i.)-l..l, BIANCO lXll.llOSSO iii•iil•P che l'Italia è un paese modernizzato a metà, con un sistema produttivo industriale sostanzialmente in grado di reggere alla sfida della competizione internazionale, cui fa riscontro tuttavia un sistema di servizi sociali complessivamente inadeguato. In questa situazione, poco senso ha impegnarsi in astratte (e in definitiva assai provinciali) contese su pubblico e privato. Il punto è quello di chiarire che il sistema dei servizi è e sarà sempre più nodo strategico, rispetto alla qualità della vita dei cittadini, come al livello di competitività del sistema delle imprese. Il sistema dei servizi va dunque reso più efficiente, senza «se» e senza «ma»: perché questo è un passaggio ineludibile nel perseguimento dell'interesse generale, ovvero del «bene comune». E non può esserci dunque, almeno in questo caso, alcuna contrapposizione, che non sia artificiosa, tra le ragioni della solidarietà e quelle dell'efficienza: rendere efficiente il sistema dei servizi pubblici è infatti il primo dovere di solidarietà. E più efficiente vuol dire che esso deve produrre il massimo di risultati, in termini di benessere collettivo, col minor dispendio di risorse. In una moderna concezione del rapporto pubblico-privato, questo principio generale si esprime in un preciso corollario: quello per cui spetta al potere politico indicare gli obiettivi, i risultati da raggiungere, e le regole da rispettare, mentre saranno le diverse articolazioni sociali a competere tra loro sul terreno del rapporto tra qualità e costi. Ciò non significa smantellare la presenza pubblica, in nome di un'astratta ideologia privatizzatrice. Significa invece sottoporre anche la presenza pubblica alle regole della competizione, alla pari con altri soggetti. Nel caso del sistema formativo, non si tratta dunque di combattere la scuola pubblica in favore della privata, o viceversa: si tratta semmai di sottoporre entrambi i mondi alle stesse regole, il che in concreto potrebbe significare, ad esempio, superare la discriminazione tra scuole statali e scuole non statali nell'erogazione delle risorse pubbliche, in favore di una selezione operata sulla base di verifiche di merito, ossia valutando i risultati formativi raggiunti (quelli veri, non quelli ricavati dal numero dei promossi e dei bocciati alla maturità). Per muoversi in questa direzione, è necessario in primo luogo dare più autonomia alle scuole pubbliche, oggi ingessate in un soffo- ■ 16 cante rapporto di dipendenza dalla burocrazia ministeriale, la quale non a caso, in singolare coincidenza con le posizioni più ideologicamente estremiste della «Pantera», ha dato vita ad una vera e propria levata di scudi contro il disegno di legge Galloni e contro la relazione di Sabino Cassese che, alla recente Conferenza nazionale sulla scuola, proponeva proprio la via dell'autonomia come strada maestra per far compiere alla scuola italiana la traversata del fiume, intrapresa quindici anni fa con i «decreti delegati». Solo in questo modo infatti la singola scuola potrà cessare di essere mero terminale funzionale del ministero e divenire invece comunità e impresa educativa, ossia organismo con una propria identità, che elabora e continuamente aggiorna, in modo realmente collegiale, e in competizione con altre scuole e altre agenzie, un progetto di offerta formativa ad un preciso territorio. In secondo luogo, è sempre meno rinviabile un sensibile decentramento delle competenze in materia scolastica: al ministero dovrebbe restare la definizione delle grandi scelte e dei grandi indirizzi, ma è impensabile che possa essere gestita da un unico soggetto, per di più con un sistema di regole e soprattutto una mentalità di stampo ottocentesco, una realtà così vasta e complessa come il sistema scolastico di un grande paese sviluppato. Infine, ma non da ultimo, è urgente procedere ad un graduale, ma coraggiosa delegificazione e privatizzazione del rapporto di lavoro degli insegnanti. Va combattuta con ogni mezzo la tendenza a ridurre il problema dei docenti ad una questione di stato giuridico e trattamento economico, per di più amministrata con le logiche, vecchie e logore, del sindacalismo del pubblico impiego: sarebbe davvero tragico se in un settore come quello della scuola non si riuscisse a fare del lavoro la leva per l'innovazione, ma anzi lo si lasciasse degradarsi a fattore di blocco e di conservazione. Bisogna fare degli insegnanti - o almeno della parte più attiva e creativa di essi - uno dei protagonisti del rinnovamento della scuola. Perché ciò diventi possibile, occorre inserire nei contratti maggiori elementi di flessibilità, collegati a strumenti di periodica verifica della professionalità. Costruire il consenso attorno a obiettivi come questi è necessario ed urgente, se si vuole far uscire la scuola (e l'università) dal ghetto di paralisi politica e di movimentismo sterile nella quale versa da ormai troppo tempo.
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