Il Bianco & il Rosso - anno I - n. 2/3 - mar./apr. 1990

uscivano da gioiellerie o da boutiques; era la triste, cariata umanità dei quartieri popolari e degradati qui di Porta Venezia o degli anonimi, squallidi dormitori della periferia; erano le frotte dei lunari, astratti punks nei loro neri abiti, nelle loro criniere arancione e verde, nelle loro borchie, negli spilloni e orecchini, sinistri, aggressivi e fragili. I nuvoloni avevano coperto tutto il cielo e si faceva buio; le saette ora vicine e non più mute, anticipavano tuoni fragorosi. E improvvisa, violenta arrivò la pioggia. Rimbalzava a campanelle sul marciapiede e sulla lamiera delle auto. E subito si trasformò in grandine, fragorosa come una cascata di ghiaia. Ci fu un fuggi fuggi generale, un rifugiarsi sotto i balconi, negli androni dei palazzi, nelle gallerie, dentro la metro. Le automobili, sul corso, erano ferme, incastrate per via dei semafori saltati, e con clacson e trombe lanciavano un rabbioso, assordante urlo d'aiuto. Tenendo il giornale sulla testa, corsi in direzione di Porta Venezia, scantonai per via Palazzi. I bar erano pieni, pieni ristoranti e pizzerie. Più avanti, m'attrasse un'insegna in caratteri amharici e con sotto la traduzione italiana; "Ristorante eritreo". Spinsi la porta a vetri ed entrai. Dentro era buio e deserto. Subito s'accesero le luci e da dietro il bancone del bar .Q!t BIANCO l.X1t nosso 1:1n11, ,1 ,., sbucarono un uomo e una donna sorridenti che m'invitarono ad accomodarmi a uno dei tavoli. - Vuole mangiare? - mi chiese l'uomo. - Vorrei prima asciugarmi. Mi porti intanto del vino. Stesi sulla spalliera d'una sedia il giornale che non avevo ancora letto, ridotto quasi a una pasta mucida. Ma per la verità leggevo di quel giornale, che compravo solo il sabato, le pagine dei libri. E quelle, all'interno, erano in qualche modo ancora leggibili. Cominciarono ad arrivare eritrei, tutti zuppi come me, e sorridenti. La sala si riempiva a poco a poco. La donna era scomparsa in cucina; l'uomo, dietro il banco, mi teneva d'occhio. Gli feci cenno di venire. Mi consigliò il loro piatto tipico, lo zichini. Era piccantissimo. Lacrimavo, ma con quegli occhi addosso non osavo smettere di mangiare o fare alcuna smorfia d'intolleranza. Mandavo giù a bicchieri colmi di dolcetto. Alla fine avevo vampe in bocca, nello stomaco, e la testa mi girava per il vino. Gli eritrei, uomini e donne, ridevano con tutti i loro denti bianchissimi, ma non ero in grado di capire se ridevano di me. Anche loro mangiavano lo zichini, ma non usavano la forchetta, attingevano con le dita a un grande piatto comune posto al centro d'ogni tavolo. Mi ricordai che anche così si faceva in Sicilia Veduta delle residenze e attrezzature industriali del familisterio di Jean Baptist Godin (1859). : 58 nelle famiglie contadine. E mi venne di pensare che il Nord, il mondo industriale, era anche questo, la rottura della comunione, la separazione dei corpi, la solitudine, la diffidenza, la paura d'ognuno nei confronti dell'altro. - Piccante? - mi chiese l'uomo togliendomi il piatto, e mi sembrò che avesse un tono ironico. - Un po' - risposti, con sussiego. E mi trovai subito ridicolo. Pensai alla mia gastrite cronica, ai bruciori che m'aspettavano la notte, l'indomani; alle disgustose pasticche di magnesia bisurata, di Maalox che avrei dovuto ingollare. Fumando, mi misi poi a leggere su quel giornale disastrato una recensione al mio ultimo libro; la lessi senza interesse, senza attenzione, non capivo neanche quello che vi si diceva. Bruciore per bruciore, continuai a bere, bevvi fino all'ultimo goccio la bottiglia di dolcetto. Uscii che barcollavo. Pioveva ancora. Mi riparai la testa con quel residuo di giornale che mi restava. Sbucai in via Castaldi e lì ancora un'insegna esotica m'attrasse: Bar Cleopatra. Il locale era pieno di egiziani. Il juke-box diffondeva una di quelle nenie senza inizio e senza fine, dolcissime, stranzianti, che hanno il ritmo delle carovane, il tono del deserto, nenie che sono la matrice d'ogni musica mediterranea, del

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