Il Bianco & il Rosso - anno I - n. 2/3 - mar./apr. 1990

,{)!I, nlANO) lXII.HOS..~ iii•iil•P Le lezione della pantera di Giorgio Tonini Sull'improvvisa e imprevista agitazione degli studenti universitari si è ormai detto tutto. Dopo le prime, e dunque acritiche mitizzazioni o demonizzazioni, sta emergendo un giudizio più articolato. I giovani che hanno dato vita alla «Pantera» non sono né terroristi, né riformisti; esprimono bisogni veri individuando nemici sbagliati; rivendicano il diritto, sacrosanto e assurdo insieme, che tutte le generazioni «scolarizzate» hanno rivendicato in questo dopoguerra: quello di ricominciare ogni volta da capo, di sbagliare da soli. Il vero rischio, dopo le risposte enfatiche in positivo o in negativo, delle prime settimane, è che alla tempesta dei primi giorni, che tutto sembrava travolgere, subentri la quiete un po' paludosa della cosiddetta «normalità», senza che la protesta abbia prodotto alcun effetto politico, cioè riformistico: poiché la rivoluzione è impossibile, ed è impraticabile persino la sua caricatura, ossia la richiesta di dimissioni del ministro e del governo, non resta che rassegnarsi alla smobilitazione graduale, paghi di aver non modificato, ma semplicemente stoppato, il tentativo, timido e parziale, di riforma Ruberti, con il conseguente trionfo, l'ennesimo trionfo, dello status quo, del quale fanno ormai parte integrante anche i periodici imbrattamenti delle mura delle aule e degli edifici universitari. Alla fine, la vera lezione che può trarsi dalla vicenda della «Pantera» è che questo sistema politico è strutturalmente incapace di produrre qualsiasi riforma e di dare a qualunque movimento sociale altra risposta che non sia il muro di gomma dell'immobilismo. Questo del resto è ciò che è accaduto nel confinante mondo della scuola, nel quale movimenti studenteschi a corrente alternata e Cobas hanno prodotto come unico risultato una (modesta) rivalutazione delle retribuzioni degli insegnanti. E invece, di interventi di riforma, di massicci investimenti non solo economici, ma anche di cultura organizzativa, nella scuola, come nell'università, il nostro paese ha un bisogno sempre più forte. La scuola italiana, nella quale pure non mancano, anzi per molti versi abbondano, energie intellettuali e risorse morali, appare infatti per molti versi un vascello alla deriva, privo non solo di un nocchiero, ma anche di una rotta incerta. A quindici anni di distanza, gli amati-odiati «decreti-Malfatti» restano l'ultimo tentativo di dare alla scuola una direzione di marcia. Poi, più nulla, se non i mille fiori delle sperimentazioni sparse, diffuse ormai in quasi tutte le scuole, fuori da precisi criteri e nella completa assenza di qualunque verifica. E così la scuola italiana, anche lei, è messa al guado. Poco può venirle dal palazzone umbertino di viale Trastevere, progettato come monumento all'onnipotenza dello Stato unitario e oggi divenuto uno dei principali simboli della sua impotenza. Ma ancora poco può fare da sola, perché troppo gracile è la sua autonomia, sul piano giuridico, come su quello economico e su quello culturale. I risultati di questa condizione di paralisi progettuale sono allarmanti, in termini di produttività sociale del sistema formativo italiano. Nel nostro paese, su 100 ragazzi che intraprendono gli studi, solo 50 superano la soglia del primo biennio della scuola secondaria superiore. Quest'ultima registra un tasso di abbandono del 35%, mentre l'Università, con oltre 1.700.000 iscritti, riesce a produrre ogni anno solo 70.000 laureati. Nell'anno scolastico 1987-88, gli iscritti alla prima media inferi ore erano 992 mila, gli iscritti alla prima media superiore 766 mila.

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