.i).li, lll.\~CO lXII.ROSSO u:,101a Il Pci e le donne I n ventanni, in questi ultimi ventanni, in cui, in Italia, caparbiamente, è riuscita ad esistere, se non altro ad esistere, una "cosa" chiamata "femminismo", la relazione tra le donne comuniste ed il loro partito, il Pci, è cambiata in modo sconvolgente. Come testimone "storica" (nel senso di "femminista storica", definizione forse coniata con malizia ed ironia, ma che io considero invece piuttosto un omaggio che un insulto), e quindi come osservatrice esterna ma appassionata, e, il più delle volte, appassionatamente critica di quella relazione, proverò qui a ripercorrere il processo, durato, ripeto, ventanni, che ha oggi portato le donne del Pci e le altre, cosiddette di "area", a rappresentare il "braccio armato" (dove "armato" sta soltanto per "visibile") del femminismo dentro la politica italiana. Ventanni fa, dunque, quando si formavano i primi collettivi femministi (Rivolta Femminile, L'analisi, Le Nemesiache, e poi lo Mld, ed il Collettivo romano di via Pompeo Magno), il Pci, come del resto i primi gruppi extraparlamentari nati nel '68, ignoravano, nel migliore dei casi, questi stravaganti, nuovi fermenti della società italiana. La questione femminile, nel Pci, sembrava essere stata risolta una volta per sempre e nel nome di una prudente "emancipazione" che proponeva, per le donne, il lavoro, la tutela della maternità e, tutt'al più, gli asili-nido. In quanto ai modelli che il Pci offriva alle donne, si era ancora fermi, più o meno, ai discorsi di Togliatti, pronunciati tra il 1945 e il 1956, e raccolti in un libretto intitolato "L'emancipazione femminile'', nel 1970 praticamente scomparso dalle librerie, e che nessuno aveva pensato di ristampare. di Adele Cambria In quei discorsi, Togliatti diceva: «Diamo alle donne del popolo perchè le custodiscano insieme alle immagini dei santi le immagini a colori di Vittoria Nenni e delle altre donne cadute nella Resistenza». E poi: «Sono due sante, Santa Chiara e Santa Caterina da Siena, le uniche figure femminili di rilievo nella storia italiana». Ed ancora: «Non è la religione la vera causa dell'arretratezza della donna italiana». Da notare, in quest'ultimo esempio, l'ambiguità dell'analisi perché non si capisce se Togliatti alluda alla religiosità come valore umano complesso (culturale, etico, sentimentale) o alla Chiesa cattolica, che, viceversa, in quella precisa epoca storica, demonizzava qualsiasi tentativo di emancipazione femminile. Ma a chi e a che cosa, in concreto, si riferisce il segretario del Pci sembra invece abbastanza chiaro in altre sue affermazioni: come l'esortazione rivolta alle donne comuniste dell'Udi, a non respingere le altre donne che «ridestate alla vita pubblica si sono iscritte alla Dc»: o l'assicurazione che i comunisti sono (e, si presume, resteranno) «contrari a porre qualsiasi problema che tenda a rompere o ad affievolire l'unità familiare». In altre parole: i modelli restano quelli del sacrificio femminile (martiri della Resistenza o Sante), l'emancipazione si ferma sulla soglia della "unità familiare", e quindi niente divorzio, anche se in altri paesi cattolici, come la Francia, esiste da duecento anni. E fu proprio sul nodo del divorzio che esplose il primo conflitto tra Pci e femminismo, e che L'Unità si degnò per la prima volta di nominare la parola "femminismo", su cui fino a quel momento era stato calato, da parte co- • 34 •- - --- - - - - -- munista, uno spesso tabù, per unirvi, con disprezzo, l'aggettivo "borghese", in una miope accoppiata di leniniana memoria. Ma che cosa era successo? Era successo che alcune intellettuali vicine al Pci, come Laura Lilli ed Isotta Gaeta, avevano azzardato il primo timido tentativo di analisi e di confronto, teorico e pratico, tra marxismo-leninismo e Partito Comunista Italiano, da una parte, e femminismo e nuovo movimento delle donne dall'altra. Nacque così la rivista "Compagna", che riprendeva la storica testata fondata nel 1921 da Antonio Gramsci e diretta da Camilla Ravera. E nel primo numero della nuova rivista (di cui sarebbero usciti soltanto quattro numeri a causa della pronta stroncatura dell'Unità), c'era un articolo intitolato "Divorzio e paura", in cui io, per incarico del collettivo redazionale, avevo formulato il sospetto, peraltro condiviso da molti in quel momento, gennaio 1972, che il Pci non volesse andare a un referendum sul divorzio, finalmente diventato legge dello Stato nel 1970, su una proposta Psi-Pii (Fortuna-Baslini), temendo che anche le donne comuniste avrebbero votato contro. Scrivevo allora: « ... Il Pci fa sapere di non essere sicuro, in tema di "sì" o "no" per il divorzio, del proprio elettorato femminile... Ora ci sembra davvero inqualificabile una simile manovra, per cui si vuole giustificare il proprio arretramento con l'arretratezza di un elettorato, in questo caso l'elettorato femminile, che, evidentemente, non ci si è mai curati di portare sopra diversi e più avanzati livelli di coscienza». Quanto quelle paure fossero infondate, si vide poi con il risultato del re-
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