Il Bianco & il Rosso - anno I - n. 5/6 - giu./lug. 1990

Annoi SOmmariO giugno/luglio 1990 23 DOSSIER: Democrazia economica e partecipazione. Idee, pro- Impresa, finanza e accomulazione, di o. Cantoni 3.9 poste e sperimentazioni 25 27 2.9 31 33 34 35 37 38 Per un sistema efficiente che salvi uguaglianza e solidarietà, di T. Treu Europa '93: I sindacati per un forte Parlamento europeo, di E. Mattina Per una partecipazione dei lavoratori a livello europeo, di A. Catasta Partecipazione: la proposta di una Spa europea, di G. Arrigo Un sindacato partecipativo: più proposte, più potere, di R. Terzi Partecipazione: oltre leparole i/atti, di S. Antoniazzi Democrazia economica nelle imprese e nella società: una proposta, di G. Cazzola La cooperazione apre nuove esperienze partecipative, di L. Turci Democrazia economica e cooperazione, di D. Mengozzi Per la «concertazione» di impresa, di G. Fan toni Per una ripresa della partecipazione dei lavoratori, 40 di P. Merli Brandini Risparmio e proprietà diffusa: una questione centra- 42 le, di M. Sacconi Democrazia economica e fondi previdenziali, di M. 43 Colombo Lavoratori e partecipazione finanziaria, di M. 45 Carrieri Capitalismo, partecipazione e relazioni industriali, 46 di S. Negrelli Strumenti nuovi per il mercato del lavoro, di A. Bel- 47 !occhio I privilegiati e i superflui, di S. Schintu 4.9 La democrazia economica in 10punti, Bibliografia, 50 di Biblo ALL'INTERNO: altri articoli di P. Camiti; R. Caviglioli; G.P. Cella; P. Gelmini; L. Borroni; C. Pignocco; S. Veronese; C. Sorbi; O. Del Turco; F. Dassetto; E. Melchionda; W. Goldkorn Dopo le elezioni del 6 maggio di Pierre Camiti I l risultato del voto del 6 maggio può essere riassunto nella formula: «due Italie, cento partiti». Le elezioni hanno infatti «rivelato» che l'Italia resta divisa in due. Anzi, per certi versi, lo è più di prima. Alle differenze economiche e sociali si somma ora una notevole diversità politica. Mentre nel Sud si chiede al governo, prevalentemente, protezione, nel Nord si chiede autonomia. Anche se da un punto di vista dei consumi il Mezzogiorno non

{)JJ,BIANCO '-.XltROS.SO 1i111 CuAii 1 è certo un avamposto del terzo mondo, il divario di reddito pro-capite e soprattutto dei livelli di occupazione con il Centro-Nord tende a crescere. Con esso cresce anche la dipendenza dalla politica. Nelle aree più ricche dell'Italia settentrionale ha invece incominciato a soffiare impetuoso il vento della protesta contro i partiti ed il sistema di potere che essi hanno creato. Si chiede perciò più autonomia dal potere politico centrale. Il disamore, il fastidio per la politica e per i partiti non è una invenzione delle leghe. È una cosa che c'è, e che nasce da una percezione delle difficoltà che paralizza il sistema politico e da una scetticismo non del tutto immotivato sulla sincerità delle intenzioni e delle parole elargite dalla politica. D'altra parte che i servizi sociali forniti dalla pubblica amministrazione ai cittadini - poste, scuole, trasporti, assistenza sanitaria ecc. - siano di pessima qualità, è cosa che tutti sanno e che, quasi tutti, vivono sulla propria pelle. L'inefficienza dello Stato cresce di giorno in giorno e questo sui comportamenti elettorali della gente pesa certamente di più degli sproloqui del senatore Bossi sui «pericoli per la integrità» dei «lumbard». Inefficienza che è correlata allo stato di semiparalisi in cui versa il nostro sistema politico e che la crescente frantumazione politica, e la dispersione in cento partiti, aggrava. Quello che, dunque, sembra in gioco, il passaggio stretto da attraversa~e perché i gesti della politica tornino ad avere senso e persuasività, consiste nel riconoscere lo scacco complessivo del sistema dei partiti, di «questi» partiti, del loro modo di essere, della loro qualità. Non voglio con questo stemperare le responsabilità diverse di ciascun partito. Se perciò la Democrazia Cristiana ha certamente il diritto di ricordare che con la sua guida la democrazia italiana ha avuto durata, ha anche il dovere di riconoscere che la sua decadenza la riguarda da vicino. Mentre, a sua volta, il Partito Comunista si trova oggi nella scomodità di dover riconoscere che la propria storica diversità non era altro che un modo di essere sbagliati. Questo spiega perché «la traversata del Mar Rosso» che Occhetto ha iniziato è probabilmente più faticosa e sicuramente più dolorosa del previsto. Non si tratta quindi di negare la specificità delle crisi delle diverse forze politiche democratiche, ma di riconoscerle piuttosto dentro una dimensione più generale. Se c'è oggi una indiscutibile degradazione ; 2 corporativa, se c'è un drammatico conflitto di tutti contro lo Stato, se l'esigenza di governo viene negata nel rifiuto di una autorità, questo accade anche per la debolezza delle istituzioni, per la loro crescente ossidazione. Ma se le istituzioni sono in crisi di efficienza, di imparzialità, di autorevolezza è perché i partiti le hanno messe in ginocchio. Quelli che le hanno occupate, dove le occupano, e quelli che le assediano, dove le assediano. Esercitare intorno alla constatazione del degrado istituzionale tranquille e giudiziose critiche non sembra davvero sufficiente. Né si può pensare che a questo punto basti chiedere scusa, promuovere qualche ritocco istituzionale in attesa che tutto ritorni come prima. Se si vuole arrestare il degrado, altrimenti mortale per la democrazia italiana, si deve assumere seriamente e nella sua globalità la questione istituzionale. Il che significa, innanzi tutto, che non può essere brandita, usando i referendum elettorale come una clava, o rimossa come se si trattasse di un inutile cavillo. D'altra parte credo che nessuno si sentirebbe di negare una grave crisi del sistema politico. Che però non basta riconoscere, bisogna anche affrontare. E questo, come sempre, può avvenire in due modi. Aspettando che «passi la nottata» (per dirla con Eduardo De Filippo) o riformando il sistema. Verso la prima ipotesi tende una antica tradizione della cultura politica nazionale, attendista, scettica, trasformista. La seconda ha dato, finora, luogo a proposte ancora assai differenziate e purtroppo generiche. Inoltre, da parte di coloro che chiedono di riformare il sistema vengono spesso, incomprensibilmente, se non per ragioni di competizione politica, presentati come contrapposti obiettivi di intervento che sono invece complementari. Penso alla riforma elettorale che, abbandonato il sistema proporzionale, consenta il ricambio politico, maggioranze alternative e quindi una maggiore trasparenza democratica. Penso, inoltre, alla riforma costituzionale che garantisca all'Esecutivo (presidente della Repubblica, o presidente del Consiglio) i poteri, la legittimazione, la capacità di iniziativa per governare. Penso, ancora, ad una riforma regionale che trasformi le regioni da enti di erogazione in governi dotati di autonomia e di responsabilità. Penso, infine, alla riforma della amministrazione dello Stato oggi paralizzata da regole anacronistiche, competenze frammentate e sovrapposte e da soprassalti corpo-

i.}Jt BIANCO '-Xli.ROSSO 1i111 ki)Aiill rativi. Poiché su questi obiettivi, almeno stando a ciò che si legge, sembra che ci siano più convergenze che dissensi, non si vede cosa impedisca alla maggioranza di formulare una proposta compiuta e leggibile dal punto di vista della razionalità istituzionale e dell'adeguatezza strumentale ed aprire, con i partiti di opposizione, una discussione stringente sulla definizione delle regole, sulla direzione del cambiamento e sulle sue priorità. Questo metodo assicurerebbe anche la necessaria circospezione ed una sobria misura. Una esorbitanza potrebbe, infatti, far temere una semplificante coercizione. Garantirebbe inoltre meglio dal pericolo di ipotesi di riforme istituzionali pensate in modo da lasciare indenni le cattive abitudini dei partiti e la qualità scadente del loro rapporto con le istituzioni. Tendenza inaccettabile perché rinuncerebbe ad affrontare un nodo decisivo del problema che riguarda la distanza tra la politica e la vita sociale. In effetti, se la gente è scontenta, solo un dominio assoluto ed illimitato potrebbe immaginare, invece di cambiare se stesso, di cambiare la gente. Al contrario la storia della democrazia si dispone dal lato modesto, e tuttavia rassicurante, della attitudine alla instancabile correzione, nel senso di una crescita di persuasione e di capacità rappresentativa. Insomma, le elezioni del 6 maggio hanno confermato ulteriormente il bisogno di riforme istituzionali, ma hanno anche, indiscutibilmente, detto che c'è un non meno rilevante bisogno di riforma della politica e dei partiti. C'è il problema di un loro miglioramento tecnico (cioè di capacità progettuale), ma c'è soprattutto un problema etico (cioè di moralità) che non si risolve con le pur necessarie riforme istituzionali. Credo che la cosa più urgente sia il ritiro massiccio della politica dalla gestione delle imprese, delle banche, della salute, dei mezzi di comunicazione, degli apparati amministrativi, ecc. Che non significa necessariamente privatizzare (secondo una discutibile moda corrente), ma esige semplicemente l'adozione del sacrosanto principio di separazione tra la funzione di indirizzo e di controllo e quella di gestione. In definitiva, perché l'impegno alle riforme istituzionali sia credibile occorre non separarlo dalla riforma dei partiti e dei loro comportamenti. Bisogna finalmente riconoscere che la necessaria competizione tra i partiti diventa rovinosa se si colloca al di là delle regole. Si deve riconoscere che serve più ricambio e più moralità nella vita politica. E compiere gli atti conseguenti. Questo significa, ad esempio, che i politici chiacchierati o, peggio ancora, inquisiti dalla giustizia, devono essere messi da parte. Potrà anche capitare che qualcuno sia accusato ingiustamente e che il tempo, o i tribunali, possano dimostrare l'infondatezza di ogni sospetto a suo carico. Tuttavia, anche in questo spiacevole caso, il politico coinvolto deve considerarsi più «sfortunato» che «perseguitato». Per chi fa politica il sospetto, l'accusa infondata, sono né più né meno, un rischio professionale. Ci sono, per altro, lavori meno motivanti e con minori gratificazioni, che comportano rischi e danni assai maggiori. In ogni caso è un pedaggio che si può e si deve pagare ad un bisogno di pulizia e di credibilità della politica che non può più essere aggirato con false promesse e con comportamenti elusivi. Che le cose stiano ormai molto in basso, credo che nessuno lo possa più dubitare. Neanche tra coloro che fino a ieri hanno preteso di esorcizzare tutte le ragioni di malcontento con la «ragione» della politica. Si ripete sempre più spesso, senza che però i fatti seguano alle parole, che non c'è tempo da perdere. Dopo le elezioni del 6 maggio, si deve prendere atto, che se la politica non si rinnova, è il tempo che rischia di perdere lei. Pastificio

{)jJ, RIAl\1(:0 '-Xli.ROSSO iii•iii•U In partibusinfidelium: i <<cattolicdi emocratici» nel dubbio di Rino Caviglioli << In partibus infidelium», nei territori degli infedeli, senza speranza di salvezza: lo ha detto di noi un vecchio amico, Ermanno Gorrieri, introducendo i lavori di un convegno di cattolici democratici, a Roma, il 2 giugno: «Camiti e molti suoi amici l'hanno risolto (il problema dello "sbocco politico" n.d.r.) entrando nell'area socialista e proponendosi di sensibilizzarla ai valori della solidarietà e dell'uguaglianza. Essi hanno così scelto di operare "in partibus infidelium", perché non è questa la cultura che si è sviluppata nel nuovo Psi di Craxi». Il giudizio, per la verità, sembra definitivo, mentre non lo sono i ragionamenti che sviluppa Gorrieri e che cerco di sintetizzare con le sue parole. «È ancora necessaria una cultura e una presenza politica cattolica-democratica (' 'popolare, laica, aconfessionale, coraggiosamente progressista", come scrive padre Sorge) ... Più che di significative testimonianze, si sente oggi il bisogno di una presenza e di un impegno comune - e possibilmente in qualche modo organizzato - dell'intera area cattolico democratica o quanto meno di una parte cospicua di essa ... «Rispetto alle esigenze di cambiamento la situazione dei partiti è preoccupante. Quelli così detti "minori" lottano per la sopravvivenza. Il Psi privilegia le mosse tattiche finalizzate all'obiettivo di logorare la Dc e il Pci. I movimenti monotematici, mentre portano alla ribalta problemi importanti, rendono difficile la ragionevole composizione di esigenze diverse. Sulla progressiva inadeguatezza della Dc a gestire una fase di trasformazione non occorre diffondersi. .. le speranze di rinnovamento della Dc sono ridotte al lumicino». Per quanto riguarda il Pci « ... il comprensibile assillo di non perdere voti lo induce a rivolgersi a tutte le parti, a cavalcare tutte le proteste, a sposare tutte le cause (fuorché quella della classe operaia)». In definitiva, magari «con un po' di eccessivo pessimismo - riconosce Gorrieri - non si vede in quale dei partiti esistenti si possa trovare soddisfacente accasamento. In questa situazione, come può operare una forza cattolicodemocratica? ». Gorrieri invita ad indagare tra le forme nuove di associazionismo (come il Movimento federativo democratico), la Cisl, le Acli, le esperienze fuori dalla Dc (liste «Città per l'uomo» e simili). Ma è nella sinistra DC, aggiunge, che <<•.• si trova il più consistente serbatoio sia di voti che di esperienza e capacità operativa nella politica attiva», anche se «una posizione di sinistra è fisiologicamente minoranza nel mondo cattolico e quindi nella Dc ... Ma un'uscita collettiva dalla Dc non è in vista». E non va né il Psi di Craxi, né la costituente post-comunista: in essa è forte «il mito di un nuovo comunismo, forti venature di libertarismo radicale e individualista emarginano la cultura della solidarietà, del tutto ambigua appare l'alternativa, è dubbio che riesca a sciogliersi in una nuova formazione politica un partito-apparato, fortemente strutturato». La sinistra Dc deve procedere con cautela, tuttavia: «un certo minor grado di impossibilità presenta l'uscita della Dc per dar vita a un nuovo partito. Ma non certo oggi... Occorre che il quadro politico sia bruscamente messo in movimento: ad esempio da un sistema elet-

. ., .M..;."!'! .:;"';•~. iii•iil•il torale che... ponga in essere un sistema bipolare basato sull'alternanza di schieramenti fra i quali si sia costretti a scegliere». Di qui l'importanza - aggiungerà subito dopo Pietro Scoppola - del referendum sulle questioni istituzionali. E conclude Gorrieri: «Senza la sinistra Dc, almeno di una parte cospicua di essa, le forze disponibili non sono quantitativamente sufficienti per compiere una operazione di cambiamento degli schieramenti politici». La lunghissima citazione consente di vedere come Gorrieri abbia, ancora una volta, smosso temi sui quali si misurano sensibilità comuni. Nel fare questo utilizza e ricolloca nella nuova ottica esperienze e percorsi in altri tempi condivisi. Torneremo a ragionare con lui: sia consentita ora qualche prima riflessione. Intanto: chi sono i «cattolici democratici»? Come forza sociale, momento collettivo e perfino organizzato, si presentarono come tali sulla ribalta sociale in occasione del referendum sul divorzio, laddove sostennero le ragioni del no in nome di un principio di rispetto della libertà altrui. Fu, a me pare, l'unica occasione: perché, oggi come ieri, si tratta di persone, di piccoli gruppi che - pur avendo un'idea tutta laica della politica - ritengono che la fede possa produrre comunità di idee e di opere, sono affini nel modo di sentire e vivere l'impegno politico, restano affascinati dall'utopia e dall'intransigenza, donde la prevalente dimensione etica del loro fare politico. Se così è, non ha molto senso parlare di Cisl, di Acli, di sinistra Dc: i grandi movimenti organizzati possono consentire e favorire, con la loro cultura, la presenza di persone e gruppi di cattolici democratici, ma non altro. Oggi sono molti i cattolici democratici "accasati", per usare il linguaggio di Gorrieri. Ciascuno di essi probabilmente vive il disagio conseguente alla propria scelta come un prezzo inevitabile per non scivolare nell'idealismo e nella solitudine, per misurarsi con il reale, per fare politica insomma. Queste scelte, frutto di itinerari personali e collettivi non facili, vanno rispettate, tutte. D'altra parte di voci allegre ce n'erano poche, a quel convegno di cattolici democratici: e infine non sta scritto che è più facile convertire l'infedele - cioè colui che non conosce la fede - piuttosto che... ? Qualunque iniziativa che voglia essere di tutti coloro che "si sentono cattolici democratici" deve dunque apprezzare la non scelta co- = 5 Fabbro me la diversa dislocazione nei partiti. E una qualche forma stabile di riflessione comune, di proposta, di coordinamento è fortemente auspicabile. Sono anch'io convinto che i cattolicidemocratici sono, più che utili, necessari, per gli apporti di qualità e di quantità che sono in grado di esprimere, a qualunque progetto di alternanza-alternativa. Un'ultima annotazione. I cattolici democratici-democristiani potrebbero, a condizioni date, uscire dalla Dc? Qualche generazione di militanti s'è consumata, nella Lega ed altrove, per discutere e inverare questa speranza. Oggi quaranta anni di turbolenta vita sociale rispondono no e la Dc si riscopre tesa nel suo dibattito interno (che non può essere confuso con l'ambito culturale dei cattolici democratici) ma salda sulle ragioni della ditta e del suo esteso mercato. Che poi un'ipotesi di rottura possa prendere corpo con una riforma elettorale che spinga verso l'alternativa appare davvero incredibile: o De Mita è dei nostri?

~JJ, BIA!\CO l.Xll,H.OSSO Ui•iil•Q Leghe: s'ode a destra uno squillo di tromba di Gian Primo Cella A gli inizi del maggio 1990 abbiamo assistito ad uno dei più grossi scossoni nella troppo spesso monotona storia elettorale della repubblica. Mi riferisco non tanto alla preventivata perdita di voti del partito comunista. In effetti, pur essendo anch'essa uno dei mutamenti più di rilievo delle nostre quarantennali vicende elettorali, avrebbe potuto essere ancor più pronunciata. Mi riferisco piuttosto alla clamorosa affermazione di un nuovo soggetto politico, connesso alla formazione di una nuova identità collettiva: il localismo delle «leghe». Il fenomeno merita una riflessione attenta. Quando un nuovo soggetto, scarsamente legato alla tradizione elettorale dei decenni precedenti, conquista in città a grande sviluppo economico e industriale come Bergamo o Brescia il 25% dei voti, in assenza di clamorosi e espliciti fattori di cambiamento, la sorpresa può essere grande, ma non dovrebbe offuscare il tentativo di capire. Per capire occorre ascoltare le opinioni (e non semplicemente stigmatizzare, esprimere indignazione, ecc.), valutare le motivazioni, riflettere sui dati, ecc.. Ma per capire, e spiegare, è anche necessaria una ipotesi che serva come punto di partenza, e come strumento di selezione fra le diverse argomentazioni possibili. L'ipotesi che avanzo è molto secca e semplice: il voto delle leghe è un voto di destra, l'opinione politica che in esso si convoglia è una opinione politica di destra. Vediamo di rendere plausibile questa ipotesi. Ad un'altra occasione il compito di tentare di dimostrarla. In ogni società industriale avanzata esiste, a livello più o meno potenziale, una opinione politica di destra che si configura soprattutto attraverso obiettivi particolaristici e individualistici. Quasi sempre esprime una protesta anti-tasse, anti-welfare, anti-pubblico. Il mito della iniziativa privata, del fai-da-te, della non delega al pubblico, si esprime, ad esempio, attraverso una avversione spiccata verso ogni politica di trasferimenti. In questo senso, e solo in questo senso, assume atteggiamenti localistici e non centralistici. Non assume necessariamente posizioni anti-statuali, piuttosto anti-statalisti. Anzi lo stato (minimo) può rinfocare anche sentimenti patriottici (si veda il Regno Unito della Signora di ferro e gli Stati Uniti del presidente Reagan). Questa opinione di destra è andata salendo con le incertezze dello sviluppo a partire dalla metà degli anni 70 e con le crescenti difficoltà del welfare, ovvero con l'aumento del prelievo fiscale e con la contemporanea caduta di qualità (e di quantità) delle prestazioni. Si è manifestata in vari modi e attraverso canali differenti, ma è una realtà politica delle società avanzate. Come un altro tipo di destra lo è stato delle società di transizione fra agricoltura e industria (pensiamo all'Italia fascista, ma anche al Mezzogiorno negli anni '50). Questa con cui abbiamo a che fare, se è una destra di nuovo tipo, condivide tuttavia non pochi aspetti con la destra tradizionale: la «personificazione» (in persone, gruppi, etnie, ecc.) di molti problemi politici; la preferenza della «tecnica alla politica»; la cultura piccolo-borghese (non necessariamente dominante); l'abbondanza di dissonanze cognitive. Tutto qua, qualcosa in fondo di meno sorprendente di quanto alcuni ritengono. Perché l'Italia deve essere l'unico sistema politico senza l'espressione esplicita di un voto di destra? Non possiamo ritenere che l'opinione di destra sia stata limitata per decenni al Msi, sul quale fra l'altro grava un inguaribile carattere «retrò», e che di recente con una nuova maggioranza interna ha espresso addirittura velleità di sinistra. Nel sistema politico nessun altra forza ha osato esprimere esplicitamente posizioni di destra. Si potrebbe aggiungere che semmai una particolarità italiana è stata la

i.)JJ, BIANCO ~11,llOSSO iii•ii••P forte caratterizzazione «localista» ed addirittura anti-nazionale, quasi all'insegna del motto sud-tirolese «los von Rom». Ma anche questa è una caratterizzazione non inattesa, essendo così fragile l'identità nazionale italiana, ed il connesso «senso dello Stato». Solo il fascismo aveva potuto pensare altrimenti. L'opinione di destra, di una nuova destra, è solo stata in questi decenni congelata entro gli equilibri partitici dominanti. La presenza di fattori permissivi (lo sfaldamento dell'equilibrio Dc-Pci) e di qualche fattore scatenante (l'aumento di un benessere economico non sostenuto da mete o valori collettivi, la diminuita possibilità di evasione fiscale per alcuni strati, l'emergere di problemi di una società multirazziale, il clamore derivante da una avanzata che sembra inarrestabile della delinquenza organizzata di origine meridionale, ecc.) hanno condotto alla espressione esplicita di questo voto. Il fattore permissivo va considerato in tutto il suo rilievo. Quello del maggio 1990 è stato forse il primo voto della storia repubblicana espresso senza la costrizione di un grande messaggio ideologico di tipo totalizzante (il messaggio comunista), e senza la paura di questa costrizione e di questo messaggio. Paradossalmente, la Dc ha finito il suo grande compito (e merito) storico, quello di aver salvato l'Italia non dalla sinistra (passato il 48, i pericoli cessarono su questo fronte), ma dalla destra. Un compito condotto congelando al suo interno, e spendendolo nel sistema politico su obiettivi democratici, un voto di destra, ma estremamente timoroso di indebolire la maggiore forza anti-comunista. E un compito condotto non senza fatica e non senza gravi contraccolpi elettorali. Come negli anni '50 quando la Dc subì gravi perdite elettorali sulla destra nel Mezzogiorno, in conseguenza di un timido ma significativo tentativo di riforma agraria. Ed anche nel primo centro-sinistra, quando nel 1963 perse voti nelle aree del Nord a favore di un partito liberale, portavoce improvviso di interessi piccolo-borghesi, agitati dal timore di una ventilata riforma urbanistica. Mi colpisce soprattutto il raffronto con gli anni '50, allora la Dc perse nel Mezzogiorno, proprio l'opposto di oggi. Anche da questo si v.ede il cambiamento profondo della società italiana. I fattori scatenanti hanno riacceso una sensibilità diffusa, e più che giustificata, per problemi di modernizzazione del nostro sistema Agliaro in Campo de' Fiori, Roma 1890 politico e amministrativo che non sembrano intravedere soluzioni: in primo luogo l'inefficienza dei servizi, in secondo la perdurante pratica di occupazione della società civile da parte dei partiti politici, in terzo un eccessivo centralismo burocratico romano. Ma questi problemi non sono cosa nuova, tutt'altro. E poi in Lombardia la loro rilevanza è certo min_greche in altre aree del paese. Né si è potuto rilevare un loro sensibile aggravarsi. E allora perché questo voto e con questi motivi si è espresso oggi, e con queste dimensioni? È questo che andrebbe in primo luogo spiegato. Da questo punto di vista ritengo che siano più importanti i fattori permissivi e quelli scatenanti, rispetto a quelli profondi, legati ai grandi problemi di modernizzazione (difficilmente affrontabili del resto con la cultura espressa nel fragoroso giuramento di Pontida, due settimane dopo le elezioni). Si è detto che capire è importante, senza demonizzare. In fondo si tratta di un voto espresso pacificamente, all'interno del sistema politico. È vero, meglio i voti delle rivolte anti-tasse. Si è detto anche che una buona parte delle accuse lanciate contro questi sistemi dal nuovo soggetto, dai nuovi eletti, dai nuovi elettori colpiscono bersagli ben giustificati (i problemi di cui sopra). Anche questo è vero, ma non è nuovo. Nell'opinione politica di destra si sono spesso ritrovati gli attacchi più efficaci e graffianti alle degenerazioni della democrazia parlamentare (o «borghese»). Ma : 7 - - --

.L)JJ. BIANCO '-Xli.BOSSO Ul•ii••il sempre di una opinione di destra si trattava, pronta a rivolgersi su strade e obiettivi che portavano ben lontani (se non contro) gli assetti liberal-democratici. Si è detto anche: attenzione, una certa parte del voto alle «leghe» è un voto di sinistra, od almeno proveniente da sinistra, persino dal partito comunista. Anche questo probabilmente è vero, anche se è arduo stabilirne la portata. Ma anche questo non è nuovo, e non vorrei ricordare (perché sarebbero fuori luogo) clamorosi esempi nella storia europea di questo secolo. Ho avanzato una tesi per cercare di capire, ho espresso una ipotesi e ricordato dei fattori da approfondire. Francamente non so se augurarmi la smentita, parziale o totale di questa tesi. Una cosa è certa, il sistema elettorale italiano è entrato in una nuova fase. Ne vedremo delle belle. Antidroga: oltre la legge solidarietà sociale di don Pierino Gelmini ' E dal '63 che ho incominciato ad ospitare in casa mia giovani emarginati, e dall'inizio degli anni '70 che ho attuato le prime esperienze di convivenza comunitaria. Ed è dalla fine dello stesso decennio che il progetto «Comunità Incontro» ha preso il via ed ha incominciato il suo cammino di espansione, fino all'attuale centinaio di sedi residenziali in Italia. Nonché ad altre presente all'estero (Thailandia, Spagna, Bolivia, Canada, Libano, Siria, Israele), a livello più o meno consolidato e secondo modalità diversificate, ma sempre ed innanzitutto con l'accoglienza nel nostro programma comunitario di persone provenienti da quei paesi. Ora, fin dall'inizio, quando ancora non circolava nel nostro Paese tutta la droga a cui e nel mondo in cui purtroppo ci siamo - un po' tutti e un po' troppo - come assuefatti, mi sono trovato sempre ad avere a che fare con situazioni di dipendenza: dipendenza da condizioni personali e/o sindacali di vita, dipendenza da schemi e contesti, e quasi sempre anche e soprattutto dipendenza da specifiche sostanze, come dimensione concausale, concomitante o conseguente. Per questo motivo, benché tutto lo sforzo profuso (da parte mia, dei giovani che mi hanno affiancato e dei collaboratori che si sono venuti ad aggiungere in seguito) sia orientato, fin dai primi tempi, ad una attenzione alla persona umana, all'ascolto dei suoi problemi, al rispetto della sua «misteriosa» unicità, sempre ci siamo trovati a doverci scontrare innanzitutto con delle situazioni di dipendenza che spesso portano con sé le parvenze dell'irreversibilità. Anzi, nella mia attività di tutti questi anni mi sono trovato a dover fare continuamente i conti proprio con questa esperienza ambivalente: da una parte una persona umana che, dotata di capacità, di possibilità, di intelligenza, di sensibilità, soffre però di un disagio e della frustrazione di non riuscire a trovare in se stesso gli strumenti per uscirne, affiancata - per lo più - da un mondo familiare anch'esso incapace di risolvere una situazione di cui è co-portatore snervato da una serie di tentativi più o meno fallimentari; dall'altra, la stessa persona stretta in una condizione di impotenza coatta con una serratura a doppia mandata. Doppia perché dipendente da una serie di sostanze che si sono annidate nel suo organismo e che lo fagocitano, fisicamente e psichicamente, sia a causa del suo incolmabile bisogno di assumerla continuamente ed in dosi sempre più consistenti, sia a causa di un mercato che sul suo bisogno si arricchisce e nello

B i.)JI.BIANCO '-Xli, ROS..',O iii•iil•h stesso tempo lo coinvolge in circuito di distribuzione di cui è il primo ad averne necessità. Ma è stato proprio il conflitto tra queste due dimensioni, entrambe reali, da accogliere e da affrontare, che ha ispirato i principi di fondo della Comunità Incontro i quali hanno assunto così anche forza terapeutica nei confronti della tossicodipendenza, infatti, alla prima fase in cui, per il timore che in mia assenza i giovani residenti potessero combinare chissà quali cose, io fungevo da unico responsabile del1'andamento della vita quotidiana della comunità, non ho fatta succedere - anche per necessità pratiche - una seconda in cui la conduzione della casa e l'andamento dei rapporti quotidiani veniva affidato alla responsabilità degli stessi soggetti residenti. Questo metodo però ha potuto funzionare, ed ha cominciato a dare dei frutti significativi, per un motivo fondamentale, e cioè perché, tenendo conto (grazie alla mia pluriennale convivenza con soggetti disadattati, emarginati, esclusi dal normale circuito sociale e per di più finiti. Nello stato di dipendenza da droga, alcool, psicofarmaci, o comunque in comportamenti di coazione o evasione psichica, e alla quotidiana frequentazione con le loro famiglie ed ambienti d'origine) del duplice livello di condizione dei soggetti di cui ho detto sopra, avevo potuto offrire loro dei parametri di vita efficaci. E cioè delle condizioni abitative, delle regole da rispettare, dei principi di riferimento, delle strutture che agevolino e stimolino alla comunicazione, alla solidarietà, al dialogo, tali per cui le persone possano esprimere se stesse in una condizione di libertà e di serenità interiori che permettono al soggetto di modulare - attraverso una gestione collettiva - quella maturazione concreta che di tale libertà e serenità sia risultato coerente. Risultato quotidianamente verificabile, non soltanto soggettivamente ma anche e soprattutto attraverso un confronto con un contesto comunitario realmente presente. Proprio a questa formula penso si debba attribuire il fatto che la Comunità Incontro ha subito nel giro di pochi anni un'evoluzione, accelerata ma coerente, secondo due parametri fondamentali; quello dell'apertura e dell'accoglienza verso chiunque presenti un bisogno e faccia richiesta di aiuto; quello della diffusione su tutto il territorio nazionale, e in un secondo momento anche all'estero, attraverso una serie di sedi residenziali che permettano ad un numero non eccessivamente ridotto ma neppure troppo ampio di persone (mediamente 15-20 soggetti) di vivere insieme il proprio autorecupero alla maturità dell'io e alla capacità di costruire e mantenere relazioni sociali positive e propositive. Questo sviluppo in «progetto comunitario» di quanto, inizialmente era stato ed intendeva essere soltanto un mio personale gesto di accoglienza, e che sempre più ha preso le distanze dallo schematismo terapeutico per farsi «proposta di vita» globale è diventato dunque anche - e necessariamente - presenza e proposta sociale e, dunque, in qualche modo anche politica. Politica non certo nel senso di assunzione di un'ideologia, il che non rispetterebbe la libera ed autonoma espressione delle migliaia di soggetti che risiedendo nei diversi Centri della comunità non per questo ci riconoscono in una medesima linea di partito. Politica nel senso di capace di proporre una esperienza concreta, prolungata nel tempo, verificata in migliaia e migliaia di casi personali e di condizioni sociali diverse, con la consapevolezza di non portare avanti un assunto ideologico ma un'esigenza di base. Ed è soltanto in questo senso che anche ultimamente abbiamo potuto e dovuto fare azione politica prendendo parte alla formulazione e all'approvazione del recente dettato di legge sulla droga, nel quale non abbiamo voluto dire tutto su tutte le questioni e a tutti i costi, ma tenere ferma una posizione - del resto per noi già acquisita da anni - sulle modalità più indicate per un approccio coerente ed efficace da parte dello Stato con il mondo della tossicodipendenza. E lo ribadisco ancora una volta qui, quanto abbiamo chiesto allo Stato non è di indicarci le strade del «recupero», ma di offrirci gli strumenti di base che creino le premesse sociali, operative e culturali, necessarie per consolidare e diffondere quell'esperienza di prevenzione e di «recupero» dalla droga che come noi anche tanti altri stanno svolgendo da anni e che invece, in quanto tale, non compete direttamente all'istituzione ma alla collettività. Collettività che se ne deve fare carico, innanzitutto riconoscendo l'entità e la realtà profonda del problema (che non è di sostanze ma di valori, di stili di vita), e di conseguenza acquisendo il concetto che il lavoro delle comunità non è il frutto di una delega ma uno strumento attraverso cui si sperimentano nuovi stili di vita e si propongono modi diversi e più significativi di stare insieme. Riguardo a questo, dunque, quanto chiedia-

i.>Jt BIANCO l.XltllOS.SO Uliiil•D mo allo Stato è di eliminare innanzitutto quelle condizioni di ambiguità che mettono un soggetto tossicodipendente nella condizione di non avere le necessarie verifiche sociali esterne (e pratiche) che potrebbero fargli prendere atto con chiarezza immediata e speculare della propria situazione personale che - chi ha un po' di pratica lo sa - il tossico riesce a mascherare a se stesso in misura incredibile. Solo prese di posizioni chiare e lineari possono aiutarlo a far luce su di sé e ad esercitare la propria libertà nel presentare una indispensabile richiesta di aiuto. La stessa famiglia, del resto, non dispone di molti altri strumenti, se non della chiarezza e della coerenza. Ma, debilitata e confusa com'è nella grande maggioranza dei casi, come può farlo se non ha alle spalle uno strumento legislativo adeguato? Certo l'offerta d'aiuto è indispensabile, ma qui si tratta di farne emergere la domanda. La nostra esperienza dell'ambivalenza, di cui parlavo all'inizio, ci permette di cogliere l'importanza di rapportarci con la persona presa in tutta la sua complessità senza trascurare la sua condizione di coatto alla tossicodipendenza, e quindi di capire quanto sia importante omogeneizzare l'intervento responsabilizzante con quello orientativo che, data la condizione, non può evitare anche una dimensione contro-coattiva. Prescindendo perciò dalla malafede di chi definisce il nuovo testo di legge sulle tossicodipendenze come un disegno criminalizzante e repressivo, riconosco tuttavia in esso - e l'abbiamo voluto anche noi - un aspetto interventista che si serve anche dello strumento della punizione in funzione educativa e chiarificatrice: educativa perché aiuta il soggetto ad abbandonare la strada dei compromessi e a ricercare dentro ed intorno a sé solo motivi ed aiuti per vivere; chiarificatrice perché non concede spazio sociale alla presunzione che possa essere una libera scelta quella di drogarsi ed, eventualmente, di avviare su questa strada anche altri adepti. D'altra parte non mi sembra corretto voler riversare su una legge specifica la funzione di risolvere tutti i problemi sociali e di dare una visione complessiva di un diverso modello sociale che, oltretutto, a questo punto verrebbe imposto per via giuridica. E dunque, come non ritengo che una eventuale legge quadro sul mondo giovanile debba farsi carico di trattare esaustivamente e in maniera particolareggiata il problema della droga per il fatto che : IO questo tocca in particolare i giovani, così, viceversa, non ha senso che una legge sulle tossicodipendenze per essere efficace debba contenere tutti gli elementi per un progetto di rinnovamento sociale. Non sono le leggi i luoghi deputati al dibattito culturale. Ogni legge deve farsi carico di affrontare in maniera complessiva e tempestiva l'argomento che le compete, senza che si pretenda da essa una perfezione che ne ritardi l'emanazione pratica in tempi reali ed operativi. Non ritengo poi rilevante, sotto questo aspetto, la difficoltà spesso sollevata che con un intervento più decisivo lo Stato rischia di rigettare nel cosiddetto sommerso i tossicodipendenti. Prima di tutto perché non è facendo sommergere tutti che si faranno emergere alcuni, e poi perché nessun tossicodipendente è mai emerso da solo, in quanto la droga non lascia spazi di libertà. E dunque non si tratta di eliminare il sommerso cambiandogli l'etichetta ma caricandolo di significato, e cioè mettendolo in piena contraddizione e facendolo emergere per quello che veramente esso è. Del resto, per noi della Comunità Incontro e per i tanti gruppi di appoggio che lavorano con noi sul territorio, in termini assoluti i tossicodipendenti sommersi non esistono. Li conosciamo tutti. Non costituiscono un altro mondo a sé, una specie di pantera che si aggira nei sottoboschi e che nessuno ha mai visto. Sono uguali ai nostri ragazzi, e nessuno meglio di quanti sono usciti dalla droga può aiutarli, convincerli, offrire loro una testimonianza che vivere in maniera diversa è possibile, anzi è molto meglio. Ma proprio i nostri ragazzi hanno imparato questo: per uscire dal tunnel della droga bisogna accettare di percorrere una strada di vita, ed una strada deve avere una direzione, delle regole, dei segnali, una meta. Altrimenti non è una strada, ma una piazza o - peggio ancora - uno spazio vuoto. Ecco: una legge può e deve servire a questo, a darti delle indicazioni e a porti dei limiti perché tu non finisca fuori di strada o perché tu non sia di intralcio, invece che di aiuto, al cammino degli altri. Il camminare insieme, il prefiggersi una meta, la programmazione del cammino, i momenti di sosta, e così via, sono invece di competenza della vita: non toccano alla legge, sono l'essenza del fare comunità.

.{)!t BIANCO l.XII.HOSSO iil•ii••il Walter Tobagi: una memoria impegnativa di Luigi Borroni Pubblichiamo l'intervento con cui Luigi Borroni, presidente del Centro Tobagi di Roma, ha aperto la manifestazione in memoria del collega Walter Tobagi assassinato dieci anni fa dalle Br. Essa si è tenuta il 28 maggio nella Sala della Federazione Nazionale della Stampa, a Roma, contemporaneamente ad altre manifestazioni tenute in varie parti d'Italia. S ono passati dieci anni dall'assassinio di Walter Tobagi. Noi riteniamo di aver contratto con lui un debito da onorare nel momento in cui il nostro centro culturale ha assunto il nome di questa bella figura di riformista e di credente. Il debito con Tobagi lo ritroviamo espresso non solo dai suoi scritti ma dal ricordo del suo impegno civile: considerare la ricerca della verità un dovere fondamentale, la vera chiave per aprire alla comprensione dei fenomeni nuovi la porta del futuro. Allo stato delle cose non tutto di quel tragico evento appare ancora chiarito. Certamente però in questi dieci anni è rimasta in ombra la validità e la forza del messaggio che Tobagi ha consegnato con il suo lavoro e con i suoi comportamenti alla nostra società. Al fondo il riformista Tobagi, il credente Tobagi, il giornalista Tobagi, esce vincente dagli approdi cui è giunta l'evoluzione italiana di questi anni. Nel suo impegno e nella sua opera c'è la forza di un riformismo senza paura che ha saputo lottare, spesso isolato, contro la sfiducia, i catastrofismi ideologici, le chiusure settarie, i nemici della democrazia italiana. Come osservatore attento di cose sindacali Tobagi ha cercato con grande acutezza sia nel sindacato, sia nelle esperienze reali ed umane dei lavoratori, tutti i segni della novità. Così facendo, senza inutili enfasi, riusciva a separare il vecchio dal nuovo ed a proporre la realtà come stimolo critico continuo, incessante, ma benefico nei confronti dell'espérienza sindacale. Come credenti, in particolare, ci sentiamo vicini al cammino che Tobagi ha voluto tracciare con la sua vita: Walter Tobagi ha cercato di integrare il senso profondo di una laicità vissuta con grande responsabilità e la indubbia, sentita, fedeltà ai valori cristiani. Se rileggiamo quanto egli ebbe a scrivere da giovanissimo sul rapporto fra riformismo socialista e cristianesimo ci rendiamo conto di come l'incontro fra questi due termini sia stato avvertito come possibile e positivo. Anzi in Tobagi c'è la premonizione che superata la cosiddetta «civiltà di massa» sono questi i due riferimenti più importanti ai quali guardare nel momento in cui emerge la società postindustriale ed è definitivo il tramonto delle grandi ideologie. Ci fa particolare piacere che al ricordo di Tobagi abbia voluto collaborare la Federazione Nazionale della Stampa Italiana: siamo ad essa grati per questa occasione di riflessione comune nei confronti non solo di un grande giornalista ma soprattutto di un giornalista coraggioso e testimone autentico della possibilità di far convivere una limpida passione civile e politica con un attaccamento formidabile ai principi della libertà e della autonomia della sua professione. Possiamo dire che la riflessione aperta da Tobagi sui problemi del giornalismo è stata scomoda. Questa «scomodità» ci appare ancora oggi animata dalla generosa ricerca di quelle condizioni che, sole, possono permettere l'esercizio di «un giornalismo dignitoso e indipendente» per dirla con le sue parole, che proseguivano così: «quel giornalismo è una delle caratteristiche fondamentali di un sistema veramente democratico, nel quale pluralismo e libertà di informazione sono perni insostituibili». Un ricordo di Walter Tobagi non può prescindere dal suo coraggio manifestato nei confronti del fenomeno terroristico. Esso appare come una delle migliori e più nobili espressioni della lotta che è stata ingaggiata negli anni di : 11 ,

{)JJ, BIANCO '-Xli.ROSSO iii iii Nili piombo contro i terroristi. Giustamente Aldo Forbice apre il suo libro su Walter Tobagi rammentando alla nostra memoria un significativo commento espresso dal figlio di un'altro giornalista vittima dei terroristi, Carlo Casalegno, all'indomani dell'assassinio di Tobagi: «Bisogna rendersi conto che i terroristi non sono dei pazzi e per questo sono più infami: non casualmente infatti aggrediscono coloro che si pongono nei loro confronti in modo lucido. È mostruoso ammazzare coloro che hanno scelto di combattere con la penna: ma loro uccidono per far vedere che sono vivi». In realtà le idee e le convinzioni di Walter Tobagi erano e sono inespugnabili per ogni forma di violenza. Lo erano perché forgiate da una grande fermezza e da una grande serenità interiore. Ed è questa l'immagine di Tobagi che continua a vivere in coloro che l'hanno conosciuto e che l'hanno apprezzato. Ma per il nostro lavoro di persone impegnate nella Selciaroli al lavoro nel Corso, Roma 1890 :: 12 società civile c'è un'altra lezione che non va trascurata, ed è con questo messaggio che voglio concludere queste brevi riflessioni: l'aspirazione di Tobagi ad una riforma della politica e della qualità della politica che portasse istituzioni e partiti ad essere più vicini ai bisogni ed alle attese della gente. Ed è questo un tema come sappiamo tutti di grande attualità in tempi di forte frammentazione politica e sociale. La tenace convinzione che animava Tobagi su questo versante circa la possibilità di migliorare il livello della nostra vita democratica, soprattutto attraverso una costante attenzione ai problemi vecchi e nuovi della dignità delle persone, dei ceti più deboli, e della qualità della vita collettiva, diviene quindi per noi un invito forte e coinvolgente a non smarrire la fiducia nei valori migliori del riformismo, a non rinunciare al dovere di propugnare i cambiamenti che rendano più giusta la nostra società.

1)JJ. BIANCO '-XltROSSO iil•iilid La casa: affitti e sfratti tra verità e imbrogli di Carlo Pignocco P eriodicamente, il problema della casa «fa notizia» e conquista le prime pagine dei giornali. Accade quando il ministro Prandini per non smentire la fama di grande decisionista, annuncia mega programmi per costruire nuovi alloggi, o la completa liberalizzazione degli affitti; o quando il vice presidente del Consiglio, Martelli, propone di riservare una quota predefinita di alloggi pubblicitari agli immigrati. Più recentemente, ha fatto scalpore l'ordinanza del prefetto di Roma che richiama enti previdenziali e società assicurative - i cosiddetti «investitori istituzionali» al rispetto della norma che li obbliga a riservare agli sfrattati il 500Jo del patrimonio disponibile; con l'obiettivo, afferma il dr. Voci, di eseguire gli sfratti solo quando sia stato individuato un altro alloggio disponibile. Cioè, come dicono i sindacati inquilini, gli sfratti «da casa a casa» e non «da casa a strada», come spesso disgraziatamente avviene. Raramente, però, queste notizie sono accompagnate da riflessioni serie sui termini reali del problema, sulle soluzioni possibili. Da registrare a questo proposito l'iniziativa dei sindacati inquilini per mobilitare con un appello le forze della società civile e difendere, con una Convenzione Democratica i diritti del cittadino alla casa al territorio; per una politica che mette al centro la necessità della gente o, più esattamente, i diritti sociali sino ad ora negati. Si tratta di comprendere, o di spiegare, che le regole (o l'assenza di regole) che governano la crescita, la trasformazione delle nostre città, lo sviluppo del territorio - uffici, direzionalità, commercio, ecc... - e, insieme, il debole controllo e intervento pubblico determinano grandi e sempre maggiori difficoltà per chi cerca un'abitazione. Difficoltà che diventano insuperabili, se si tratta di famiglie a bas- : 13 so reddito: pensionati, giovani, impiegati, famiglie con un solo reddito. In Italia il problema potrebbe non esistere: vi sono più alloggi che famiglie, più stanze che persone. Si continua a costruire molto, forse troppo. Ma il quadro reale non è positivo, la casa rappresenta ancora per milioni di persone, un «diritto negato»: oltre 4 milioni di alloggi sono sovraffollati, a fronte di 4 milioni di alloggi vuoti; in 6 anni sono state emesse oltre 700 mila sentenze di sfratto, e più di 100 mila sfratti sono stati eseguiti con la forza, praticamente buttando le famiglie per la strada, circa 3 milioni di persone spendono per la casa oltre il 300Jo dei loro consumi complessivi. Il solo Comune di Roma nel 1989 ha speso 30 miliardi per ricoverare gli sfrattati in residence spesso inospitali e antigienici. Ormai non si trovano alloggi in affitto a meno di 8-10 milioni all'anno. Perché tutto questo? La proprietà immobiliare utilizza a piene mani legalmente e illegalmente, il suo potere: sfrattando senza alcun motivo, per imporre agli inquilini i famigerati «canoni neri», per affittare le camere o singoli letti a studenti fuori sede o immigrati, per trasformare gli alloggi da abitazioni a uffici; o, semplicemente, per tenerli vuoti, considerando che il vero guadagno della proprietà non è il rendimento dovuto ai canoni, ma il vertiginoso incremento di valore degli immobili. L'intervento pubblico è latitante: sia come produzione diretta di alloggi per tutte le famiglie in condizioni economiche deboli (e questo intervento non è sostenuto con risorse dello Stato, ma principalmente attraverso la contribuzione ex Gescal); sia come produzione di norme che impongono il rispetto del principio costituzionale della «funzione sociale» della proprietà.

ilJJ, BIANCO Ol.11.ROSSO lii•ii••U Il risultato è desolante: raffrontando la situazione italiana con quella degli altri Paesi europei, registriamo la presenza di un patrimonio immobiliare tra i più consistenti, una quota di patrimonio pubblico tra le più esigue, dei livelli di tensione abitativa inesistenti altrove. Questi primati negativi si accompagnano a gravi ritardi politici e culturali. Tante che, quando un prefetto - come nel caso già citato - si permette di criticare i criteri discrezionali e gli abusi della grossa proprietà (e per giunta di una proprietà sottoposta a controllo pubblico, come gli Enti e le assicurazioni) si innalza un coro sdegnato di protesta che vede in prima fila proprio Prandini - ad accusarlo di protagonismo e di abuso di potere. Ma cosa ha fatto, di tanto grave, il dr. Voci? Ha solo ricordato che una legge dello Stato impone a quei particolari proprietari (ma perché non imporlo a tutti?) di dare in affitto una quota di alloggi agli sfrattati, non a condizioni di privilegio, si badi bene, ma ai canoni previsti dalla legge. Ed ha aggiunto che ciò non deve avvenire scegliendo ad arbitrio lo «sfrattato amico», ma adottando il criterio molto semplice di dare la precedenza a coloro che hanno più prossima l'esecuzione dello sfratto. La sconfortante conclusione che si deve trarre è la seguente: fino a che lo Stato non sarà in grado di varare norme equilibrate e ragionevoli - e di garantirne il rispetto - e in primo luogo di assicurare le entrate fiscali dovute (l'evasione fiscale nel comparto supera il 50%): fino a che non verrà attivato un adeguato flusso di risorse pubbliche per realizzare il diritto alla casa; fino a che verranno messi alla gogna i malcapitati che pretendono il rispetto delle leggi esistenti, pur insufficiente; fino ad allora non sarà possibile parlare di riformismo, chimera irraggiungibile nel settore di cui stiamo parlando. Ma non sarà possibile, addirittura, parlare di Stato di diritto. Piccole Imprese: un passo avanti in un problema a rischio di SilvanoVeronese I 1 quotidiano di proprietà dell'organizzazione degli industriali privati si richiama, addirittura, «ad una di quelle coincidenze astrali, imperscrutabili ai più, che governano i ritmi della politica italiana» per spiegare le risposte, venute in sede di assemblea di Confindustria a «due consistenti preoccupazioni del mondo produttivo: la sorte di Comit e Credit minacciati di lottizzazione; la sorte delle imprese minacciate dalla demagogia travestita da legge». Bello, e incredibile, l'incipit confindustria- -- • 14 le. Bello, incredibile e... favolistico. Lasciamo da parte le sorti del mondo bancario. La minaccia che opprime il mondo delle imprese è (meglio, sarebbe) costituita dai provvedimenti legislativi concernenti la proroga dell'attuale sistema di scala mobile e le tutele dei lavoratori nelle imprese minori. Minaccia che il ministro Battaglia, «dopo aver concordato il proprio intervento con il presidente del Consiglio» (davvero??), ha prontamente sventato da par suo, preannunciando «che il provvedimento sulla scala mobile verrà lasciato cadere

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