della realtà ecclesiale, i •nodi• che la stampa diocesana non sempre ha il coraggiodi affrontare, sia per oggettiva mancanza di informazione adeguata, sia per un certo timore reverenziale che ancora si awerte in molti periodici di casa nostraquando è in gioco l'istituzione ' ' Angelo Montonati (Vita pastorale n. 5/89) ' ' AD/STA è il miglior osservatorio esistente in Italia per quanti sono interessati a seguire l'attività del mondo religioso, , Enzo Forcella (Epoca 13-8-1987) ~ -- - ---~---- ~-- :: lii

{)lL BIANCO ~11,HOSSO iit•#hld Mezzogiorno e società civile Questo Dossier: Il Mezzogiorno è, da almeno due secoli, uno dei problemi centrali della realtà italiana. Lo è ancora oggi, nonostante tante promesse, tanti stanziamenti di fondi, tante leggi e tante parole spese per la sua «promozione». «Il Bianco e il Rosso» analizza, nei testi seguenti, alcuni aspetti principali della tematica del Mezzogiorno, ma ha lapretesa di individuare nel problema del mancato sviluppo della «società civile» una chiave di lettura complessiva di tutto il problema. I contributi, come il lettore vede immediatamente, sono molto diversi tra loro, per ottica e per autori, ma nel loro complesso offrono un panorama significarivo degli aspetti che oggi presenta la cosiddetta «questione meridionale». Dallaprospettiva globale, affrontata nei primi contributi, ci si sposta apoco apoco prendendo in considerazione i diversi attori sociali e i problemi aperti dal confronto tra essi (sindacati, imprenditoria, commercio, finanza, chiesa, ecc.) e laproblematica del Mezzogiorno. Nessuna pretesa di completezza, o di risposte definitive. Solo, come è nello stile del nostro mensile, una pietruzza offerta alla ricostruzione di un tessuto civile più vivibile. La bibliografia ragionata che, come di consueto, conclude il Dossier, potrà offrire spunti carichi di prospettive. (g.g.) Nuovo Meridionalismo: ripartiredalla società civile L a questione meridionale sembra ridiventare esclusivamente una questione di mafia. Eppure non solo nulla è accaduto a modificarne le caratteristiche di assoluta gravità, ma si accentuano quei processi che sul piano internazionale e interno rischiano di relegare il Mezzogiorno a questione di criminalità da combattere in sé, e negli intrecci tra mafia, affari e politica e non anche una grande questione economica e sociale che si intreccia con il fenomeno criminale ma che ha anche una sua pardi Fausto Vigevani ticolare specificità. Una questione quindi non «locale», per quanto gravissima, ma nazionale ed europea. Le spiegazioni di questa «rimozione» si possono individuare e riassumere entro due ordini di questioni: i processi internazionali e la situazione interna all'Italia. I processi internazionali sono guidati dagli interessi forti, della politica e dell'economia. Con molta semplificazione e approssimazione si può riassumere tutto ciò nella questione tedesca, politica ed economica insie- : Il me. Con minore semplificazione si può invece sostenere che gli interessi forti si concentrino su tutto ciò che in una fase di acceleratissima trasformazione, serve a tenere o conquistare le posizioni di potere e di mercato, o comunque ad evitare il rischio reale di marginalizzazione. In tutto ciò inevitabilmente, il Mezzogiorno ha ben poco da dire. Ma i termini della questione cambiano radicalmente, anzi si ribaltano se la riflessione parte dal Mezzogiorno, si sviluppa nell'analisi del rap-

.porto con il resto dell'Italia e da qui la si colloca in Europa. Seguendo questo filo di ragionamento la questione diventa nazionale e quindi necessariamente europea. Ma seguendo tale linea, la più difficile ma anche la sola capace potenzialmente di non sganciare il Mezzogiorno dai processi internazionali in atto, emergono con chiarezza i termini attuali della questione meridionale: l'assenza di alternative visibili e credibili alla «gestione» della questione meridionale, premia il vecchio metodo dei trasferimenti monetari, a pioggia, di sostegno ai redditi e ai consumi, premia le clientele, gli intrecci tra affari e politica. Premia chi governa e soprattutto la Dc e un ceto sociale che da ciò trae prebende e privilegi. Ma se questo avviene perché mancano alternative credibili e visibili; se quasi tutto è riconducibile alla spesa pubblica, al suo uso, alla sua gestione; se le imprese, ma anche il sindacato non si sottraggono a questo meccanismo, ma anzi in una certa .L)JJ. BIANCO l.Xll.llOSSO ■ iti#hlii misura ne sono parte, anche se la parte «pulita», bisogna avere il coraggio di cambiare, di proporre e di proporci alternative anche rischiose, in ogni senso, ma reali, a partire da una condizione oggi quasi inesistente, da creare: la società civile. Far leva su quel tanto o poco di società civile tra i giovani, nella scuola, nella comunità ecclesiale, tra soggetti imprenditoriali e con essa costruire progetti e programmi per affermare diritti e bisogni negati, riaffermare o affermare ex-novo, la cultura dell'autonomia, dell'autogoverno, delle autonomie locali, in una parola della democrazia. Cancellare le logiche dell' emergenza, la struttura e la logica dell'intervento straordinario, rendere responsabili e protagonisti i meridionali della loro vita. Qualcuno può pensare, sbagliando, che ciò significherebbe lasciare le popolazioni meridionali a se stesse. Non è così, anzi per chi scrive è vero il contrario. Il quoziente di antimeridionalismo crescente nel centronord dell'Italia è una diretta funzione del grado di dipendenza, di carenza di autonomia, che le popolazioni meridionali subiscono, o accettano, e da cui una parte trae grandi vantaggi, e non solo la mafia. Rifiutare la logica dell'intervento straordinario, rifiutare l'equazione per cui i differenziali economici dovrebbero far accettare o subire differenziali sociali intollerabili, una scuola peggiore, una sanità peggiore, una qualità urbana peggiore, diritti elementari negati. Creare attorno a ciò una società civile, far leva sull'intelligenza presente, cambiare le regole del gioco, sconfiggere quindi passività, assuefazioni, alibi troppo comodi. Un nuovo meridionalismo può incominciare da qui. Senza scorciatoie, senza alibi per nessuno, a partire dal sindacato e da tutta la sinistra, di governo e non. A partire da un processo che porti chiaramente a individuare nel Sud, e soprattutto nel Sud e non solo altrove, chi davvero è antimeridionalista e chi no. Sud: al centro i problemi sociali L ' ipotesi che qui si intende sviluppare è.che i processi di modernizzazione che hanno investito il Mezzogiorno inserendolo e coinvolgendolo nel più generale contesto dello sviluppo della società italiana, non hanno modificato la struttura relazionale e sociale preesistente, non hanno rotto i legami tradizionali e le solidarietà tipiche della società arcaica, non hanno creato le forme moderne della società civile. Questo è dipeso dalle forme e dai di Gigi Biondi meccanismi che hanno mutato l'economia meridionale. Il motore del cambiamento è stato l'intervento straordinario, una massiccia politica di trasferimenti monetari che ha sconvolto il precedente panorama fatto di arretratezza, di una economia povera e di sussistenza, di scarsità di risorse e di consumi. Non c'è dubbio che il moderno Mezzogiorno non presenta più, come centrali per una sua definizione, quei caratteri: basta porre l'accento sui fattori . ------------ - ■ 12 strutturali che hanno agito in direzione dell'omogeneizzazione nel contesto nazionale. La dimensione della scolarizzazione, la fruizione di consumi di beni a carattere simbolico, le forme del tempo libero da un lato; la nuova struttura del1'occupazione, l'urbanizzazione abnorme e lo spopolamento delle campagne, la diffusa terziarizzazione dall'altro: tutto parla di uno sviluppo avvenuto, di una integrazione e di un coinvolgimento del Mezzogiorno.

Napoli, Palazzo Reale La specificità consiste nel fatto che l'intervento straordinario non ha prodotto forme di sviluppo capaci di autosostenersi, autopropulsive e quindi quella che doveva essere una fase di inevitabile dipendenza iniziale dai fattori esterni di stimolo si è dilatata a dipendenza permanente e strutturale. Questo è dipeso dal carattere qualitativo e dalla destinazione privilegiata dei trasferimenti. Fra le tre direzioni possibili - finanziamento di attività produttive, creazione di servizi sociali ed infrastrutturali, assistenza al reddito - quest'ultima è stata quella maggiormente perseguita. La prima direzione ha avuto un breve periodo di successo, quello tra il '68 e la prima metà degli anni '70 coincidente col massimo di espansione del potere sindacale; ma, anche per la necessità del sindacato di ottenere significativi incrementi occupazionali, si è preferito lavorare sull'immediato, impegnando le PP .SS. a creare insediamenti industriali più che sul lungo periodo che sarebbe potuto consistere nella creazione di aree attrezzate dotate di infrastrutture e servizi (ricerca, marketing, sinergie) ne è venuta fuori una imprenditoria locale che vive di commesse, senza mercati propri, e che drena risorse pubbliche in un rapporto di dipendenza verso un ceto politico, anche esso di rapina, teso a realizzare profitti economici e politici a favore delle clientele. La seconda direzione, quella del finanziamento a servizi non ha trovato •h•iiild base espansiva perché collocata più nell'ottica di assistenza occupazionale che di attenzione all'utenza. Si accentua così non solo la tendenza a non valorizzare il rapporto impegno/prodotto, ma anche quella alla soddisfazione dei bisogni della gente tramite la clientela politica. Il Mezzogiorno è quindi passato dal1'arretratezza e dalla miseria alla dipendenza assistita ed all'uso illimitato delle risorse, saltando tutta la fase del1'accumulazione che rompe i vecchi legami e crea le nuove solidarietà ed i valori collettivi. Permane nel Mezzogiorno la vecchia struttura relazionale preesistente alla modernizzazione economica e diviene la rete dei mille vicoli e dei mille canali attraverso cui passa una assistenza che riproduce la dipendenza. Una economia, quella meridionale, ricca di denaro e povera di mercato, direttamente statale o comunque dipendente e subalterna allo Stato. Uno Stato gestito da un ceto politico che ha accuratamente evitato di promuovere valori e principi collettivi e che ha invece inseguito e perseguito i particolarismi sviluppando su di essi un sistema clientelare scientifico e moderno. Fra individuo (non cittadino perché non dotato di diritti e poteri) e ceto politico (non Stato perché non promotore di servizi e di valori collettivi) cresce il deserto della disintegrazione sociale. Il Mezzogiorno moderno si presenta come una società-contro (B. Manghi) come una formazione sociale non integrata e arcaicizzata (A. Lamberti) nella quale sopravvivono le solidarietà primarie di famiglia e di clan come rifugio alla minaccia della precarietà e riconvertite in strumenti di clientela e canali di assistenza. In questa situazione di discreta redditività e bassa integrazione sociale, parlare di mafia e camorra come semplice criminalità, seppur organizzata, è francamente riduttivo. Piuttosto bisogna parlarne come volto criminale ed illegale di pezzi di società non strutturalmente disomogenei al resto, come forme illegali e violente di solidarietà verticali che competono, spesso intrecciandosi, con questo ceto politico per la gestione dei trasferimenti. In questo vuoto di società civile, in un sociale destrutturato e disintegrato nel quale scarseggiano autonomie in grado di organizzare orizzontalmente la solidarietà di interessi e di cultura, i partiti si presentano col solo volto del loro personale politico e burocratico, delle cento segreterie che organizzano clientele, che distribuiscono favori in cambio di consenso. La stessa mietitura elettorale del Psi è avvenuta, più che sul riformismo, su quelle basi di comportamento delle quali la Dc è stata maestra. Il Pci ha perso più che altrove perché è stato incapace di sottrarsi al circolo vizioso ribellismo-subordinazione che tipicizza la relazione tra individui e Stato nel Mezzogiorno. Quest'area del Paese i cui drammi

sono più sociali che economici ha assunto tratti paradossali da «socialismo reale»: economia statalizzata o dipendente dallo Stato, bassa produttività del lavoro e degli investimenti, predo- ~_lJ. Bl.\'.\(:O lXII.HOSSO •b•#hiii minio delle burocrazie di partito, asfissia culturale. La R&S assolverà al meglio il suo compito se saprà, insieme alle forze sane presenti nel Sud anzitutto i giovani, attivare elementi di autonomia sociale e civile che contrastino la dipendenza. Solo per questa via è sperabile che anche il Mezzogiorno d'Italia conosca il suo «indimenticabile '89». Le due Italie: il Mezzogiorno oggi G ià un secolo fa Giustino Fortunato parlava di «due ltalie». Allora il riferimento era ad una realtà economica e sociale caratterizzata, sia al Nord che al Sud, dalla netta prevalenza dell'agricoltura. I profondi mutamenti strutturali intervenuti successivamente hanno avuto tempi, intensità e caratteri diversi nelle due parti del Paese. Il Nord, favorito - come avrebbe detto Fortunato - «dalla geografia e dalla storia», ha cominciato a industrializzarsi già alla fine del secolo scorso con il sostegno della protezione doganale, delle commesse militari e ferroviarie, e infine dei salvataggi a spese del contribuente. Il Mezzogiorno - salvo alcuni episodi, limitati anche se rilevanti, come quello interessante l'area napoletana - ha cominciato a farlo solo negli anni '60 di questo secolo, in una situazione di persistente arretratezza ambientale, che l'intervento della Cassa per il Mezzogiorno nel campo delle infrastrutture aveva appena cominciato ad affrontare dieci anni prima. L'industrializzazione del Mezzogiorno è un obiettivo che si è dovuto perseguire, a differenza di quella del Nord, in un regime di libertà degli scambi. Alla protezione doganale di cui aveva goduto il Nord per oltre sessant'anni si sono dovuti sostituire di Salvatore Cafiero gli incentivi finanziari e fiscali, di questi però fruiscono in diversa misura anche la generalità delle regioni italiane ed europee. Nel frattempo il progresso tecnico e lo sviluppo dei rapporti internazionali hanno enormemente accresciuto l'entità dei capitali e del know how necessari per creare e gestire industrie competitive: e in una regione in ritardo, è certamente minore la disponibilità dei capitali, delle competenze, dei servizi a questo fine richiesti. Insomma, l'industrializzazione del Mezzogiorno si è certamente rivelata un'impresa più complessa e difficile di quanto sia stata l'industrializzazione del Nord cent'anni fa. A queste obiettive difficoltà si sono aggiunte, soprattutto negli ultimi dieci o quindici anni, quelle di natura politica, relative alla crescente instabilità degli indirizzi e degli ordinamenti e alla crescente farraginosità delle procedure di programmazione e di attuazione dell'azione pubblica di sviluppo. Ad essa è venuto sostituendosi un insieme di interventi di emergenza, divenuti sempre più frequenti a partire dal terremoto del 1980; di essi, per la loro stessa natura, è più difficile il controllo di efficacia e di efficienza. La questione meridionale è ancor oggi, come ai tempi di Fortunato, un problema di sovrappopolazione relativa, di eccedenza cioè dell'offerta di lavoro sulle opportunità di occupazione a livelli di produttività non troppo difformi da quelli in atto nel resto del Paese. Ma fino al secondo dopoguerra la sovrappopolazione meridionale riguardava essenzialmente l'agricoltura e le campagne: si ricorda che l'avvio della politica meridionalistica nel 1950 fu preceduta e accompagnata da grandi agitazioni contadine. Oggi, invece, le manifestazioni del malessere meridionale che più turbano la coscienza civile del Paese sono in gran parte riconducibili alle dimensioni crescenti della sua sovrappopolazione urbana. Il confronto fra le due situazioni esprime sinteticamente la profondità del mutamento intervenuto in quarant'anni nei termini della questione. La disoccupazione strutturale di massa, concentrata nelle città, va considerata essenzialmente come effetto del mancato o insufficiente sviluppo industriale. «Se il Mezzogiorno ha da tempo cessato di essere una società contadina - così si legge nel rapporto Svimez 1989 - è però ancora lontano dall'essere una società industriale. Dalla società industriale ha mutato i modelli di consumo e i valori sociali della mobilità e del successo, ma non la

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