forza inerziale di resistenza dell'apparato possa diventare una guerra di lunga durata (cioè una vera e propria guerra di posizione) quanto più la minaccia di spodestare le maggioranze (dalle sezioni alla direzione nazionale) avverrà palesemente. È facile prevedere che, di fronte ad un calo elettorale e al conseguente restringimento delle risorse (simboliche e materiali) da distribuire, lo spirito di auto-conservazione assumerà forme acute, dilaceranti. Da questo punto di vista non è casuale che la maggioranza del corpo dei funzionari, compresi quelli di simpatie ingraiane, si sia massicciamente schierato col fronte del "sì", cioè col segretario generale Achille Occhetto. In un partito di massa, anche se sisancorato dal vincolo della appartenenza ideologica, la "legge ferrea dell'oligarchia" michelsiana può avere repliche diverse. Ciò che non è realistico è prevederne la sospensione o, peggio, l'evaporazione. Un partito ha, infatti, come propria inesorabile vocazione, la conquista, la riproduzione e la salvaguardia del potere, e non l'amministrazione angelica della purezza, dell'onestà o della competenza. Il Pci è, invece, riuscito a far credere di essere un puro spirito, cioè disinteressato al potere. In realtà, essendo una forza di minoranza e di opposizione, è stato escluso (peraltro solo parzialmente) dalla ripartizio0 ne delle risorse pubbliche nazionali. Ma dove governa (Emilia, Toscana, Umbria ecc.) la logica del comando si esprime con una voracità sequestratoria e una spietatezza assolutamente in linea con le cronache del partito-pigliatutto a centralità democristiana o socialista. Nel sistema di potere "rosso", non meno che in quello "bianco", l'espropriazione e la colonizzazione della società civile sono analoghe. Come tutte le istituzioni, i partiti possono cambiare solo per effetto di un trauma; guerra o debacle elettorale. Perciò non mi pare che l'avvio di una discontinuità possa venire dalla rinuncia a costituire un nuovo partito a favore di un movimento federativo. Anche con una simile struttura e se verrà preservato il carattere di insediamento di massa del partito, si produrrebbero tutti i limiti del modello laburista. Nella versione inglese, svedese e tedesca, l'adesione individuale, combinata a quella collettiva (coooperative, sinda- ()!I, RIA~CO ~li.BOSSO iii•#hid cati, ecc.), non ha avuto esiti dissolventi sulla logica di apparato. Nell'esperienza del Pci, il "male oscuro" è stato l'esistenza di un comando verticistico conseguente all'intreccio a mosaico di funzioni dirigenti e di funzioni esecutive, di politica e burocrazia. Nella sfera della rappresentanza, i funzionari politici hanno solo consentito di cooptare nel ruolo di eletti, oltre a se stessi, qualche quota infinitesimale della società civile (intellettuali, giornalisti, qualche tecnico, non iscritti ecc.) a condizione che nel processo decisionale i "compagni di strada" non contassero nulla o facessero un uso molto parco delle prerogative di autonomia e di sovranità loro riconosciute (si veda l'esperienza della "sinistra indipendente"). C'è in tutto ciò il riflesso speculare del partito ideologico, del partito-stato e dello stesso partito militare (forza di combattimento per scardinare la cittadella del potere). Occhetto ha, in un passaggio felice della sua relazione al congresso di Bologna, prospettato la necessità di una "dottrina del limite" (alla pretesa, classicamente comunista, "di rappresentare la coscienza ideale e culturale di ogni iscritto, limite dinanzi all'emergere di nuovi soggetti della società civile, anch'essi portatori di soggettività politica") e un superamento della concezione dell'avversario come "nemico". Purtroppo ha evitato di delineare, anche approssimativamente, il programma e lo statuto di questo futuro partito "autoridotto". Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Alle elezioni amministrative il Pci ha presentato il suo ritratto di Dorian Gray: la vecchia faccia funzionarile, l' elite del partito burocratico-statalemilitare. Non poteva essere diversamente. Se non si ha la forza o la volontà di elaborare un programma di autogestione delle diverse culture, saperi, tecniche, sensibilità presenti nel corpo sociale, si è destinati a soccombere di fronte al programma dirigistico del passato. Il problema della sovranità dell'iscritto, in questa fase di transizione, il Pci lo ha risolto con la costituzionalizzazione delle correnti. Si è cosi assunta la forma storica sperimentata dalla socialdemocrazia non rendendosi conto che anche le organizzazioni correntizie sono rette dal principio del centralismo I )6 I ~ -- --- - - - - -- democratico. Questa omologazione aumenta solo parzialmente i diritti degli iscritti. In realtà, assomigliano a prerogative passive, registrazione dei rapporti di forza, gestione più democratica del contenzioso tradizionale tra base e vertice, dirigenti e diretti. L'anomalia del Pci si è, dunque, sciolta, nella decisione di essere un partito come gli altri esistenti sul mercato per quanto concerne la rappresentanza della delega. Finalmente, si potrebbe dire, in terra comunista è fiorita la pianta della democrazia politica di tipo liberal-democratico (il voto e la conta). Credo però che ai comunisti si chiedesse qualcosa di più e di diverso: ridefinire il proprio modo di essere nella società, di fare politica, di trasmettere dal basso verso l'alto le domande sociali in un originale reticolo decisionale. Dunque, un programma, cioè una nuova identità di fronte alla crisi avanzata dello stato dei partiti. Il partito a struttura pesante è stato funzionale ali' istituzionalizzazione (nel sindacato e nel parlamento) del1'opposizione sociale. Questa strada è diventata macroscopicamente inefficace. Bisogna spostare il carico delle decisioni dalla presunta sede unica del potere (i palazzi della politica romana) nelle sedi locali, articolando la democrazia sulla scala dei quartieri. L'importante percezione che Dossetti ebbe di questa soluzione è stata sfigurata dall'applicazione, che a Bologna ne ha fatto il Pci, instaurando un modello partico-centrico e micro-statalistico. Contestualmente occorre rivedere il sistema della rappresentanza e la forma di governo, cioè il luogo della decisione per garantire - senza manovre trasformistiche - l'autonomia e l'efficacia legislativa della maggioranza. Perchè il dibattito sulla democrazia interna sia collocato su un terreno non astratto, realistico, c'è da augurarsi che queste riforme nel Pci diventino temi di scontro aperto e, se fosse necessario, di rotture nette e chiare. Sarebbe però grave se questo aspro confronto interno non andasse di pari passo con il rimodellamento della natura del partito come strumento di non una volontà (o di un fine) precostituito (la superiorità del comunismo "ideale"), ma della società civile. Da tale punto di vista mi pare interamente infondata la
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