~JJ, BIA!\CO l.Xll,H.OSSO Ui•iil•Q Leghe: s'ode a destra uno squillo di tromba di Gian Primo Cella A gli inizi del maggio 1990 abbiamo assistito ad uno dei più grossi scossoni nella troppo spesso monotona storia elettorale della repubblica. Mi riferisco non tanto alla preventivata perdita di voti del partito comunista. In effetti, pur essendo anch'essa uno dei mutamenti più di rilievo delle nostre quarantennali vicende elettorali, avrebbe potuto essere ancor più pronunciata. Mi riferisco piuttosto alla clamorosa affermazione di un nuovo soggetto politico, connesso alla formazione di una nuova identità collettiva: il localismo delle «leghe». Il fenomeno merita una riflessione attenta. Quando un nuovo soggetto, scarsamente legato alla tradizione elettorale dei decenni precedenti, conquista in città a grande sviluppo economico e industriale come Bergamo o Brescia il 25% dei voti, in assenza di clamorosi e espliciti fattori di cambiamento, la sorpresa può essere grande, ma non dovrebbe offuscare il tentativo di capire. Per capire occorre ascoltare le opinioni (e non semplicemente stigmatizzare, esprimere indignazione, ecc.), valutare le motivazioni, riflettere sui dati, ecc.. Ma per capire, e spiegare, è anche necessaria una ipotesi che serva come punto di partenza, e come strumento di selezione fra le diverse argomentazioni possibili. L'ipotesi che avanzo è molto secca e semplice: il voto delle leghe è un voto di destra, l'opinione politica che in esso si convoglia è una opinione politica di destra. Vediamo di rendere plausibile questa ipotesi. Ad un'altra occasione il compito di tentare di dimostrarla. In ogni società industriale avanzata esiste, a livello più o meno potenziale, una opinione politica di destra che si configura soprattutto attraverso obiettivi particolaristici e individualistici. Quasi sempre esprime una protesta anti-tasse, anti-welfare, anti-pubblico. Il mito della iniziativa privata, del fai-da-te, della non delega al pubblico, si esprime, ad esempio, attraverso una avversione spiccata verso ogni politica di trasferimenti. In questo senso, e solo in questo senso, assume atteggiamenti localistici e non centralistici. Non assume necessariamente posizioni anti-statuali, piuttosto anti-statalisti. Anzi lo stato (minimo) può rinfocare anche sentimenti patriottici (si veda il Regno Unito della Signora di ferro e gli Stati Uniti del presidente Reagan). Questa opinione di destra è andata salendo con le incertezze dello sviluppo a partire dalla metà degli anni 70 e con le crescenti difficoltà del welfare, ovvero con l'aumento del prelievo fiscale e con la contemporanea caduta di qualità (e di quantità) delle prestazioni. Si è manifestata in vari modi e attraverso canali differenti, ma è una realtà politica delle società avanzate. Come un altro tipo di destra lo è stato delle società di transizione fra agricoltura e industria (pensiamo all'Italia fascista, ma anche al Mezzogiorno negli anni '50). Questa con cui abbiamo a che fare, se è una destra di nuovo tipo, condivide tuttavia non pochi aspetti con la destra tradizionale: la «personificazione» (in persone, gruppi, etnie, ecc.) di molti problemi politici; la preferenza della «tecnica alla politica»; la cultura piccolo-borghese (non necessariamente dominante); l'abbondanza di dissonanze cognitive. Tutto qua, qualcosa in fondo di meno sorprendente di quanto alcuni ritengono. Perché l'Italia deve essere l'unico sistema politico senza l'espressione esplicita di un voto di destra? Non possiamo ritenere che l'opinione di destra sia stata limitata per decenni al Msi, sul quale fra l'altro grava un inguaribile carattere «retrò», e che di recente con una nuova maggioranza interna ha espresso addirittura velleità di sinistra. Nel sistema politico nessun altra forza ha osato esprimere esplicitamente posizioni di destra. Si potrebbe aggiungere che semmai una particolarità italiana è stata la
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