i.).tJ, BIANCO lXll,llOSSO iii•iii•Q La ''cosa'' di Occhetto non è (ancora) riformista di Rino Caviglioli P uò darsi che il Congresso straordinario di Bologna, e soprattutto gli avvenimenti in corso nei paesi dell'Est europeo, segnalino, per il Pci, la fine di un'epoca. Ma quali tempi essi definiscano nel futuro delle generazioni post-comuniste, è cosa tutta da vedere. Va in archivio l'idea di comunismo come speranza dei poveri e degli oppressi. Forse il lento ondeggiare dei cicli storici la farà riapparire, emendata per effetto delle conseguenze provocate dagli errori e dalle delusioni. Ma a noi difficilmente sarà dato farne l'esperienza. Il gruppo dirigente del Pci ne ha tratto molte conseguenze, e s'è fatto promotore di una fase costituente di una nuova formazione politica. La cosa, appunto. Che dovrà misurarsi, dopo gli scontri interni al vecchio partito e dintorni, con il consenso espresso dall'elettorato tradizionale. Per questo le elezioni del 6-7 maggio, benché di natura amministrativa, avranno un ruolo decisivo nello stabilizzare la nuova stagione o nel farla regredire. Ma il gruppo dirigente del Pci, che governa i modi, i tempi e i contenuti attraverso i quali far crescere la nuova forza politica, è chiamato a compiere scelte assai difficili, perché hanno radici robuste - che andrebbero tagliate - nella storia e nella pratica sociale del Pci. C'è, innanzi tutto, da scegliere la «natura» della nuova esperienza politica. La «forma partito» attorno alla quale, si ragiona non sarà più totalizzante, né pretenderà oltre di essere la sede della morale e della sintesi? Si vedrà. Certo, negli ultimi mesi, la figura del «partitogenitore», un po' paternalista ed un po' autoritario, che decide ciò che è bene e ciò che è male, ha lasciato spazio a quella di un «partito-bambino», aperto a tutte le emozioni, disordinato e incoerente. Forse un partitocontenitore che accoglie tutti con l'intenzione di rinnovare, nei modi possibili, un'egemonia antica. O forse solo l'inevitabile tumulto di un tempo di transizione. Poi bisognerà discutere, in modo più convincente ed efficace, di cultura di governo. Per dirla in breve: se un partito è autenticamente riformista quando il programma per cui si batte dall'opposizione è lo stesso che porrà in essere giunto al governo, il Pci non è ancora un partito riformista. Le sue proposte di legge sono state elaborate per discutere, per «fare cultura», per raccogliere proteste e consensi. Ma hanno, quasi tutte, due difetti di fondo: totalmente rimossa è la dimensione relativa al loro costo, normalmente al di sopra delle compatibilità finanziarie frequentabili dalla nostra politica economica, pur nella ovvia consapevolezza che un'alleanza riformista ha priorità diverse da quelle oggi prevalenti; né, d'altra parte, si preoccupano a sufficienza del vasto consenso sociale indispensabile per fare delle riforme. Insomma, se il Pci andasse al governo, dovrebbe cambiare quasi tutte le proposte di legge che esso stesso ha formulato. Ultima, ma forse prima per importanza, la questione istituzionale. Tutti vedono che così non va. In Parlamento e altrove si decide troppo poco. I governi, a tutti i livelli, hanno un alto tasso di precarietà. Il raccordo tra istituzioni e società civile passa sempre attraverso i partiti con pesanti effetti di lottizzazione del potere. In tre intere regioni, e qualche diramazione già s'affaccia in altre, la debolezza delle istituzioni pubbliche sta consegnando larga parte del potere di governo a forti «istituzioni» private che hanno nome mafia, camorra 'ndrangheta. Le conseguenze sono visibili: ci allontaniamo dall'Europa in tutto ciò che è pubblico. Le cause di tale degrado, come si vede, sono molte, ma una, forse, supera le altre: il mancato ricambio della classe di governo, reso dif-
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