i.}Jt BIANCO '-Xli.ROSSO 1i111 ki)Aiill rativi. Poiché su questi obiettivi, almeno stando a ciò che si legge, sembra che ci siano più convergenze che dissensi, non si vede cosa impedisca alla maggioranza di formulare una proposta compiuta e leggibile dal punto di vista della razionalità istituzionale e dell'adeguatezza strumentale ed aprire, con i partiti di opposizione, una discussione stringente sulla definizione delle regole, sulla direzione del cambiamento e sulle sue priorità. Questo metodo assicurerebbe anche la necessaria circospezione ed una sobria misura. Una esorbitanza potrebbe, infatti, far temere una semplificante coercizione. Garantirebbe inoltre meglio dal pericolo di ipotesi di riforme istituzionali pensate in modo da lasciare indenni le cattive abitudini dei partiti e la qualità scadente del loro rapporto con le istituzioni. Tendenza inaccettabile perché rinuncerebbe ad affrontare un nodo decisivo del problema che riguarda la distanza tra la politica e la vita sociale. In effetti, se la gente è scontenta, solo un dominio assoluto ed illimitato potrebbe immaginare, invece di cambiare se stesso, di cambiare la gente. Al contrario la storia della democrazia si dispone dal lato modesto, e tuttavia rassicurante, della attitudine alla instancabile correzione, nel senso di una crescita di persuasione e di capacità rappresentativa. Insomma, le elezioni del 6 maggio hanno confermato ulteriormente il bisogno di riforme istituzionali, ma hanno anche, indiscutibilmente, detto che c'è un non meno rilevante bisogno di riforma della politica e dei partiti. C'è il problema di un loro miglioramento tecnico (cioè di capacità progettuale), ma c'è soprattutto un problema etico (cioè di moralità) che non si risolve con le pur necessarie riforme istituzionali. Credo che la cosa più urgente sia il ritiro massiccio della politica dalla gestione delle imprese, delle banche, della salute, dei mezzi di comunicazione, degli apparati amministrativi, ecc. Che non significa necessariamente privatizzare (secondo una discutibile moda corrente), ma esige semplicemente l'adozione del sacrosanto principio di separazione tra la funzione di indirizzo e di controllo e quella di gestione. In definitiva, perché l'impegno alle riforme istituzionali sia credibile occorre non separarlo dalla riforma dei partiti e dei loro comportamenti. Bisogna finalmente riconoscere che la necessaria competizione tra i partiti diventa rovinosa se si colloca al di là delle regole. Si deve riconoscere che serve più ricambio e più moralità nella vita politica. E compiere gli atti conseguenti. Questo significa, ad esempio, che i politici chiacchierati o, peggio ancora, inquisiti dalla giustizia, devono essere messi da parte. Potrà anche capitare che qualcuno sia accusato ingiustamente e che il tempo, o i tribunali, possano dimostrare l'infondatezza di ogni sospetto a suo carico. Tuttavia, anche in questo spiacevole caso, il politico coinvolto deve considerarsi più «sfortunato» che «perseguitato». Per chi fa politica il sospetto, l'accusa infondata, sono né più né meno, un rischio professionale. Ci sono, per altro, lavori meno motivanti e con minori gratificazioni, che comportano rischi e danni assai maggiori. In ogni caso è un pedaggio che si può e si deve pagare ad un bisogno di pulizia e di credibilità della politica che non può più essere aggirato con false promesse e con comportamenti elusivi. Che le cose stiano ormai molto in basso, credo che nessuno lo possa più dubitare. Neanche tra coloro che fino a ieri hanno preteso di esorcizzare tutte le ragioni di malcontento con la «ragione» della politica. Si ripete sempre più spesso, senza che però i fatti seguano alle parole, che non c'è tempo da perdere. Dopo le elezioni del 6 maggio, si deve prendere atto, che se la politica non si rinnova, è il tempo che rischia di perdere lei. Pastificio
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