Il Bianco & il Rosso - anno I - n. 2/3 - mar./apr. 1990

B i 600e i 900mila Venezia, Genova, Bologna, Firenze e Bari e, in Sicilia, Palermo e Catania. A parte le ultime due, rientranti (come Cagliari in Sardegna) in una Regione a statuto speciale dotata di attribuzioni in materia di ordinamenti locali, è stato per esse che si è discusso per vent'anni sul particolare regime da conferire e si sono votati alla Camera, alla fine del 1989, cinque articoli risolutivi (l'unico punto di tutta la cosiddetta riforma delle autonomie per il quale si sia raggiunto il consenso sia della maggioranza di governo sia della opposizione comunista). Non occorre discutere se le nove aree suddette, o tutte le nove suddette, siano definibili correttamente come metropolitane, e la risposta è sicuramente negativa se il confronto - che non è certo di densità demografica - si instaura su scala mondiale o anche solo europea. È un fatto, però, che per la prima si è sempre ritenuto indispensabile un regime differenziato rispetto ali' ordinamento comunale e provinciale uniforme del Paese e che per le altre in Parlamento si è voluto disporre analogamente e tassativamente senza rimettersi a successive valutazioni regionali (l'inserimento - discutibile - di Bologna e Firenze e, correlativamente, di Bari e Bologna è stato parte integrante del compromesso che ha interessato, rispettivamente, PCI e DC). A sostegno di tale regime speciale sono state portate via via esigenze diverse, non coincidenti fra loro. Ciascuna motivazione era funzionale, a ben vedere, alla soluzione che ci si proponeva. E ciascuna soluzione, a sua volta, rifletteva essenzialmente l'interesse politico, cioé partitico o istituzionale, di chi la avanzava (beninteso, per essere le istituzioni impersonate dai partiti, ogni istanza di una determinata istituzione è essenzialmente l'istanza del determinato partito che in quella istituzione prevale). Consente di mostrarlo una rapida rassegna delle ipotesi, che il voto della Camera ha "fatto fuori". Battuta è stata, intanto, la tesi contraria alla creazione di uno specifico governo dell'area metropolitana. L'interesse in tal senso della Regione era palese soprattutto laddove il sistema politico regionale non corrisponde al sistema politico del capoluogo. Per ~.t.l,BIANCO u._11, nosso •h•#hld esempio la Regione Lombardia nella terza legislatura (1980-85)e oltre, presidente G. Guzzetti (DC), ha fatto sostenere pesantemente al suo istituto di ricerca (presidente G. Torrani, DC) col "progetto Milano" (direttore G. Mazzocchi, DC), in cui sono stati profusi miliardi, che non era necessaria la riforma degli ordinamenti locali e che l'autorità metropolitana necessaria c'era già; la Regione. L'argomento "scientifico" agitato era la validità della scuola "funzionalista", contrapposta alla "strutturalista". Dimenticando che altrove nel mondo, diversamente dall'Italia, il riordino strutturale era intervenuto da tempo e solo su tale base era stata sollecitata poi la collaborazione fra gli enti esistenti, si è predicata quest'ultima in sostituzione della riforma. Il che, peraltro, rifletteva interessi precisi. Non a caso, dopo il suddetto "progetto Milano", di iniziativa pubblica, si è passati, senza soluzione di continuità personale, ad associazioni private di interessi metropolitani, che svolgono, non gratuitamente, attività di intermediazione. Pure battuta dal voto della Camera è stata la variante, introdotta dalla cultura giuridica collegata alle Regioni, secondo cui la istituzione del governo .., ,. -:r ' I I .!t A. Sant'Elia, Edificio monumentale (1913) Como-Villa Olmo. 22 dell'area metropolitana doveva essere affidata interamente alle singole Regioni stesse per la circostanza che le situazioni locali si presentavano disomogenee. Il rilievo era esatto, fin troppo esatto (non c'è mai nulla che non sia sempre diverso), ma non al punto che non potesse dettarsi - come è avvenuto - qualche regola comune e che ogni singola città, come a Roma (Provincia) si voleva, dovesse fare a modo suo, magari per fare poi come gli altri (ancora Provincia di Roma). D'altra parte, poiché il potere che si possiede non viene mai esercitato in maniera politicamente neutrale, sarebbe contro lo stesso impianto autonomistico, costituzionalmente sancito, far dipendere l'esistenza e la consistenza di un livello istituzionale (il governo metropolitano) dall'interesse del livello cosiddetto superiore (la Regione). Altrettanto nettamente sconfitta è risultata la tesi ostile a un governo metropolitano unitario e favorevole, invece, a spontanee e volontarie aggregazioni, non necessariamente permanenti, dei Comuni che ne fanno parte (M.S. Giannini), cioè, in pratica, la tesi del "non governo" dell'area metropolitana; cosi come quella del governo bensi u~itario, ma costituito da una sorta di associazione al Comune capoluogo dei Comuni limitrofi, destinati però l'uno e gli altri a rimanere territorialmente immutati (presidente Comm. Aff. cast. Camera, PSI). Si sarebbe perpetuata, in tal modo, la tradizionale egemonia del Comune capoluogo, come avrebbero gradito talune componenti burocratiche del partito che ha, relativamente, più sindaci e assessori nelle grandi città (PSI). Poiché tale egemonia è effettiva (dove il Comune è grande, come a Roma, che comprende Ostia, la esercita il centro storico), poiché un unico livello istituzionale (metropolitano) per l'intera area costituirebbe un accentramento, addirittura mostruoso poiché da nessuna parte il regime dell'area metropolitana è contestualmente senza un robusto livello di base, la questione in esame è sempre stata anche quella - non meno importante - dell'articolazione del Comune capoluogo in Comuni veri e propri (a volte definiti municipalità), oltre che, occorrendo, nell'eventuale accorpamento dei Comuni

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