ferendum del maggio 1974, quando uomini e donne (ma certamente e maggioritariamente le donne, che costituivano già allora la maggioranza dell'elettorato italiano) votarono con una percentuale del 59% a favore del divorzio. In quel momento - parlo del 1974 - certo il Partito Comunista Italiano prese atto di quanto, a sua insaputa, o meglio ad insaputa del suo gruppo dirigente, rigorosamente maschilista, e magari anche con il contributo delle idee e delle pratiche femministe, fossero cambiate le donne italiane: tutte. E cominciò allora, per le comuniste, iscritte, militanti, simpatizzanti, e via via anche dirigenti, il più lacerante ed autentico dei conflitti, quello espresso nel concetto di "doppia militanza": essere comuniste ed essere femministe. Un analogo processo, anche più precoce e con esiti più rapidi di quelli in gestazione nel Pci, si andava svolgendo intanto all'interno della sinistra cosiddetta extraparlamentare: da "Il cerchio spezzato" di Trento, a Lotta femminista di Padova, al collettivo di via Pomponazzi a Roma, creato dalle donne de Il Manifesto, tutta la nuova identità femminile era in fermento: nascevano libri, come, tra i primi testi collettivi, "La coscienza di sfruttata", si coniavano slogans che oggi forse, dopo il crollo delle ideologie marxiste-leniniste nei paesi dell'Est, suonano improponibili, ma allora appassionatamente condivisi, come questo, famoso: «Non c'è rivoluzione senza liberazione della donna, non c'è liberazione della donna senza rivoluzione». (Ma proprio oggi, dopo tante delusioni, non appare più che mai evidente che l'unica rivoluzione possibile, perché senza sangue né torture né orrori, è quella delle donne?) Nel 1976Lotta Continua si scioglie, perchè attaccata dalle sue militanti che, nel Congresso di Rimini, ne svelano la componente reazionaria patriarcale. Nel 1977, le Edizioni delle Donne pubblicano un altro testo collettivo, "La parola elettorale", in cui femministe e donne di sinistra, tracciano la propria autobiografia politica. Perchè ormai il femminismo comincia ad essere riconosciuto come la forma fondamentale della politicizzazione delle .Pll• Bl.\,CO lXll.ROSSO 1111 #0IA l'Udi si libera dal vincolo con il PadrePartito, il Pci. Negli anni Ottanta, infine, il grande cambiamento: le donne entrano in massa nel Pci e reclamano, con forza ed argomenti irrefutabili, non tanto "la metà della torta", ma di cambiarne il sapore: non soltanto la "quota" (per ora il 300/oe domani il 500/odi rappresentanza femminile in tutti gli organismi del partito), ma, secondo la formula coniata dalla nouvelle philosophe veronese, Adriana Cavarero, "un partito a due sessi". Tutto bene, dunque? Il femminismo trionfa nel Pci? È sincero il "largo alle donne!", sommessamente pronunciato da Alessandro Natta, il penultimo segretario del partito, (che mi ricordo intento a prendere appunti diligenti per tutta una intera mattinata, ad un convegno in cui le donne, comuniste e non, pronunciavano richieste ardite e denunciavano storture ed oppressioni), e ripreso con vigore e con una totale ricezione della ''teoria della differenza", elaborata dall'intellighentia femminista in Italia e in Francia, da Achille Occhetto? Non è questo il punto, mi pare. "Sedotte ed abbandonate" dalla Politica, dai Partiti, le donne, ormai, non credo lo saranno più. O almeno, lo spero ... Nei confronti del grande cambiamento del Pci, della sua disponibilità a darsi addirittura in olocausto, per fare uscire la società italiana dalla situazione asfittica in cui si trova ormai da mezzo secolo, sipuò anche esserescettici, sospettosi, increduli: ma questo è un dubbio, come dire, sessualmente neutro, -lo possono avere cioè uomini e donne, in quanto cittadini italiani politicizzati. Per le donne invece, secondo me, il problema è un altro. Ferma restando la possibilità, da verificare ovviamente ogni giorno, di servirsi della struttura del Pci per rendersi visibili nella società italiana (non a caso è questo il partito che ha eletto più donne in Parlamento), c'è _dachiedersi, come si sono chieste le 200 partecipanti al recente Convegno di Bologna, organizzato dal Centro Donne, se l'autonomia del movimento e della cultura delle donne va rischiata o no, nella forma, ancora oggi, di un partito, sia pure "a due sessi". Ha detto Alessandra Rocchetti, leader (giustamente) carismatica del Virginia Woolf: «Nel Pci, alla forza del soggetto femminile ci credono più gli uomini che le donne, come se per questa idea grande le donne impegnate in questo partito non fossero ancora pronte». Ed ha concluso: «L'ipotesi di una costituente tra i due sessi» (che sarebbe poi il percorso attraverso il quale il Pci, qualunque nome o forma debba assumere, dovrebbe diventare una struttura politica, per l'appunto, "a due sessi") «porta l'immagine della complementarità tra i due sessi, mentre oggi fra uomini e donne il dialogo è impossibile, sono possibili solo interessi coincidenti, non comuni». Ridotto all'osso, mi sembra, il didonne. E su questo concetto, anche Firenze 1958. Corteo di donne per gli operai della Galileo. - - ; JS
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