Il Bianco & il Rosso - anno I - n. 5/6 - giu./lug. 1990

ic).!J, BIANCO l.Xll,HOSSO 11111 0111 Lavoratorie partecipazionefinanziaria N on è più tempo di pregiudiziali sulla "partecipazione finanziaria" dei lavoratori. Scontri e furori sono superati dai dati di fatto. Attualmente esistono varie forme di accesso dei lavoratori al capitale d'impresa. Anche se gli slogan sul "capitalismo popolare" sono lontani dal realizzarsi, sono molti i lavoratori, anche di livello esecutivo, che sono divenuti negli ultimi anni azionisti delle loro imprese. In diversi paesi (soprattutto Usa e Gran Bretagna) questo tipo di compartecipazione è abbastanza diffuso. Ma anche in Italia si registrano fenomeni nuovi che si aggiungono all'acquisto di azioni riservate: contratti aziendali istitutivi di fondi di previdenza integrativa, esperienze di salario variabile che legano i lavoratori alla valorizzazione del capitale delle singole aziende. Questo insieme di segnali è robusto, anche se non configura un disegno di economia della partecipazione alla Weitzman, e ancor meno imprese fondate sulla partnership capitale-lavoro alla Meade. Vi sono alcuni tratti comuni a queste esperienze - probabilmente generalizzabili al di là dell'Italia - che possono essere rilevati: - Sono forme di accesso dei lavoratori a livello individua/e o aziendale e in esseprevale finora la logica della ricerca di benefici per sé o per gruppi ristretti. - Sono all'ingrosso iniziative che provengono in primo luogo dal management, con le organizzazioni sindacali sulla difensiva o senza capacità propositiva, e spesso configurano rapporti non mediati che si instaurano direttadi Mimmo Carrieri mente tra imprese e singoli lavoratori; - non danno luogo a partecipazione decisionale, perché non incrementano il potere di disposizione sul capitale d'impresa né dei lavoratori come singoli - che sono dispersi - né come soggetto collettivo, del quale mancano le condizioni-base. In questo senso aveva ragione l'economista Nuti quando definiva il modello Weitman di partecipazione agli utili come "partecipazione senza codeterminazione". Se questo ritratto sintetico ha degli elementi di verosimiglianza il problema che si presenta al sindacato - e ad altri attori collettivi della sinistra - è quello di elaborare una propria strategia di partecipazione finanziaria, che può essere aggiuntiva o parzialmente sostitutiva rispetto al quadro attuale. Una strategia che connetta la partecipazione al rischio d'impresa da parte dei lavoratori - che è in vario modo cresciuta - con un maggior coinvolgimento nelle decisioni d'impresa o di fondi di natura collettiva da parte di soggetti rappresentativi dei lavoratori dipendenti. Senza voler richiamare l'esperienza sicuramente paradigmatica del movimento sindacale svedese, si avverte l'esigenza di un progetto di democrazia economica. Se ne discute ormai con una riattualizzazione della questione, fino a poco tempo fa impensabile, nei programmi delle principali forze di sinistra in Europa. Anche in Italia l'espressione democrazia economica è entrata nel lessico, sia pure timidamente e con una sostanziale vaghezza d'intenti. Ci sono comunque organizzazioni sindacali che si muovono per rafforzare lo spazio di fondi = 45 collettivi (per esempio a fini di integrazione previdenziale o sanitaria) non aziendali, e per favorire l'iniziativa del sindacato. Sono primi tentativi che si muovono nella direzione giusta per non lasciare questo campo alla casualità o all'attivismo manageriale. Anche se bisogna rilevare che la logica finora prevalente è quella di configurare interventi di supplenza per un welfare zoppicante, ma anche nella sostanza viene lasciato ai suoi meccanismi tradizionali (con gravi colpe del sindacalismo dei servizi). Mentre in altri paesi - in primis in Svezia - i fondi collettivi costituiscono il rafforzamento di un welfare già forte e che si vuole alimentare non più per vie solo statalistiche o con le esclusive risorse pubbliche. E comunque sia, la democrazia economica non è concepita solo come un'ulteriore occasione di redistribuzione economica, ma anche come una leva per redistribuire il potere economico. In questo senso si possono ricordare alcuni dei fattori identificanti di un progetto di democrazia economica, capace di dare alla partecipazione finanziaria spessore e ambizioni sostanziali: - le forme di proprietà dovrebbero essere collettive e non individuali; - la loro gestione sociale e non statale; - il livello dell'intervento sovraziendale (settoriale, regionale, nazionale); - gli obiettivi dovrebbero essere universalistici, o tendenzialmente universalistici (e larga anche la base sociale dei soggetti coinvolti come partecipanti-fruitori);

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