.L)_(J, BIANCO 0-11, HOS..'",O iii•iil•P bande solo in apparenza raccogliticce, la proterva affermazione dei minorenni arrestati, che sembrano di primo acchito essere stati opportunamente imbeccati e criminalmente istruiti, non possono più lasciare dubbi. Ancora poco più di due anni fa, i soprusi subiti in un autobus romano da una signora nera potevano essere ridotti e interpretati come mala creanza. Era questa l'interpretazione data da me e dal compianto Cesare Musatti. C'era, naturalmente, la discriminazione - una discriminazione a sfondo razziale in quanto subita da una persona di colore - ma la stessa casualità del fatto ci spingeva a far rientrare l'episodio in un quadro di costume più che di consapevole razzismo o di deliberato conflitto etnico. Questo riduttivismo, oggi, sia pure nell'intento di sdrammatizzare, non è più sostenibile, rischia di favorire i criminali. È stato un brusco risveglio. Un popolo abituato per generazioni a esportare propria manodopera - la carne fresca dei più giovani, costretti ad emigrare per sfuggire, per sé e per le loro famiglie, alla fame cronica e alle angustie della povertà endemica - si rivela oggi profondamente nemico, insofferente e irritato fino alla violenza, progettata e nello stesso tempo gratuita, contro i lavoratori immigrati di colore. Vien subito da pensare che dietro ai fatti di Firenze, così come dietro a certe manifestazioni di pseudo-spirito sportivo, si nasconda un progetto politico, una volontà precisa che persegue un disegno articolato e rigorosamente calcolato in ogni sua fase. Non siamo in Francia e neppure in Germania. Non abbiamo un Le Pen - non ancora. Nel mio libro Oltre il razzismo - verso la società multirazziale e multiculturale (Armando editore, 1988), avevo citato esempi e testimonianze del neofascismo francese, che ha trovato le sue fortune elettorali fra i "pieds noirs", in centri operai (!) come Marsiglia (che ne penserà l'ombra del socialista Gaston Defferre, per decenni sindaco popolarissimo del grande porto mediterraneo?), a Tolone, fra gli epigoni del1' Action Française di Charles Maurras, oggi raccolti sotto le bandiere del «Fronte nazionale» di Jean-Marie Le Pen. Notavo in quel libro che il 20 per cento ottenuto da Le Pen a Tolone, e battuto solo dal voto sorprendentemente plebiscitario di Marsiglia, aveva dato una sorta di colpo di sprone a quanti manifestano l'orgoglio del «français pur», specialmente se reduce o nostalgico di avventure coloniali co- - ------------ ~ 6 me l'Indocina e l'Algeria, l'Organisation de l'Armée secrète, e così via. Lasciamo stare, poi, la situazione tedesca con i turchi, e quella inglese, con i «cittadini» provenienti dagli exDominions della Corona. Ciò che mi ha da ultimo colpito in Italia è stata la superba confessione, quasi l'autoincriminazione dei giovani teppisti fiorentini. So bene che c'è tutta una tradizione, non solo letteraria, di «maledetti toscani» e di «Italia barbara» - una tradizione che non basteranno certamente le belle parole di Spadolini a cancellare. So anche che a Roma, non molto tempo fa, a Tor Bellamonaca si sono verificati episodi, penosi, di lotte fra poveri. Gli abitanti della borgata si erano sollevati contro l'idea di attrezzare i campi dei nomadi, degli «zingari». Mi domando alla luce di questi fatti che cosa significhi il programma dell'on. Pino Rauti, appena eletto segretario nazionale del MSI, quando si ripromette uno «sfondamento a sinistra». Che cosa ha in mente? Intende organizzare i «lazzaroni del re»? Vuole esacerbare le insicurezze e le frustrazioni dei poveri indigeni, alimentarne sapientemente l'irrazionale timore di venire scavalcati dai poveri di colore, scatenare una guerra fratricida fra miserabili, lucrando elettoralmente sulle paure dell'eterno grigio e gretto mondo dei benpensanti italiani? Bisognerà lasciar cadere ogni atteggiamento di supponenza, quale quello messo sorprendentemente in luce dall'on. Laura Balbo (in Democrazia e diritto, n. 6, novembre-dicembre 1989). C'è da inventarsi tutta una politica: dal controllo efficace delle frontiere alle questioni, spinosissime, della convivenza con culture diverse - culture che vogliono dire lingue, cucine, religioni, strutture familiari e abitudini quotidiane spesso completamente estranee, incomprensibili, in apparenza assurde. Non bisognerebbe mai dimenticare, per cominciare, che questi problemi non se li sono inventati gli immigrati di colore. Se li sono procurati gli italiani: le famiglie bene che hanno chiamato le filippine o le capoverdiane quando sul mercato nazionale le cameriere si sono fatte scarse; gli agricoltori del centro e del sud quando hanno «incettato» tunisini per raccogliere pomodori e olive. Adesso anche l'Italia ha scoperto che chiamare braccia di lavoro vuol dire chiamare persone e che, se non subito, molto presto chiamare persone vuol dire importare famiglie - vale a dire necessità di scuole, case, ospedali, ecc.
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