Il Bianco & il Rosso - anno I - n. 4 - maggio 1990

,{)!I, HIANCO lXltHOSSO •h•#hld Pci: tra continuità e rottura. I pericoli di un futuro passato P roprio perché siamo interessati alla apertura di una nuova fase costituente in grado di aprire un vero e proprio processo di rifondazione di tutta la sinistra, crediamo che al processo debba partecipare tutta la sinistra con l'esercizio del rigore intellettuale e critico. Giacché può alla fine del processo, o riaffermarsi la "cosa", anomala ma vecchia, che è il comunismo italiano, oppure una nuova "cosa" che ha a che fare con il nuovo socialismo liberale riformista. Quest'ultimo non può essere una variante del vecchio comunismo, ma deve costituire una rottura con esso. La Bad Godesberg del comunismo italiano può arrivare ad oltre 30 anni da quella della socialdemocrazia. Ma essa deve necessariamente costituire una vera fine e un nuovo inizio. Ebbene: il processo costituente procede in questa direzione? Tutti i processi storici di questa portata sono necessariamente lenti, ambigui e tortuosi. Non solo perché si tenta, malgrado la netta opzione proposta e gli schieramenti contrapposti, di mantenere comunque unito il partito. Il quale, proprio per questo, seppure liberatosi dall'ipoteca del centralismo, fa fatica ad accettare l'esistenza di una maggioranza e di una minoranza, talvolta parlando di legittimazione del dissenso a proposito della minoranza, quasi che la nuova verità avesse fatto largo al nuovo principio laico della tolleranza. Ma il rapporto veritàtolleranza ha poco a che fare con la moderna laicità del partito. Mentre ha ancora molto, moltissimo a che fare, con la difficoltà ad affermare una precisa identità tra vecchio e nuovo. Senza una chiara e netta identificazione di un nuovo terreno comune di identità, ciò di Luigi Ruggiu che costituirà il nuovo partito rischia di assomigliare piuttosto ad una confederazione di partiti, di ipotesi di valori e di politiche, unificati da un comune passato che rischia tuttavia, in quanto morto, di soffocare quanto di nuovo e di vivo è in gestazione. Alla conclusione dell'intervento finale al XIX Congresso del Pci a Bologna, Occhetto ha affermato di non rinunciare alla «eredità comune, gloriosa» della tradizione del movimento operaio di ispirazione socialista e comunista. «Noi, ha proseguito, vogliamo cambiare molte cose ma non intendiamo uscire dal solco storico da cui proveniamo; vogliamo allargarlo ... ». E Tortorella ha sostenuto che «non sussiste una contrapposizione tra conservatori e innovatori, tra guardini del passato e interpreti dell'avvenire, bensì tra due ipotesi di innovazione per quanto profondamente diverse tra di loro». Si tratta di una comune rivendicazione di continuità da parte dei sostenitori di tesi alternative circa l'identità del partito, la sua ispirazione di fondo, la sua collocazione, il suo programma. E ciò non può non suscitare perlomeno qualche dubbio. Superfluo, certo, qualora si avesse a che fare con un dialogo tra storici; necessario invece, dal momento che si tratta di contrapposizione politica. E dunque: che senso ha aprire una fase costituente, che deve approdare allo scioglimento del vecchio partito, marcandone la diversità persino attraverso il cambiamento del nome, e insieme non fare i conti con la propria tradizione teorica e storica, o addirittura mantenerla come referente essenziale di identità? E come è possibile nello stesso tempo affermare che il Pci I 18 I - ----- - - - -- ha «una cultura fondativa eguale a quella dei partiti dell'Est» - ponendo così in evidenza il nesso essenziale che lega i comunismi, anche quello del Pci, al comunismo appunto - e insieme rivendicare con orgoglio, da parte dei principali leader degli schieramenti contrapposti, quella stessa tradizione? Insomma, è possibile una effettiva fondazione di una "cosa" nuova - e quindi non una rifondazione della vecchia - mantenendo tutto o molto del vecchio in questione, semplicemente declassando il vecchio da natura ''totalizzante" a "momento", assieme ad altre, diverse, nuove o magari opposte tradizioni? Non si rischia, con ciò stesso, di proseguire nella vecchia politica culturale di sommare il nuovo al vecchio, piuttosto che riplasmare il vecchio a partire dal nuovo? E non ha allora forse ragione Tortorella nell'affermare che questa non costituire una rottura con il passato, bensì il suo proseguimento? Non a caso egli può affermare che le scoperte sulla democrazia e sul mercato, sul pluralismo e sull'impresa, sulla laicità e sulla distinzione tra partito e stato, non sono avvenute dopo il crollo del muro di Berlino, ma prima. Ciò che invece ci si dimentica di dire, è che cosa ha a che fare tutto ciò con il comunismo. Si tratta infatti di affermazioni che fanno capo a diversi e radicali contesti di riferimento semantico, ideale e politico. Sicché, se l'uno è, necessariamente l'altro non può essere. O si ritiene invece possibile ridurre il comunismo ad una generica tensione etica verso gli oppressi, ad una vaga aspirazione al privilegiamento delle opzioni sociali, ad una lotta generica all'individualismo e all' egoismo? Certo, è difficile comprendere il tra-

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