Il Bianco & il Rosso - anno I - n. 2/3 - mar./apr. 1990

,P_lJ,1\1.\M:O lXII.HOSSO lii•iii•b L'altro pragmatismo di Rino Caviglioli Ad un sindacalista non s'addicono le asperità e gli anfratti della filosofia. Tuttavia il fare quotidiano lascia emergere una questione che costringe, per essere analizzata, ad un qualche richiamo speculativo. La questione è quella del modo di procedere pragmatico, oggi vincente, in molte grandi organizzazioni sociali e politiche. Ma il pragmatismo al quale si fa riferimento non è più parte di quel nobile indirizzo filosofico che affida il criterio e la misura della verità dei principi teorici alla loro efficacia pratica: se così fosse, quale migliore garanzia, per un attore sociale, di non cadere nei vizi dell'idealismo o anche solo dell'astrattezza che non quella di essere intriso di «spirito pragmatico»? Un pragmatismo così definito si farebbe punto d'incontro e sintesi tra il reale e le ambizioni progettuali, la voglia di andare oltre il senso comune e di sfiorare l'utopia: tra ciò che dà significato al lavoro e all'essere collettivo e la sua capacità, efficacia, possibilità di incidere sui processi sociali che effettivamente accadono. Sarebbe, in definitiva, una misura di verità e di pulizia intellettuale. Ma il «pragmatismo» di cui qui si parla è 'diventato altro. Grosso modo, esso è sorretto da questa filosofia minima. C'è una «evenienza sociale» ricca, indotta dall'operare di molti soggetti, individuali e collettivi, economici, politici, sociali. Ogni cosa che accade ha una sua specifica ragione d'esistenza. Le grandi organizzazioni sociali e politiche debbono limitarsi ad assecondare questa crescita, e, qualora si rendesse proprio necessario, intervenire nei casipiù evidenti di devianza e nelle occasioni di più duro conflitto. Sembra una filosofia del buon senso e dell'accortezza politica. È invece, più probabilmente, una concezione del fare politica pigra ed opportunista, che non rischia il conflitto proprio laddove esso sarebbe eticamente le- : 13 gittimato, cioè sui contenuti e sui modi dell'azione politica. E questo approccio «pragmatico» induce non pochi processi degenerativi. Qualunque elaborazione progettuale, qualunque tentativo di darsi una strategia di intervento, appare eccessivo, fuori misura, pretenzioso. E di conseguenza il lavoro culturale (ricerca, formazione, elaborazione politica) diventa progressivamente marginale, produce turbative considerate inutili. Il conflitto si fa sempre più allusivo, simbolico, non incide sui rapporti di potere, sul sistema delle disuguaglianze. La spinta per processi di trasformazione sociale prima s'indebolisce e poi s'arresta. La filosofia minima sopra ricordata s'affida all'immagine di una barca, che va guidata accortamente in un mare mosso da forze e divinità a noi sostanzialmente inaccessibili. Ma l'immagine è sbagliata. Noi siamo con Eolo, il dio dei venti. Siamo tra le forze che provocano i marosi. Noi, organizzazioni sociali e politiche collettive. Non godiamo perfino di un attributo «divino», quello di esercitare un potere anche istituzionale? Mi sembra più vera un'altra immagine. C'è una città da abitare. E tutti corrono, chiedono il meglio, ed hanno ragioni specifiche per farlo. Ma come non vedere che d'altro c'è bisogno? Di ragione, di interessi e logiche comuni, di progetti, di strategia, di politica infine.

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