zialmente, di prendere atto di due dati (che ricordava, con chiarezza l'onorevole Rino Formica in un suo articolo dello scorso anno): un processo di aumento della complessità del sistema economico (a livello sia macro che micro) e di maggiore articolazione sociale; la crisi dei principali meccanismi (prestazioni sociali; sistema tributario; modi di regolazione del salario monetario) del modello tradizionale di redistribuzione del reddito e della ricchezza. Ma quali sono, finora, i contenuti concreti di democrazia economica sperimentati nel nostro Paese? Si potrebbero citare, a titolo di esempio, i diritti di informazione sanciti nella contrattualistica settoriale ed interconfederale; i casi di verifica congiunta relativa all'impatto sull'occupazione di processi di ristrutturazione industriale; alcuni esperimenti di flessibilità salariale, con l'aggancio di quote di remunerazione a parametri di redditività dell'azienda; l'introduzione del metodo della Qualità Totale incominciato in alcune cooperative della Lega assai prima che alla Fiat. Ma è chiaro che una reale affermazione di qualsiasi ipotesi di democrazia economica passa per un nodo essenziale: lo sviluppo della partecipazione come affermazione di diritti prioritari dei lavoratori nelle imprese (con il logico corollario dell'esercizio di una funzione di controllo sulle scelte imprenditoriali). Ora, nel nostro Paese, l'impresa cooperativa rappresenta la più antica forma di impresa basata sulla partecipazione e sulla proprietà associata dei lavoratori; ma essa non può certo rappresentare l'unica forma nella quale si invera un compiuto processo di democratizzazione dell'economia. Esempi concreti in tal senso ci vengono, ad esempio, dagli Stati Uniti, dove la partecipazione dei lavoratori alla proprietà dell'impresa si è diffusa con la forma degli Esop, cioè di fondi che, con specifici incentivi fiscali, detengono, per conto dei lavoratori, quote azionarie di imprese. È significativa l'esperienza della legge 49/1985 (meglio nota come legge Marcora) che stabilisce incentivi per la trasformazione in cooperative di aziende private in crisi. Essa ha dato, in due anni di attività, risultati che, oltre ad essere positivi in termini di quantità (oltre tremila lavoratori {)!I. Bl.\:\CO lXII.HOSSO 11 t#hlii Perforazione dalla piattaforma hanno potuto salvaguardare la propria occupazione), hanno evidenziato una propensione diffusa al rischio di impresa che si è tradotta in un impegno finanziario medio pro capite dei soci delle cooperative costituitesi che si è attestato a più del doppio rispetto al limite minimo previsto dalla legge. È allora evidente, innanzitutto, che tale propensione all'assunzione del rischio imprenditoriale da parte dei lavoratori deve essere favorita mettendo chi vuole intraprendere nelle condizioni di accedere a capitali di rischio o al credito. E ciò implica, a livello generale, un'azione complessiva, nel nostro Paese, mirata a regolare efficacemente il mercato per favorire il passaggio da un dirigismo clientelare e corporativo, da un "capitalismo senza mercato", ad un mercato che, pur capitalistico, sia più moderno e più giusto. Si tratterebbe, in primo luogo, di cercare di mettere ordine nei mercati finanziari, ampliando l'asfittico listino di borsa e varando leggi che regolino l'adozione di strumenti nuovi (indicati, in taluni casi, dalle stesse direttive comunitarie) come i fondi chiusi, i mer- : 36 cati mobiliari secondari, la promozione di forme diverse di "venture capitai". Per quanto riguarda la cooperazione, la riforma della legislazione cooperativa, attualmente all'esame del Parlamento, prevede da una parte la figura del socio finanziatore, apportatore, cioè, di capitali di rischio; dall'altra, la proposta di costituire un Fondo mutualistico per la promozione e lo sviluppo di imprese cooperative, alimentato da una quota di utili delle cooperative aderenti, configurando una sorta di "venture capita!" specifico e collettivo dei cooperatori. Comunque, al di là della sollecitazione di un ruolo diverso dello stato nella regolazione dei meccanismi di mercato, i lavoratori possono anche esperire la via di un impiego dei mezzi economiche che possono autonomamente attivare finalizzato a diversificare le proprie fonti di reddito e ad accrescere la propria funzione collettiva nella società. È noto che l'entità del risparmio popolare in Italia è di tutto rilievo; ma una parte considerevole di esso si rivolge ai titoli del debito pubblico. La consapevolezza di ciò impone la necessità di esaminare quali strade si possano aprire per trasformare quote crescenti del risparmio popolare in capitali di rischio che consentano la nascita e lo sviluppo di nuove imprenditorialità, in particolare in forma associata, come condizione di pluralismo e di democrazia economica. Ma perché si verifichi un ingresso forte dei lavoratori, in veste di risparmiatori e di investitori, sul mercato finanziario, occorre, come ricordavo prima, predisporre nuovi strumenti di intervento del risparmio popolare nella formazione delle imprese e del capitale di rischio. In questa direzione si muovono le proposte (elaborate, ad esempio, dal ministro Rino Formica e dal professor Mario Nuti) per l'utilizzazione delle risorse accantonate dalle aziende come trattamento di fine rapporto (circa ventimila miliardi all'anno, oltre ad uno stock accumulato di altri centoquarantamila, configurabili come una sorta di capitale "prestato" dai lavoratori) per la istituzione di fondi di investimento in borsa di proprietà dei lavoratori. Vorrei concludere precisando che
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