B vaglio dei comunisti senza fare riferimento insieme alle ragioni del cuore, oltreché a quelle dell'intelletto. Ma non necessariamente questi due momenti oggi si muovono sul medesimo piano e in sjntonia. L'uno può allora costituire la negazione dell'altro. Ma forse, per comprendere l'attuale fase, occorre partire da due elementi storicamente incontrovertibili: l'impossibilità di non mutare e nello stesso tempo la difficoltà a fare realmente i conti con la propria tradizione, visto che questa, in parte per virtù propria e molto per la forza del contesto, non è stata battuta sul campo. La presa di distanza dal socialismo reale, la denuncia già nell'era berlingueriana dell' «esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione del '17» e quindi del modello del socialismo reale, il tentativo operante da alcuni congressi di proporre una terza via, distante insieme dal socialismo realizzato e dalla socialdemocrazia, ha legittimato il costruirsi di una immagine di "diversità" a livello interno e a livello internazionale. Comunisti sì, ma diversi; socialisti e magari anche liberali, certo, ma diversi. La diversità teorizzata e praticata non ha così consentito di fare i conti fino in fondo con il comunismo - tanto che ancora nella mozione Occhetto di preparazione al congresso si poteva tranquillamente oscillare tra la condanna del socialismo reale e l'affermazione del comunismo ideale, come se il crollo dell'89 dovesse essere imputato piuttosto ad una cattiva realizzazione dei principi che ai principi stessi. La conseguenza è che non si è mai sentito parlare così poco di comunismo - quello teorizzato e quello praticato - come nel XIX congresso che, proprio in quanto avvio di una fase costituente, avrebbe dovuto fare i conti con l'intero patrimonio della propria storia. In fondo, non si è affatto preso atto del fatto che il fallimento riguarda i principi, non la loro realizzazione. Si è preferito fare, da parte di molti, una collettiva opera di rimozione, parlare d'altro, dislocarsi in un altrove ancora piuttosto indefinito, certo, comunque altrove rispetto all'orizzonte del comunismo. Ma altrove, dove? In una prospettiva post-comunista, che ha dissolto storicamente e teoricamente l'ipotesi comunista, la quale quindi non costituì- ·- - ---· - - - - .,. i.)!J, Bl.\:\'CO lXII. BOSSO •b•~i9•1A sce un punto critico per affrontare la società e il sistema capitalistico, oppure nel post-comunismo del socialismo realizzato, alla ricerca di un nuovo modo di fuoriuscita dal capitalismo, sia da quello classico manchesteriano, che da ogni sua possibile variante nella dimensione corretta della socialdemocrazia. O ancora: il post-comunismo significa semplicemente l'abbandono della critica di classe a favore di un generico atteggiamento antagonistico, che ondeggia tra le diverse insoddisfazioni e i diversi movimenti, senza tuttavia ricercare un nuovo e diverso punto di vista critico complessivo? Con il pericolo, cioè, di evitare in tal modo un serio confronto sulla possibilità di costruire una ipotesi di socialismo liberale e riformista in grado di gestire la nuova società complessa. Insomma: anche il nuovo socialismo liberale riformista è in discussione. Ma l'apertura e l'accettazione di questo orizzonte è la premessa per questa discussione. E Genova•Sestri, 1920. Targa nelle officine An• saldo. 19 in questa accettazione sta il nuovo inizio, la rottura con il passato. Il senso della apertura della nuova fase costituente non può consistere nel tentare di inventare una cosa del tutto nuova, senza perdere niente del vecchio: in termini ovviamente di consensi, di gruppi dirigenti, ma anche di patrimonio culturale, politico e ideale. Sembra che permanga una idiosincrasia netta e radicata nei confronti di ciò che evoca rottura e discontinuità, come se lo storicismo fosse comunque il collante comune che, non percepito, unifica e identifica. Il disfarsi dei regimi del comunismo reale ha avuto, attraverso il momento elettorale, il segno netto della rottura. Innanzitutto con i partiti comunisti, ma anche con la tradizione ideale, politica e culturale da essi incarnata. Il passato non può essere stalinianamente cancellato o riscritto. Resta lì. Ma come oggetto di storia. La rottura vuole indicare un nuovo inizio. Che cosa invece indica la riaffermazione, nella continuità, della vecchia storia, accanto alle nuove idealità e ispirazioni alle quali pure il nuovo Pci intende fare riferimento? Nei paesi del socialismo reale si è sepolto il vecchio comunismo, ideale e realizzato, ma sembra anche essere stata rifiutata ogni ipotesi di sinistra democratica rinnovata. Certo, è prematuro assumere come indicazioni epocali, individuate nella loro determinatezza, quelle emergenti da un movimento talmente accelerato in società per lungo tempo immobilizzate e del tutto prive di movimento, da far pensare a una prima forma di assestamento, piuttosto che ad una conformazione definitiva dell'assetto politico-sociale. E tuttavia, seppure con questi margini di provvisorietà, occorre prendere atto del fatto che le proposte di stampo socialdemocratico, come di quelle del comunismo rinnovato, all'italiana, nel mercato politico, ancora povero, dei paesi dell'Est, non ha avuto alcun peso e significato. Il rischio dei piccoli aggiustamenti a breve, è appunto quello del rifiuto totale, a lungo termine, dello stesso socialismo riformista. Il XIX congresso di Bologna del Pci, avvenuto poco prima dei fatti elettorali, ma dopo il grande crollo, ha prestato in fondo scarsa e distratta attenzione sia alla questione del comunismo - nel senso teorico e storico -, sia alla
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