BIA r nwnsilt• di dibattito politico L.3.000 14 15 18 20 22 23 25 26 Spedizione in abbonamento postale - Gr. 111/70% • Anno 1° sommario maggio 1990 DOSSIER Pci: quale "cosa" per una sinistra di governo? L'opportunità e i rischi della scommessa di Occhetto, di G. Ferrara Si può riconvertire il partito di massa? di S. Sechi Tra continuità e rottura: i pericoli di un futuro passato, di L. Ruggiu Pci e istituzioni: nel guado dell'ambiguità, di E. Rotelli I fili dispersi dell'etica, di L. Cortella R Pci è per una sinistra europea? di M. Martini La svolta del Pci e il sindacato, di P. Morelli R nuovo Pci e i movimenti nel sociale, di G. Tonini Cattolici e Pci: c'è un domani diverso? di G. Gennari 28 Gli intellettuali e il Pci, di A. Martinelli 30 Pochi passi dopo la fine, G.P. Cella 32 R Pci e le donne, di A. Cambria 34 Pci, la traversata del guado, di S. Scansani 36 Per un futuro della sinistra, di C. Martelli 3!} Leggevamo alla comunista? Per una bibliografia sul 40 Pci, di Biblo ALL'INTERNO: altri articoli di R. Caviglioli; F. Bentivogli; G. Epifani; S. Veronese; G. Gennari; A. Bovo; E. Gabaglio; C. Sorbi; A, Stuppini Democrazia plebiscitariae democraziarappresentativa di Pierre Camiti ' E partita la raccolta di firme per i ref erendum sulle leggi elettorali. Secondo il direttore dell'Espresso, che è uno degli sponsor del comitato organizzatore del referendum stesso, "i cittadini italiani avranno la possibilità di pronunciarsi sulla più grande riforma che si possa realizzare nel nostro paese. La Riforma delle riforme. È una occasione r---- - •!:.....~ , ,-~ .. ~ -: ,.:.... . . ·- I .
i>!I- BIANCO '-XltllOSSO IIU1111 i iiNI storica per correggere il sistema che regola la vita pubblica". Si capisce che quando i margini si fanno stretti si possa anche confidare su scelte più clamorose che vere, ma credo che non si dovrebbe ignorare il limite di una finzione. Veniamo ai fatti. A lanciare l'iniziativa referendaria, con un drappello di intellettuali ed un certo numero di deputati e senatori democristiani, radicali, indipendenti di sinistra, verdi, repubblicani e liberali, ci sono le Acli, la Fuci, il Movimento giovanile dc ed il Movimento federativo democratico. C'è soprattutto il Partito Comunista. Occhetto ha infatti assicurato "interesse e favore" ai referendum e, c'è da pensare, anche la maggior parte delle 500 mila firme necessarie. Questo raggruppamento eterogeneo è impegnato a promuovere tre referendum. Il primo riguarda il Senato. Con la legge attualmente in vigore, che prevede il sistema maggioritario, oggi è possibile eleggere un candidato quando questi superi nel collegio il quorum del 65% dei voti. Evento per altro abbastanza raro. Così in assenza del quorum si passa ad una ripartizione proporzionale dei seggi tra le varie liste, sulla base dei risultati conseguiti dai partiti in tutta la regione. Con il referendum il sistema attuale verrebbe profondamente corretto. Le 238 circoscrizioni locali verrebbero infatti trasformate in collegi uninominali nei quali si voterebbe secondo il sistema maggioritario. Risulterà eletto, ed in un unico turno, il candidato che avrà riscosso la maggioranza dei voti. Con un correttivo necessario. Poiché i senatori da eleggere sono 315, per l'assegnazione dei restanti 77 si adotterebbe un sistema proporzionale su base regionale. Il secondo referendum riguarda invece la Camera. Qui, non potendo modificare il sistema proporzionale in vigore, si propone di ridurre il sistema di prcferenze da quattro o tre attualmente previste (a seconda dell'ampiezza dei collegi elettorali), ad una soltanto che, inoltre, non dovrebbe essere espressa con il numero del candidato, ma scrivendo il nome sulla scheda. Infine il terzo referendum riguarda i comuni: si chiede di abrogare la norma che limita a quelli con popolazione inferiore ai cinquemila abitanti l'utilizzo del sistema maggioritario. L'intenzione, come si intuisce, è di mettere in causa, nei limiti consentiti da referendum abrogativi, la proporzionale che, secondo i proponenti, da necessità della democrazia italiana, soprattutto dopo il fascismo, si sarebbe ~ ~ -- ---- - --- -- - trasformata nel tempo in strumento di partitocrazia, in presupposto di lottizzazione e di corruzione. Poiché l'intento è soprattutto moralizzatore, si deve rilevare che se i partiti non sono stati in grado di opporsi a lobbies, "parenti e clienti", anche per il costo crescente delle campagne elettorali, che ha portato fuori dai partiti una parte notevole delle decisioni, nulla autorizza a pensare che il candidato locale eletto con il sistema maggioritario possa resistere meglio. Dei partiti in questi anni si è scritto molto. Dell'ingerenza dei partiti nel funzionamento delle istituzioni rappresentative di governo e amministrative si è, invece, parlato meno. La lottizzazione (che non trova origine soltanto nella rappresentanza proporzionale e nella democrazia senza ricambio) viene sempre deprecata, ma le sue cause profonde non sono state adeguatamente indagate. Sull'attività, il ruolo, l'importanza, i pericoli per la moralità del regime democratico dei gruppi di pressione e delle lobbies mi sembra che sia calato un pudico ed interessato velo di silenzio. Tutto questo proprio mentre alcuni partiti sono diventati aggregati di lobbies ed i loro candidati sono sponsorizzati da potenti gruppi. Il rimedio a questo stato di cose non può perciò consistere nell'adozione di parziali e spettacolari modifiche elettorali solo perché sembrano le più a portata di mano. Esse infatti rischiano, fuori da un disegno organico e complessivo di riforma, di essere anche le più mistificanti ed elusive. Una ipotesi di riforma attuata in modo da lasciare indenni le cattive abitudini dei partiti e la qualità inaccettabile del loro rapporto con le istituzioni, rinuncerebbe infatti a fare i conti con il nocciolo della questione che riguarda la distanza crescente tra la politica e la vita sociale. Che l'attualità politica del nostro paese renda centrale il tema delle riforme istituzionali, compresa la riforma elettorale, è fuori discussione. Per altro ciò che va sottolineato è la circostanza che questa attualità si rivela proprio in relazione alla riduzione del peso delle ideologie che aveva finora precluso l'emergere, nei suoi contorni essenziali, della questione. Si tratta certo di una congiuntura utile, di un ammodernamento culturale ricco di virtualità, purché non si sia indotti illusoriamente a credere che fuori dalla storia dei partiti tradizionali, esistono già nella società civile, moralità più intense o chiare soggettività politiche da mobilitare nell'impresa del cambiamento delle regole sulla base di una chiamata confusa ed
{)!I. BI \ :'\( :() lXII.BOSSO 1i11ike,ilbil indistinta. Non può quindi che suscitare preoccupazioni il fatto che non siano le Camere il luogo dove si propone la modifica, ma il corpo elettorale in un misto di "democrazia plebiscitaria" e di scarico di responsabilità che delegittima ulteriormente la rappresentanza politica. I dubbi su questa iniziativa referendaria sono anche di natura politica. Perché accresce invece di ridurre la confusione e, oltre tutto, rischia di compromettere il fragile dialogo che si sta avviando tra le forze della sinistra. Se infatti la Corte dichiarerà improponibile il referendum resteranno solo le divisioni e le lacerazioni che esso ha già provocato. Se invece si effettuerà e dovesse essere vinto dai proponenti si regalerà alla DC (come ha messo in evidenza una attendibile simulazione dei risultati) una immeritata maggioranza assoluta al Senato. Per evitare questo esito c'è chi ha suggerito alla sinistra di unirsi, magari con l'aggiunta di qualche laico. Ma una simile alleanza può realizzarsi e funzionare solo nel contesto di nuovi Anni cinquanta. schieramenti politici incoraggiati da una riforma istituzionale complessiva e da un nuovo sistema elettorale con voto a due turni. In ogni caso anche ammesso che per eventi del tutto imprevedibili l'alleanza a sinistra si riesca a fare avremmo una maggioranza di sinistra al Senato, mentre alla Camera, dove si continuerebbe a votare con la proporzionale, resterebbe probabilmente il pentapartito. Così il referendum anzichè produrre una riduzione della frammentazione politica, dell'instabilità e dell'inefficienza governativa, dell'eterogeneità delle maggioranze, rischia di accrescere soltanto la confusione, l'impotenza, la paralisi. Si conferma così che in condizioni troppo aggrovigliate, chiedere aiuto alla gente, scaricare sui cittadini una impossibile responsabilità, equivale soltanto ad una deresponsabilizzazione della politica. Ad una ulteriore diminuzione della sua credibilità ed autorevolezza. Questo può non essere un problema per il direttore dell'Espresso. Credo che lo sia, e serio, per la Democrazia Cristiana.
i.).tJ, BIANCO lXll,llOSSO iii•iii•Q La ''cosa'' di Occhetto non è (ancora) riformista di Rino Caviglioli P uò darsi che il Congresso straordinario di Bologna, e soprattutto gli avvenimenti in corso nei paesi dell'Est europeo, segnalino, per il Pci, la fine di un'epoca. Ma quali tempi essi definiscano nel futuro delle generazioni post-comuniste, è cosa tutta da vedere. Va in archivio l'idea di comunismo come speranza dei poveri e degli oppressi. Forse il lento ondeggiare dei cicli storici la farà riapparire, emendata per effetto delle conseguenze provocate dagli errori e dalle delusioni. Ma a noi difficilmente sarà dato farne l'esperienza. Il gruppo dirigente del Pci ne ha tratto molte conseguenze, e s'è fatto promotore di una fase costituente di una nuova formazione politica. La cosa, appunto. Che dovrà misurarsi, dopo gli scontri interni al vecchio partito e dintorni, con il consenso espresso dall'elettorato tradizionale. Per questo le elezioni del 6-7 maggio, benché di natura amministrativa, avranno un ruolo decisivo nello stabilizzare la nuova stagione o nel farla regredire. Ma il gruppo dirigente del Pci, che governa i modi, i tempi e i contenuti attraverso i quali far crescere la nuova forza politica, è chiamato a compiere scelte assai difficili, perché hanno radici robuste - che andrebbero tagliate - nella storia e nella pratica sociale del Pci. C'è, innanzi tutto, da scegliere la «natura» della nuova esperienza politica. La «forma partito» attorno alla quale, si ragiona non sarà più totalizzante, né pretenderà oltre di essere la sede della morale e della sintesi? Si vedrà. Certo, negli ultimi mesi, la figura del «partitogenitore», un po' paternalista ed un po' autoritario, che decide ciò che è bene e ciò che è male, ha lasciato spazio a quella di un «partito-bambino», aperto a tutte le emozioni, disordinato e incoerente. Forse un partitocontenitore che accoglie tutti con l'intenzione di rinnovare, nei modi possibili, un'egemonia antica. O forse solo l'inevitabile tumulto di un tempo di transizione. Poi bisognerà discutere, in modo più convincente ed efficace, di cultura di governo. Per dirla in breve: se un partito è autenticamente riformista quando il programma per cui si batte dall'opposizione è lo stesso che porrà in essere giunto al governo, il Pci non è ancora un partito riformista. Le sue proposte di legge sono state elaborate per discutere, per «fare cultura», per raccogliere proteste e consensi. Ma hanno, quasi tutte, due difetti di fondo: totalmente rimossa è la dimensione relativa al loro costo, normalmente al di sopra delle compatibilità finanziarie frequentabili dalla nostra politica economica, pur nella ovvia consapevolezza che un'alleanza riformista ha priorità diverse da quelle oggi prevalenti; né, d'altra parte, si preoccupano a sufficienza del vasto consenso sociale indispensabile per fare delle riforme. Insomma, se il Pci andasse al governo, dovrebbe cambiare quasi tutte le proposte di legge che esso stesso ha formulato. Ultima, ma forse prima per importanza, la questione istituzionale. Tutti vedono che così non va. In Parlamento e altrove si decide troppo poco. I governi, a tutti i livelli, hanno un alto tasso di precarietà. Il raccordo tra istituzioni e società civile passa sempre attraverso i partiti con pesanti effetti di lottizzazione del potere. In tre intere regioni, e qualche diramazione già s'affaccia in altre, la debolezza delle istituzioni pubbliche sta consegnando larga parte del potere di governo a forti «istituzioni» private che hanno nome mafia, camorra 'ndrangheta. Le conseguenze sono visibili: ci allontaniamo dall'Europa in tutto ciò che è pubblico. Le cause di tale degrado, come si vede, sono molte, ma una, forse, supera le altre: il mancato ricambio della classe di governo, reso dif-
.PJJ, BIANCO il..11,ROS.',O iii•iil•d ficile anche dai meccanismi istituzionali esistenti. Molti segnali - non ultimo il referendum che s'è appena avviato - lasciano capire che i mesi prossimi saranno decisivi. Un po' tutte le forze politiche saranno costrette a rivisitare le loro scelte al fine di trovare un'uscita di sicurezza. Tra queste anche il Pci: che finora troppo ha utilizzato la questione istituzionale come occasione di alleanza con parte della sinistra democristiana o con qualche movimento che opera nel sociale. Immigrati:oltre le polemiche i problemiveri di Franco Bentivogli I 1violento dibattito che si è scatenato nella maggioranza verte in sostanza su un dilemma inesistente: siamo incapaci di bloccare le frontiere? Oppure siamo incapaci di gestire la regolarizzazione degli immigrati extracomunitari? Poiché non è affatto escluso che si sia incapaci a fare entrambe le cose, specie se il clima elettorale continuerà a h.mgo, com'è probabile, è opportuno cominciare subito a consolidare le piccole conquiste che, dall'86 ad oggi, si sono realizzate sul terreno dei diritti degli immigrati. Nello stesso tempo cominciano a fornirci di strumenti nel campo del privatosociale, dell'associazionismo, del volontariato, "mettendolo a rete", come si dice. Cioè coordinato l'intero tessuto degli interventi, aiutandoci reciprocamente nella comprensione del nuovo e cercando di anticipare e di promuovere gli interventi indispensabili. Occorre evitare ogni semplificazione sui problemi della immigrazione. Essa è una realtà nuova e complessa. I problemi che pone sono solo l'inizio di un processo di vasta portata in termini sociali, politici e culturali. Se si riflette su ciò che è accaduto negli ultimi due mesi ci si rende conto come semplicismi, demagogia e opportunismo mostrino rapidamente la corda. La stessa questione del "razzismo" che in Italia non c'era, soprattutto quando non c'erano gli immigrati, va vista prima che sotto il profilo ideologico, soprattutto sotto il profilo dei conflitti di interesse di varia natura che possono insorgere e che del razzismo possono essere il primo gradino, ma che si possono prevenire. Di grande rilievo sono quindi i problemi di governo dei flussi migratori dall'esterno e all'interno del Paese sia per evitare pericolose fratture, sia per rendere possibili forme civili di accoglienza e di inserimento. Nel recente corso, tenuto dalla Cisl al Centro studi di Firenze dal 9 al 13 aprile scorso, per gli immigrati attivi nel sindacato, sono emerse alcune di queste priorità. Nei tre gruppi di lavoro in cui sono stati ripartiti i ventisei partecipanti, il confronto ha posto in testa ad ipotetiche piattaforme due questioni: la formazione linguistica e civica e l'abitazione. I partecipanti al corso hanno tenuto tutti ben presente che il bisogno di un tetto è comune agli immigrati e agli italiani; ed hanno osservato che per chi non ha una famiglia alle spalle il problema non può trovare soluzioni provvisorie e che quindi una soluzione temporanea e misurata sui bisogni reali è quanto mai urgente. Da qui la proposta di utilizzare i 30 miliardi che la legge 39 ha in dotazione per costruire centri di accoglienza, magari prefabbricati per lavoratori soli. Poiché la cifra non è adeguata ai bisogni occorre pensare di rivendicare alle regioni, agli enti locali, ma soprattutto agli imprenditori ed alle loro organizzazioni una partecipazione alle spese.
· icl-lL BIANCO lX11.nosso iiliiihiil Per quanto riguarda la formazione linguistica e civica, è stato giustamente rilevato che la possibilità di comunicare aiuta a superare la diffidenza reciproca; e quindi l'intolleranza e il razzismo. La conoscenza della lingua e delle istituzioni italiane favorisce inoltre la conoscenza delle leggi e la loro corretta interpretazione, oltre che l'inserimento nelle organizzazioni sindacali e nella vita associativa del paese ospitante. Di fronte al problema della residenza, così facile da ottenere in teoria, ma così difficile nella pratica, è stato detto: "La residenza è il primo passo per ottenere i diritti che la legge ci riconosce, a partire dal 1986 (art. 1 della L. 943) e per rivendicare il diritto al voto amministrativo. Ma è importante innanzitutto ottenere l'esercizio effettivo di questi diritti che oggi, legge o non legge, ci vengono negati". Questa frase darebbe da riflettere persino ai contendenti della diatriba sull'utilizzo delle forze armate per guardare le frontiere. Quanti nostri concittadini potrebbero dire la stessa cosa? Quanti diritti negati sono oggetto di rivendicazione legittima, specialmente da parte delle categorie marginali, gli anziani, i portatori di handicap, le donne, i lavoratori costretti al nero? Che tocchi ai lavoratori immigrati, che rappresentano certo l'ultima generazione del sindacato, essere i protagonisti futuri della difesa dei diritti negati e spesso soffocati dalle polemiche di poco conto? Informazionee anti-trust trapluralismoe democrazia di Guglielmo Epifani I nformazione e antitrust è un tema complesso: definisce l'esigenza di un diritto democratico di fondo della nostra società e del nostro tempo, e insieme un mondo di poteri e tecnologie, di prodotti e di mercati, segnato da grandi trasformazioni, grandi velocità e grandi opportunità. Ritenere che il primato della libera iniziativa e del mercato vada assunto come vincolo e parametro a cui tutto vada ricondotto, non è giusto e non è utile: troppo delicato il settore e la sua influenza nell'epoca delle immagini e della informazione. Ma sbagliato è anche pensare il contrario. E che cioè il bene pubblico, i diritti da difendere, richiedano regole rigide, lacci forti, proibizioni e limiti per lo sviluppo. Non è un buon modo di difendere le ragioni della democrazia e del pluralismo farle vivere in contrapposizione con le logiche della tecnologia, del mercato, dello sviluppo. È quindi necessario trovare una linea mediana fatta di molteplici tasti di intervento, di • 6 ■ ·- - - - - - - ~ - - - equilibri di volta in volta possibili, che abbia l'obiettivo di regolare il mercato senza comprimerne le tendenze, di limitare il peso e l'influenza dei trust senza smarrire l'esigenza di una dimensione di impresa in grado di reggere la sfida internazionale, di far vivere il ruolo della presenza pubblica in modo non residuale o semplicemente garantita. Il disegno di legge presentato dal ministro delle Poste, Mammì, rappresentava per molte ragioni una sintesi equilibrata di interessi diversi e diritti da affermare. Si può a ragione osservare che non tutto era convincente in quella impostazione e soprattutto che essa era più mirata a sistemare una partita aperta da anni che a proiettarsi sul futuro. Purtuttavia era necessario porre fine a un sistema senza regole e a una rincorsa tra provvedimenti di legge e processi concreti che finiva per non dare certezze agli imprenditori privati, creava difficoltà alla Rai, divideva le forze politiche. Inoltre, rappresentando un punto di equili-
i.>!I. I\IA NO) l.XII.HOSSO iii•iil•il brio tra i diversi partiti, il disegno di leggeconsentiva di rispondere alla Corte Costituzionale e alle sue sollecitazioni, ridando ruolo al Parlamento e ai suoi poteri sulle materie dell'informazione. Come è noto, il Senato ha approvato quel testo modificandolo in alcune parti, e subito si sono riaperte le polemiche. L'opinione di chi scrive è che le modifiche al testo definiscono una rottura dell'equilibrio che si era raggiunto. Su un punto soprattutto, quello del gettito pubblicitario, risorsa esclusiva dell'emittenza privata, la rottura dell'equilibrio è tale da incidere profondamente sulle dimensioni di impresa, sulle prospettive di sviluppo, sulla vita delle emittenti minori. Una proposta seria ed equilibrata sulle risorse del sistema deve prevedere due scelte: per la Rai, la possibilità di certezze di risorse pubblicitarie su base poliennale, a garanzia di impostazione di bilanci in grado di operare interventi programmati e mirati; per i network privati, limiti attraverso l'affollamento pubblicitario orario e la raccolta delle concessionarie, con esclusione della attività di raccolta all'estero. Altri interventi non servono, se non a deprimere il settore senza dare fiato peraltro all'industria del cinema e dell'audiovisivo. Anche l'interruzione pubblicitaria dei films va ricondotta a criteri di equità. Giusta la salvaguardia di quegli autori e registi che intendono fare valere il principio della integrità della propria opera. Ma giusta anche la prerogativa di fare altrimenti. Non c'è vera responsabilità senza libertà di scelta. Infine, un vero punto critico della legge. Si parla molto di limiti e di tetti alle concentrazioni, di spot e di pubblicità, di libertà e costrizioni, ma poco di difesa della risorsa prof essionale del lavoro e di democratizzazione del1'impresa di comunicazione. Può esservi una scelta di difesa del pluralismo e della democrazia, nel settore dell'informazione, senza una promozione anche legislativa dei diritti e dei poteri dei lavoratori che vi operano? I sindacati confederali ritengono di no e avanzeranno una proposta per ridare al lavoro e alle sue prerogative il giusto ruolo in questa discussione. Contratti: pubblico e privato a confronto di Silvano Veronese Non c'è dubbio che negli ultimi anni è venuta crescendo in Italia e si è imposta all'opinione pubblica, almeno a partire dall'ultima chiusura della "vertenza scuola", una "questione salariale", ovviamente in termini nuovi che rispecchiano le contraddizioni sociali degli anni '90. Gli inizi degli anni '80 sono stati per i lavoratori dipendenti anni di compressione salariale, dovuti sia a politiche di controllo dei bilanci pubblici che alle forti ristrutturazioni in atto nei settori industriali. La ripresa economica, che mostra di avere un "fiato" più lungo delle più ottimistiche previsioni, ha consentito una crescita notevole di ricchezza per il Paese, facendo riemergere con forza il problema di una sua ridistribuzione da utili e da rendite, come è stato finora, a reddito per i lavoratori dipendenti. E dunque il sindacato, che - ricordiamolo - è stato tra i protagonisti del risanamento economico, torna a rivendicare consistenti aumenti salariali. Nello stesso tempo si sta, però, verificando un nuovo paradosso. Si può certamente affermare che molto della crescita economica è dovuto all'apporto dell'industria, dell'agricoltura e dei servizi per la produzione. Questo pur nella convinzione che, nell'at- : 7 '
~-lJ,BIAl\CO U-11, HOSSO Ui•iil•P tuale organizzazione della società una buona "vivibilità" e qualità della vita può essere garantita solo dall'efficienza dei servizi offerti ai cittadini. Ora il paradosso è costituito dal fatto che il recupero salariale si sta mostrando molto più difficile per i "produttori" di ricchezza che non per i "produttori" di servizi pubblici, peraltro di non elevata qualità. Difatti pur tenendo conto che gli aumenti nel pubblico impiego sono comprensivi di tutte le voci (rivalutazione dell'anzianità, salario di produttività e accessorio ecc.) e che non esiste una contrattazione salariale articolata, c'è da rilevare che: a) la struttura salariale dei dipendenti pubblici è molto più condizionata dagli automatismi (anzianità ecc.); b) spesso intervengono "leggine" o sentenze dei Tar, su ricorso individuale dei dipendenti, che causano aumenti per gruppi particolari di lavoratori o per particolari figure professionali, con un "effetto domino" a favore di altri gruppi di lavoratori e con pesanti riflessi sia sulla spesa pubblica che sulla autorevolezza delle organizzazioni sindacali confederali. Inoltre gli ultimi contratti di comparto sono stati rinnovati con notevoli benefici economici. Né fa eccezione quello riguardante la sanità, firmato pochi giorni fa, anche se non sembra che abbia trovato il consenso di tutte le variegate professionalità che vi operano. Per questo non meraviglia che le rilevazioni statistiche sugli incrementi retributivi vedano le categorie del pubblico impiego ai primi posti (ovviamente non tutte sono ''relativamente privilegiate": il "Rapporto Camiti" ne ha ben messo in evidenza la giungla esistente anche tra i pubblici dipendenti). Non a caso l'ultimo Bollettino Economico della Banca d'Italia può concludere: " ... Nell'ipotesi che gli aumenti concessi negli accordi siglati nel 1989 si estendano ai comparti ancora in attesa del rinnovo, per l'anno in corso l'incremento delle retribuzioni di competenza per dipendente nel settore pubblico dovrebbe collocarsi intorno al 9 per cento". Dall'altro lato per la maggior parte dei lavoratori del settore privato, nonostante lo straordinario aumento di produttività realizzato (e costato la perdita di un notevole numero di posti di lavoro, soprattutto nella grande industria) e una ripresa della contrattazione articolata, i risultati economici non promettono di essere altrettanto soddisfacenti. Gli obiettivi minimi che dovrebbero essere raggiunti con il rinnovo dei contratti nazionali sono i seguenti: 1) un recupero del potere di acquisto per tutti i lavoratori; 2) una distribuzione delle erogazioni salariali che difenda e, se possibile, premi la professionalità e la responsabilità; 3) una limitazione del potere erogatorio unilaterale che hanno oggi le aziende e ché è stato da queste abbondantemente usato negli scorsi anni (vedi ultimo Rapporto Asap sui salari). La partita si sta dimostrando dura e difficile: lo testimoniano le vicende del ceni turismo e dei cartai e, recentissimamente, quelle dei chimici, ma soprattutto dei metalmeccanici. Il rischio, non peregrino, è quello di avere un'estate - quella dei Mondiali di calcio - non proprio tranquilla. Minatori in sciopero, Parigi 1935.
,P.tt BIANCO '-XltROS.SO iiiiiil•P Questo è, in estrema sintesi, il quadro di insieme, sul quale però è necessario innestare una nostra riflessione. Una domanda va fatta al movimento sindacale confederale nel suo insieme: siamo in grado di riproporre una strategia che sia veramente efficace e che sappia ridare risposte concrete sia ai problemi della solidarietà sia alla diversificazione crescente delle esigenze che affiorano nel mondo del lavoro? Vogliamo scegliere di pagare bene il lavoro manuale e non rassegnarci a farlo coprire, in maniera massiccia, dalla immigrazione, clandestina o no che sia? Vogliamo batterci per condizioni di lavoro (ambiente, ritmi, ecc.) che non facciano crescere anche in Italia tante piccole "apartheid" o "reparti confino", che tanto sono i "neri" quelli che ci vanno? Vogliamo tornare a pagare bene un lavoro prof essionalizzato e con maggiori responsabilità, sottraendolo ai vincoli della pura e semplice subordinazione gerarchica? Vogliamo riequilibrare diritti e doveri dei lavoratori dell'industria, dell'agricoltura, dei servizi e del pubblico impiego, sapendo ad esempio che per questi ultimi non basterà il togliere l'ingessatura della dipendenza dalla legge? Vogliamo batterci per aiutare quelle forze già oggi presenti nel pubblico impiego e che sono disponibili a battersi per il riscatto del proprio lavoro da un mercato politico, che ha più di mira le scadenze elettorali che non le esigenze dei cittadini? Solo una progettualità ampia e una convergenza di Cgil Cisl e Uil su questi terreni potranno dare una sufficiente autorevolezza per un ristabilimento di valori all'interno del sempre più complesso mondo del lavoro. Intanto sarebbe bene partire da questa constatazione: nella stagione contrattuale in corso come confederazioni abbiamo esercitato assai scarsamente o per niente il nostro dirittodovere di coordinamento complessivo delle rivendicazioni. Non sarebbe male se, a chiusura dell'attuale fase di contrattazione riuscissimo ad avviare, come Cgil Cisl e Uil, una comune e seria riflessione. La Chiesa cattolica e l'Est europeo di Giovanni Gennari <<A ll'Est ha vinto Dio5>. Così ha detto, qualche settimana fa, Giovanni Paolo Il, e molti in Italia hanno storto la bocca. È difficile, infatti, valutare la forza di verità di questa frase se non si ha chiaramente di fronte cosa è davvero successo all'Est, in Urss da 70 anni, e negli altri paesi da circa 45, per quanto riguarda la libertà delle chiese e dei credenti. Scrivo queste righe mentre la Tv mostra la immagini del trionfo di papa Wojtyla a Praga, accanto al novantenne cardinale Frautisek Tomasek, di fronte al presidente Vaklav Havel e ad un milione di cecoslovacchi in piazza. In Cecoslovacchia, fino a tre mesi fa, c'era- : 9 no solo tre vescovi per 13 diocesi, tutti di età avanzata. Tutti gli ordini religiosi maschili e femminili erano stati soppressi di colpo, in una notte del 1948. Tutti i seminari chiusi. Poi ne era stato riaperto uno, ma sotto il controllo e l'arbitrio totale della polizia politica, e i seminaristi, scelti da questa, erano costretti a studiare obbligatoriamente il marxismoleninismo come unica visione scientifica del mondo. Migliaia di preti e suore, e centinaia di migliaia di credenti avevano conosciuto carcere e lavori forzati, emarginazione e lager. Vescovi e preti erano morti in carcere, alcuni certamente torturati e uccisi. Un cittadino apertamente e pubblicamente credente non poteva
B ~-li. BIANCO lXll.llOSSO iii•iil•P frequentare licei e università, né fare il giornalista, o il medico, o l'ingegnere, né insegnare in una scuola, o dirigere un'azienda. Migliaia di chiese e conventi erano stati chiusi, e spesso distrutti. Oggi tutto questo è passato. Nel discorso al papa, Havel ha parlato di un «doppio miracolo», quello del papa a Praga e quello di uno come lui, dissidente e fino a sei mesi fa in carcere, oggi presidente della Repubblica, e senza che in mezzo, per recuperare la libertà di tutti, dopo il tanto sangue versato da una violenza durata 40 anni, sia stato necessario versarne neppure una goccia. E la Cecoslovacchia è stata solo uno dei punti caldi dell'Est europeo: dovunque il sistema è stato lo stesso, la violenza e il sangue sono stati pane di ogni giorno, anche se in misura diversa, con risultati analoghi in ogni paese. Oggi il "miracolo" cecoslovacco assume così le dimensioni di un simbolo di qualcosa di più ampio, i cui effetti già si sentono a Mosca come a Varsavia, a Bucarest come a Sofia, a Berlino come a Dresda. È di queste ore l'annuncio della futura visita del papa a Cuba, dove "perestroika" è ancora una parola proibita. E Pechino e Tirana tacciono ... Per quanto ancora? Non spetta a noi, qui, stabilire la parte di Dio, vera o presunta, in questa vittoria, ma è sicuro che per quanto riguarda gli uomini un grande ruolo lo ha avuto Karol Wojtyla, il quale ha messo in moto un meccanismo che in pochi anni ha prodotto lo sconvolgimento totale del panorama dell'Est, provocando e in qualche modo suscitando un altro protagonista venuto dal freddo, e poi risultato assolutamente decisivo, Mikhail Gorbaciov. Si è parlato tanto, e giustamente, della Ostpolitik vaticana, che ufficialmente ha quasi 30 anni. I "contatti" tra Urss e Vaticano sono cominciati addirittura nel 1921. Giovanni XXIII ha certamente segnato una svolta, con l'udienza concessa nel 1963 al genero di Krusciov, Alexey Adjubei. La sapienza diplomatica del cardinale Casaroli e la consumata prudenza di Andrej Gromiko hanno giocato il loro ruolo, ma il gioco sottile degli incontri riservati, dei carteggi diplomatici, delle commissioni bilaterali non ha mai spaventato le potenze e le prepotenze, e avrebbe potuto continuare per altri duecento anni, mentre nella realtà cruda della vita vescovi, preti, credenti, erano discriminati, emarginati, carcerati, ridotti al nulla. Il "ciclone Wojtyla" è stato decisivo: questo papa ha conosciuto, al di là di tutte le parole e di tutte le propagande, il volto di ferro del comunismo al potere, dopo aver visto e combattuto quello del nazismo, ed ha agito di conseguenza: ha dato fiducia alla forza umana della ragione e dei sentimenti di popoli interi, con una scelta non violenta, ma più forte di tutte le armi. Mikhail Gorbaciov ha certamente avvertito, da uomo intelligente ed esperto, che uno dei fattori più decisivi, forse quello più irriducibile, dei fallimenti ripetuti, morali e materiali, del "socialismo realizzato", era l'impossibilità di ottenere la collaborazione degli uomini cui si era tolta la libertà di parlare e pregare, di scrivere e di circolare, di rivolgersi agli altri uomini e anche a Dio. Non è inverosimile pensare che qualcuno ad Est, nei primi anni '80, abbia cercato davvero di eliminare questo scomodo vescovo di Roma, portatore presente e futuro di così grande scompiglio. Senza Giovanni Paolo II non ci sarebbe stata, di certo, la vicenda polacca di questi dieci anni: davanti agli occhi di tutto il mondo la classe operaia di una intera nazione si è appoggiata alla forza sociale e morale della chiesa cattolica, con l'implicazione diretta della Santa Sede, per riformare, correggere e rovesciare un sistema sociale e politico che non aveva scelto e non aveva mai accettato. Ma non basta. È difficile pensare che senza Giovanni Paolo II ci sarebbe stato allo stesso modo Gorbaciov con la sua perestroika. Il collasso dell'impero sovietico multinazionale e multietnico è partito, certamente, dai fallimenti economici e politici dei decenni scorsi, ma anche dalla sperimentata insostenibilità di un potere messo continuamente in questione dalla gente che non voleva rinunciare a Dio, o anche solo alla libertà interiore pur senza un nome esplicitamente divino. La Polonia è stato l'anticipo visibile del rigetto globale di un sistema imposto, che ha prodotto lentamente lo sgretolamento generale, e la religione è stata fattore decisivo. In tutti i paesi dell'Est l'atto finale del regime è cominciato con fatti attinenti anche alla sfera religiosa, dal pastore protestante rumeno di Timisoara alle riunioni giovanili nelle chiese luterane di Berlino Est e Lipsia. Le chiese sono cosi venute a trovarsi, dopo decenni di resistenza senza resa, al centro delle speranze della gente oppressa. Il sistema che
{)li. BIANCO lX_ll. llOS..',O iiliiiiid divinizzava il partito unico, e cancellava la società nelle sue articolazioni, ha dato di fatto alle chiese la rappresentanza unica dell'opposizione maggioritaria. Ciò è stato visibilissimo in Polonia, dove di fronte allo Stato per decenni è rimasta solo la chiesa cattolica, ma è avvenuto anche altrove. Ecco uno dei perché, forse il primo, delle vittorie elettorali, presenti e future, nei paesi dell'Est, di chi in qualche modo si richiama al cristianesimo, ed ecco uno dei perché delle difficoltà politiche ed elettorali di chi si presenta con il nome di socialismo, screditatissimo sul luogo da 40 anni di realtà più forte di tutti i proclami e promesse. In Germania Orientale persino il raggruppamento "democratico cristiano", già esistente da trenta anni, creatura del regime e spesso solo composto da gente compromessa e docile, ha avuto successo alle recenti elezioni, pur con l'aiuto decisivo della Cdu occidentale e con la promessa ingannevole e persuasiva del marco alla pari. Il riuovo partito socialdemocratico, vicino sul serio alla Spd occidentale, è stato danneggiato sul campo dal semplice fatto che il vecchio partito comunista, al potere da 45 anni, si chiamava "Unione socialista tedesca". È tuttavia certo che ora si è voltata una pagina della storia. Comincia un'era nuova per la chiesa, e per le chiese, nei paesi dell'Est. SoDanzica. Estate 1980. : 11 no in molti a pensare, e a dire, che il compito che ora le attende non è certo più facile di quello, pesantissimo, svolto finora. La sconfitta del sistema comunista, e dell'ateismo imposto come ideologia obbligatoria, può significare per le chiese la perdita del ruolo e del carisma di unica opposizione sociale visibile e stabile. Sarà interessante verificare quanti di coloro che per 40 anni hanno visto in esse, perseguitate ma indomabili, la difesa dei loro diritti più veri, continueranno a rivolgersi ad esse, non più sotto l'attacco dell'ateismo di regime, ma esposte al rischio pieno della libertà, minacciate dall'egoismo, dal consumismo in arrivo, dalla logica della competizione per avere di più, dall'appagamento per la conquista delle libertà civili. È certo, in ogni caso, che la chiesa cattolica si è preparata con cura a questo momento, e che sta affrontando con grande prontezza le diverse situazioni che le si presentano nei vari paesi. È paradossale che proprio in Urss, oggi, la situazione delle chiese, e quella della chiesa cattolica in particolare, sia ancora la più difficile e contrastata. Ufficialmente l'Urss è ancora un paese ateo, con un partito unico ateo, con una Costituzione che impone l'ateismo obbligatorio. Una nuova legge sui culti e sulla libertà religiosa, promessa da anni, è ancora in cantiere, e tutto ciò che non è solo culto all'interno delle chiese è ufficialmente ancora fuori legge. Per la chiesa ortodossa, di fatto, si può aprire una nuova era di libertà piena e di riconquista, che ha avuto il simbolo nella recente celebrazione del "Millennio della fede". Ma la situazione della chiesa cattolica è molto variegata e complessa. In Lituania, a grande maggioranza cattolica, c'è la questione bruciante dell'indipendenza nazionale. La chiesa è libera, oggi, ma ufficialmente gli ordini religiosi ancora non esistono, e i gesuiti, i salesiani, i francescani, non possono vestire il loro abito. Sono tornati in molti, dall'estero, ma lavorano senza statuti. È una preparazione in grande stile: una volta risolta la questione nazionale, e i rapporti con Mosca, il problema che si porrà sarà quello che oggi si pone, in Occidente, a tutte le chiese libere. In Bielorussia e in Ucraina c'è la spinosa questione dei cattolici di rito greco, che vivono accanto a quelli di rito latino, per lo più di origine polacca. In Bielorussia, in buona parte molto affine alla Polonia, è già iniziato un grande afflusso di sacerdoti polacchi, che dovranno ricomin-
i.)-lJ. BIANCO lXll,ROSSO iii•iil•U ciare dal nulla l'attività pastorale. Tutto è ancora da costruire. In Ucraina quattro milioni di cattolici di rito greco sono stati incorporati a forza, nel 1946, da Stalin, nella chiesa ortodossa di Mosca, ma non si sono mai piegati, e oggi vogliono recuperare piena libertà. In questi decenni si è realizzata una vera e propria chiesa delle catacombe, con decine di vescovi e centinaia di preti in prigione, parecchi uccisi, migliaia e migliaia di credenti perseguitati. E oggi non è solo una questione di anime: sono in ballo migliaia di edifici, chiese, seminari, scuole, conventi. È il problema più grosso nei rapporti tra Urss e Santa Sede, anche perchè in mezzo c'è il Patriarcato di Mosca che non vorrebbe cedere, mentre il Cremlino vorrebbe chiudere in fretta questo contenzioso. L'ortodossia teme anche il proselitismo cattolico animato dallo spirito del papa polacco, testimone di una resistenza aperta al regime ateo che non sempre è stata prerogativa, invece, del Patriarcato di Mosca. La situazione della chiesa in Polonia è nota: essa ha per decenni, da sola, rappresentato la nazione intera e la società polacca. Poi è arrivato Solidarnosc, con l'appoggio e la presenza potente e simbolica di Roma, e tutto è cambiato. Oggi il comunismo non esiste più, e i problemi che ha creato sono tutti sulle spalle dei governanti, in gran parte cattolici, e della gente. Forse per la chiesa i tempi difficili cominciano ora. In Ungheria e in Cecoslovacchia la precedente legislazione antireligiosa è stata anche ufficialmente spazzata via. Gli ordini religiosi sono di nuovo legali. A Budapest già 58 ordini religiosi maschili si sono riorganizzati e un vescovo, il carmelitano Nàndor Takacs, è stato nominato coordinatore di tutte le loro attività. Prima della presa del potere dei comunisti gli ordini religiosi maschili, in Ungheria, erano 66, ed avevano 12.000 membri. Oggi i numeri sono molto lontani dalle cifre di allora: 120 benedettini (erano 350), 170 francescani (erano 600), 32 carmelitani (erano 107), 72 gesuiti (erano 300) e così via. I beni confiscati non si sa dove siano andati a finire, gli stabili verranno restituiti, salvo i casi in cui il loro uso attuale rende regionevole il contrario: il convento di Miskolc è una casa per anziani, la curia dei gesuiti a Budapest è una caserma, quella dei Verbiti è un ospedale per bambini. Sono problemi concreti, e ci vorrà tempo per affrontarli e risolverli tutti, ma la realtà oggi : 12 cammina più in fretta di quanto non si sia mai potuto pensare. In Cecoslovacchia è subito scomparsa nel nulla l'associazione di preti e religiosi vicina al regime, chiamata "Pacem in Terris", e sono venuti alla luce i numerosi clandestini che per anni avevano lavorato di nascosto, spesso rischiando la prigione e la stessa vita. Si è saputo che quasi tutti gli ordini religiosi avevano noviziati e comunità clandestine: sono venuti fuori, cosi, 90 nuovi salesiani slovacchi e 70 gesuiti boemi, 30 redentoristi, 40 verbiti e altrettanti francescani, 50 cappuccinsi e così via. Ma l'età media è alta, oltre i 60 anni, e i problemi veri cominciano ora. In Bulgaria e Romania le leggi antireligiose sono ancora ufficialmente in vigore: la Chiesa non ha riconoscimento giuridico, è tollerata senza alcuna garanzia legale. I cattolici, del resto, sono piccola minoranza, e l'età dei pochi preti sopravvissuti ai massacri e alle persecuzioni è molto alta. Un esempio: in Bulgaria 40 anni fa c'erano 50 cappuccini, ora sono soltanto in quattro. Difficile, in conclusiosne, una previsione univoca e chiara. Certo: alla religione di chiesa, e alla chiesa cattolica in particolare, si apre oggi all'Est una sconfinata promessa di attività libera, di rinascita spirituale, di espansione religiosa. Ma si apre anche, e Giovanni Paolo II dimostra di averlo chiarissimo davanti agli occhi, la prospettiva di una pura e semplice conquista mercantile da parte delle società occidentali· secolarizzate. Come dovrà attrezzarsi ora la Chiesa, vittoriosa nei fatti sul sistema dell'ateismo marxista fatto dittatura, per resistere e restare viva nel confronto con il consumismo, l'individualismo, la competitività esasperata, la riduzione dell'uomo a merce e della donna a oggetto del possesso maschile? Che tipo di clero sarà in condizioni non più e non solo di resistere al regime ateo oppressivo, ma di evangelizzare nella libertà, di tradurne il messaggio del Vangelo per gli uomini di oggi? Una risposta potrà venire solo dai prossimi anni, e l'entusiasmo trionfale di queste settimane non deve indurre a facili illusioni. Il primo a non nutrirle, in verità, proprio stando a quanto ha detto nei discorsi in Cecoslovacchia, è lo stesso Giovanni Paolo II, che fa appello alla speranza, certo, ma senza ottimismi e senza voli pindarici. La storia europea è, da sempre, per tutti maestra di prudenza. Ciò vale anche per i papi moderni.
"JJ. BIAI\CO lX11.nosso liM•ii•iit Un medico per gli zingari di Augusta Bovo D al gennaio 1989 sono il medico degli zingari di Roma. Ogni giorno con un camper adibito ad ambulatorio, guidato da un autista, visito a turno i 17 campi sosta dei nomadi, abitati da Khorakané, Rudari, Karjarja, Kalderasa. Il camper è attrezzato di tutto punto per la medicina di prima necessità. Non si tratta però di un'ambulanza: è il Centro Sanitario Mobile che la Caritas diocesana di Roma ha allestito con i finanziamenti della Regione Lazio, per gli zingari, nomadi e stanziali, presenti Sl,11 territorio della capitale: circa 5000 persone ti-a adulti, anziani e bambini. L'obiettivo principale di questo lavoro è di tipo epidemiologico: i Rom hanno un'assistenza sanitaria limitata ai casi sporadici e personali, ma cieca sui problemi della popolazione, sia perché, come nomadi, non sono legati ad alcuna Usl, sia perché spesso non forniscono generalità precise. La letteratura medica al riguardo è molto carente di dati relativi anche alle informazioni più banali e ovvie inerenti la vita di un popolo che per la sua stessa connotazione storica sfugge ad ogni controllo statistico. È già un problema distinguere le varie famiglie nel variopinto gioco dei legami interparentali, racchiusi in una configurazione patriarcale a piramide, complicata a sua volta da rapporti non solo di sangue - delle famiglie allargate che, insieme, compongono la società zingara. Il Centro Medico Mobile è invece uno strumento tempestivo ed efficace nella conoscenza sanitaria della popolazione perché, potendo seguire i campi ed essendo presente negli spostamenti e avendo del resto noi stabilito un rapporto di fiducia tale per cui ci forniscono senza remore la loro identità, si possono eseguire degli studi epidemiologici riuscendo in un lavoro assolutamente originale che mira ad identificare le patologie per cui sono più a rischio, per poi mettere in atto terapie adeguate. Le patologie prese in considerazione in questo lavoro sono: la lue, la lebbra, l' Aids e il gruppo Torch, ed è in atto uno screening di massa sulla malnutrizione infantile. Le drammatiche situazioni di questo popolo, che vive spesso di espedienti ai margini della città e della vita quotidiana, in condizioni igienico sanitarie inimmaginabili ed indegne, rendono continuamente necessari interventi medici di prima necessità. Mi rendo conto adesso, a distanza di un anno, che il grosso sforzo è stato non solo il lavoro di medico, ma anche il continuo aggiustamento, nella mia testa, della mia logica, rispetto alla loro. A poco a poco ho percepito che il popolo Rom, al contrario di ciò che si crede comunemente non vede in modo "diverso" il nostro mondo, ma vede un mondo diverso dal nostro, e compiuto, non migliorabile dalla società "yaya", cioè da noi, da cui anzi deve essere difeso. Ho così attenuato e adeguato molti atteggiamenti: la posizione del Camper all'interno di un campo, per esempio, non è un fatto casuale; anche per fare un semplice prelievo di sangue ho dovuto fornire montagne di spiegazioni e giurare sul mio onore che non me lo sarei venduto; ho dovuto rispettare le loro precedenze nelle file dei pazienti, precedenze che rispecchino sempre la loro scala gerarchica, e non, ad esempio, il maggiore stato di necessità delle persone. In sintesi, mi è sempre più chiaro di dover essere un "contenitore", per lasciare più spazio possibile ai loro comportamenti, alla loro realtà, ai loro desideri, alla loro forma mentis.
{)jl. BI.\\CO ~11.llOSSO Ht•#hliJ Pci: quale ''cosa'' per una sinistradi governo? Questo Dossier: la nostra associazione è molto attenta all'evoluzione del Pci, e vede con grande interesse il cammino della «cosa» che ha cominciato a delinearsi dalla proposta di Achille Occhetto al recente Congresso del Pci. Perciò abbiamo dedicato questo Dossier all'argomento. È un contributo, anche critico, e dall'esterno, alla comprensione di ciò che è stato, è, e soprattutto può essere il cammino di questo grande partito della sinistra italiana. La nostra prospettiva, lo abbiamo detto fino dal manifesto programmatico della nostra associazione, è quella di un futuro politico diverso, che renda possibile una vera alternanza di governo in questo paese in cui i problemi incancreniscono ogni giorno di più. Chiudiamo il numero alla vigilia delle elezioni del 6 maggio, e nessuno di noi è «profeta», né <<figliodi profeti», ma sappiamo che laforza dei numeri si esercita su tutti, e che in democrazia, in ultima analisi, il pallino è, e deve restare, in mano agli elettori. Queste nostre riflessioni, diversissime per contenuti e per itinerario intellettuale epolitico di chi le ha scritte, vogliono essere un contributo reale alla conoscenza e alla soluzione dei problemi considerati, in vista di una vera sinistra, di riforme e di governo. Dall'intervento di Giuliano Ferrara a quello di Claudio Martelli ci pare che questo sia il <<filorosso» del Dossier. Così lo offriamo ai lettori. (g.g.) Pci: l'opportunitànuova rischi della ''cosa'' • e 1 occhettiana I l rinnovamento radicale del Pci, arrivato ormai alla soglia dell'autonegazione senza rinnegamento, corre seri rischi. Il principale tra questi è la disseminazione, o meglio la frammentazione di una consistente forza politica in cento schegge ideologiche, filosofiche, culturali. Il vecchio corpo terzinternazionalista, un mostro a guardarlo dall'interno, aveva tuttavia una sua nobiltà nel diniego sottile opposto ad ogni lusinga secolarizzante. La cortina di Giuliano Ferrara di ferro, soprattutto quella che a Togliatti riuscì di inguantare in una specie di sipario purpureo, era un riparo dalla stupidità, dal provincialismo, dalla corrività. Ora anche il Pci ex comunista è un organismo esposto alle folate di genericità, di indistinzione, di fiacca praticoneria che minacciano da sempre tutti gli altri partiti. È il rovescio della medaglia, il prezzo da pagare. Ma bisogna che sia un prezzo contenuto, e per questo è asso- ■ I~ .. -· - ---- - - - - -- lutamente indispensabile che il Pci ex comunista si incontri al più presto con le virtù risanatrici della politica, senza più indugiare in ozi descrittivi, alla caccia di questo o quel tratto pertinente della Cosa. I partiti che hanno un senso e che funzionano, producendo cioè quella specifica forma di moralità civile che è la politica, non sono maschere di teatro in attesa d'autore né vaste scenografie da ammirare stupefatti; sono, più efficacemente e mode-
stamente, macchine per l'azione politica o attori dell'azione politica ricchi di energia e di voce. Il partito di Occhetto deve cercarsi al più presto un posto in palcoscenico e fare la sua recita. Il resto c'è già e lo ha scritto la storia italiana di questo dopoguerra. Il comunismo togliattiano da cui i comunisti del congresso di Bologna hanno deciso di liberarsi, liberandosi per coerenza dai residui impedimenti ed equivoci nominalistici, è stata la forma istituzionale di un'opposizione politica che ha legittimato il governo della Dc dal 18 aprile del '48 ad oggi. Occhetto ha un solo vero problema, se vuol fare politica altrove che nei congressi e nei seminari delle Frattocchie: dimostrare che è possibile riciclare quella forza grande o immobile, di opposizione e insieme di incardinamento della Dc al governo, trasformando il nuovo partito da costruire in un veicolo di solidi valori e di idee politiche nuove, capaci di fondere la realtà e l'urgenza di una alternativa. i.)JI. 81.-\'.'\ICO lXII. ROS..~O Ut•ihld Qui interviene il problema vero dei rapporti tra ex comunisti e socialisti autonomisti. Per anni ci siamo abituati a questo schema mentale. L'alternativa non si fa perché Craxi non la vuole, perché i vantaggi di una coabitazione competitiva con la Dc, in un solido orizzonte di centro-sinistra, sono ineguagliabili. È Craxi che potrebbe scegliere e non sceglie, preferendo mangiarsi la rendita di posizione che gli deriva dalla centralità politica del suo nuovo corso socialista. Al Pci veniva attribuito un alternativismo spontaneo, naturale. Sì, certo, c'era stata la lunga fase del compromesso storico, però era o non era il Pci il vero interlocutore d'opposizione della Dc? Converrà a questo punto rovesciare tutto il ragionamento, e con esso l'ordine delle priorità. Occhetto, denunciando il consociativismo e la sua ideologia nel Comitato centrale del novembre 1988, ha dato inizio alla sua personale perestroika. Poi, con la spaccatura sulla questione del nome e della nuova forza politica, ha reso irreversibile l'autoriforma. Ma con questo ha svelato quale fosse la verità dei rapporti a sinistra. Non Craxi ma il Pci doveva scegliere l'alternativa. Il progetto dei socialisti prevede geometricamente, come un punto obbligato nello spazio piano della politica, l'alternativa, il ricambio laico-socialista, liberale, riformista. È nelle convenienze strutturali di una forza come il Psi, l'alternativa, più ancora e prima ancora che negli intendimenti della sua classe dirigente. Era invece il Pci che doveva prepararsi davvero al salto del fossato dal consociativismo costituzionale a quella determinata forma dell'alternativa che è una nuova repubblica. Ecco. La novità apportata dal rinnovamento comunista è l'annuncio che quella preparazione è finita, e si può cominciare a giocare la partita. E le accoglienze riservate da Craxi alla svolta mostrano come l'immobilità italiana si sia rimessa paradossalmente in movimento. Se non è troppo tardi. Si può riconvertire il partito di massa? B asta sbaraccare la monocultura politica per risolvere il problema della burocrazia, cioè della monocultura organizzativa? Non mi pare possa essere di qualche utilità al Pci nessuna delle esperienze socialdemocratiche. Il governo monocratico, legittimato dall'elezione diretta del segretario da parte del congresso, non è servito a trasformare il Psi in un partito leggero, d'opinione né dei club e dei movimenti. Nella spartizione del potere pubblico locale il ceto burocratico (per lo più controfigure dei parlamentari, che detengono il controllo dei principali pacchetti di tessere) continua ad essere un di Salvatore Sechi asso decisivo. Anche per designare i candidati con più chances per le assemblee elettive di livello inferiore. Qualcosa di simile si può rilevare nel partito socialista francese dove la recente lotta sorda, al congresso di Rennes, tra i "colonnelli" di Mitterrand non ha avuto nulla dello scontro di idee, e molto della guerra tra clan. Tale degenerazione è connessa alla scelta delle candidature per le prossime elezioni presidenziali e, quindi, alla necessità di conquistare la guida del partito che ha titolo per fare le designazioni. All'estrema leggerezza, rispetto al Psi, del Psf (circa 150.000 iscritti) corrisponde un'estrema pesantezza della burocrazia a cui spettano le prerogative decisionali, cioè il potere di proporre i candidati "presidenziali". Oggi anche il Pci è un partito diviso in correnti rigorosamente costituzionalizzate. Si tratta di un regime transitorio, destinato cioè a finire quando dalla fase costituente verrà fuori una nuova formazione? Chi lo pensa si illude sul carattere revocabile, storicamente determinato, delle strutture organizzative. Esse hanno il compito di preservare il potere degli attuali titolari di posizioni di dominio sulla macchina (che è tuttuno col governo) del partito. Mi pare probabile che la fisiologica
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