mensile di dibattito politico • Anno 1° sommario marzo/aprile 1990 1 3 4 5 8 g 11 13 14 EDITORIALE: PCI: la svolta alla prova, di P. Camiti ATTUALITÀ: Sandro Pertini, una presenza insostituibile, di L. Covatta PCI e dintorni: speriamo che sia "nuovo", di G. Gennari E l'Italia si scopre razzista, di F.Ferrarotti Stranieri in Italia, di B. Nascimbene Non dimenticare i poveri, di L. Di Liegro Piccole imprese: meglio una legge subito, di G. Giugni L'altro pragmatismo, di R. Caviglioli La lezione della pantera, di G. Tonini Ma gli impiegati sono classe? di S. Scaiola 17 Replica ad un lapsus, di A. Cambria 19 DOSSIER: Sono ancoragovernabili le città? con in- 21 terventi di Rotelli, Treu, Balducci, Moretti, Fusero, Gaiazzi, Magoni, Marescotti, Molinari, Pignocco, Ronda, Graziosi, Ghilardotti, Stefanelli, Giumelli, Monterubbianesi, Gagliardi, Biblo L'EUROPA E IL MONDO: Intervista a Lula, di F. ~,., Patrignani e F. Monini J.- Le radici storiche della Spd, di N. Di Meola 55 DOCUMENTO: Porta Venezia, di V. Consolo 57 VITA DELL'ASSOCIAZIONE ReS 60 IMMAGINI: Idee di città PCI: La svolta alla prova di Pierre Camiti La decisione del congresso straordinario comunista di dar vita alla fase costituente di una nuova formazione politica è stata, al tempo stesso, una necessità ed un atto di coraggio. Una necessità perché risponde alla convinzione che sotto le insegne del comunismo non è possibile prefigurare una politica per il futuro. Al nome comunismo la gente associa, infatti, ormai solo la condizione economica disastrosa delle società dell'Est, la compressione delle energie sociali e la intollerabile limitazione delle libertà politiche. Se ha memoria storica si ricorda delle atrocità e degli stermini staliniani. Se non ce l'ha, di tanto in tanto, ci hanno pensato i mas-
B ~_tJ,BIANCO '-Xli.ROSSO •IDikf)dliil sacri operati dalla polizia e dagli eserciti comunisti a ravvivarla. E dopo tutto quello che è successonei paesi comunisti nessuno può seriamente pensare che la rifondazione di un partito comunista occidentale sia un'ipotesi stravagante. Siamo infatti in presenza non della crisi del "comunismo realizzato", del "comunismo dei paesi dell'Est", di "quel comunismo" che lascerebbe aperta la questione del "vero comunismo", del "nuovo comunismo", dell'ideale del comunismo, come poco convincentemente a Bologna hanno ripetuto gli uomini del cartello del no. Siamo invece di fronte ad una indiscutibile crisi dei comunismi. Nessuno vuole negare che possa esistere uno scarto tra il comunismo e l'idea di comunismo. Ma questo scarto che teoricamente può esistere non deve offuscare il nesso che c'è tra la concezione comunista ed il comunismo reaiizzato. È infatti sulla base di questo rapporto che si sono costretti milioni di uomini che cercavano libertà, dignità, benessere, sotto regimi che hanno generato, invece, totalitarismo, oppressione, miseria. Senza denunciarlo ad alta voce Occhetto ha riconosciuto a Bologna che tutti i comunismi dei paesi dell'Est sono falliti, anche se ha discutibilmente aggiunto (probabilmente per lenire lo stato di sofferenza del partito) che la crisi investe, nella stessa misura, le socialdemocrazie europee. Si deve però pensare, come per altre questioni ripescate dal magazzino dell'usato, che si tratti di un pedaggio pagato alla liturgia congressuale di un partito per la prima volta chiamato a contarsi su mozioni contrapposte ed a sanzionare così, anche per questo aspetto, la fine della propria diversità. A Bologna non sono, per altro, mancate le indicazioni di una svolta importante e coraggiosa che possono davvero contribuire alla apertura di una fase nuova nella vita politica del Paese. Se dalla tribuna del congresso alle domande "con chi" e "per fare che cosa" il segretario del Pci non è stato in condizioni di fornire risposte meno vaghe di quelle già formulate nei mesi precedenti, sul "come" si è avuta invece la vera novità che Occhetto ha posto a fondamento della sua proposta. Il primato della politica non viene più confuso con il primato del partito. Il nuovo partito non sarà più ossessionato di aderire a tutte le pieghe della società civile con la pretesa da una parte di riassumerla e dall'altra di egemonizzarla. Contro una similè concezione Occhetto ha ad- ' 2 dirittura indicato la necessità di ''mettere in campo una vera e propria dottrina del limite del partito". Si tratta di una rottura decisiva con la cultura politica comunista ed esprime la rassicurante convinzione che il nuovo partito (come, del resto, tutti i partiti) non può più pretendere inammissibili esclusivismi. La società civile deve venire prima, non dopo, la società politica. E ad essa, agli individui che la compongono, alle associazioni, ai corpi intermedi che esprime, deve essere riconosciuto un più ampio spazio di iniziativa. Anche se Occhetto non l'ha detto si deve naturalmente aggiungere che governare sarebbe impossibile se la società non facesse, a sua volta, dei passi verso il potere politico, se non nutrisse la fiducia che nella mediazione istituzionale, non soffocatrice, ma al contrario rispettosa della dialettica sociale, si garantiscono i diritti di ciascuno e le ragioni di tutti. Si fondano così le ragioni della democrazia e del pluralismo. Con la liquidazione del centralismo democratico come regola di vita interna, la decisione di aderire all'Internazionale Socialista ed al netto superamento della cultura politica comunista nei rapporti società-Stato, il partito comunista dopo il congresso di Bologna si avvia, dunque, a trarre le conseguenze di un coraggioso processo di revisione e di rinnovamento. Un passo importante è stato compiuto. Ma quelli che restano da compiere non saranno meno impegnativi e dolorosi. Si tratta, infatti, di dissolvere la tradizione. La memoria è sempre parte importante della dignità e del1'orgoglio di un partito. La memoria delle emozioni vissute, delle battaglie sostenute. Anche di quelle sbagliate (e spesso erano sbagliate). Si deve cambiare il nome ed il simbolo del partito. Deve cambiare tutto ciò che lo ha reso "diverso", ma anche permanentemente minoritario, per renderne spendibile la forza politica ed il radicamento sociale nella prospettiva di accedere al governo in una democrazia non più ingessata dalla mancanza di ricambio. Il cammino che resta da compiere non si preannuncia facile per Occhetto. Con l'opposizione di una forte minoranza la nuova "cosa"non appare a portata di mano, mentre le elezioni sono molto vicine. Ma Occhetto sa benissimo che fuori dalla prosecuzione di un confronto coraggioso, con il dovere di una correzione complessiva, ci sono ormai soltanto gesti sbagliati e soluzioni finite.
,l)lJ. lllA;\1(:0 \XII.HOSSO iii•iiiiil Sandro Pertini una presenzainsostituibile di Luigi Covatta Curiosamente toccò a me, l'estate del 1985, accompagnare Pertini nel suo rientro ufficiale nella vita di partito. C'era l'assemblea nazionale del PSI, e lui non voleva venire. Un po' perché ironizzava sulla composizione dell'organo che aveva sostituito il vecchio Comitato centrale. Un po', forse, per ritrosia verso la prevedibile apoteosi che lo avrebbe accolto. Scherzando, al Senato, mi disse che non conosceva il luogo in cui si sarebbe svolta l'assemblea. Altrettanto scherzosamente, mi offrii di accompagnarlo. E mi prese in parola. Curiosamente, quindi, toccò a me. Curiosamente, perché io sono stato sempre un lombardiano, e Pertini non aveva mai amato Lombardi. Per di più, con Lombardi condividevo il peccato originale della trascorsa militanza cattolica, uno dei motivi della diffidenza di Pertini nei confronti del leader della sinistra socialista. Non sono, quindi, un pertiniano. Non so, quindi, se sono il più adatto a ricordarlo. Ma forse posso, sine ira ac studio, spiegare che cosa ha rappresentato il fenomeno Pertini nel PSI. I pertiniani, nel PSI, sono sempre stati pochi. Prima del '78, voglio dire. Dopo, lo sono diventati tutti. Non per piaggeria o per opportunismo, però. L'identificazione con Pertini è stata sincera e profonda. Innanzitutto, credo, per bisogno di radici. Bisogna ricordare cosa era il PSI nel '78. La demolizione sistematica dei miti, delle pigrizie culturali, dei vizi ideologici che avevamo consapevolmente condotto lungo il periodo di incubazione del Progetto socialista (che è anch'esso del '78) lasciava un bel cumulo di macerie alle nostre spalle. Nenni e Lombardi, del resto, erano ancora in servizio attivo, addirittura capi-corrente. Né Craxi aveva ancora avviato la riscoperta del riformismo classico, che è del 1981. Il garofano, nel simbolo del partito, si giustapponeva ancora alla falce e martello. Nelle idee, revisionismo di destra, revisionismo di sinistra, liberalsocialismo davano vita a una bella insalata. L'immagine di Pertini funzionò come elemento di semplificazione e di attaccamento a una tradizione non sempre lineare nella vicenda di un secolo. Ma non solo per questo i socialisti si sono identificati con Pertini. La verità è che attraverso di lui i socialisti hanno visto realizzarsi due sogni a lungo invano coltivati: quello della legittimazione e quello della popolarità. Il primo sogno si era pensato di averlo realizzato col centrosinistra: ma neanche Nenni vice-presidente del Consiglio bastò a costruire l'immagine di un partito pienamente legittimato a governare (non a partecipare al governo, che è diverso). Il secondo sogno era stato inseguito sui sentieri meno raccomandabili, in omaggio alla falsa equazione per cui governare è necessariamente impopolare, per cui la popolarità va cercata attraverso il massimalismo e la demagogia. In questo senso, l'incarico conferito da Pertini a Craxi ha risposto a una logica profonda. E non importa se la differenza delle funzioni e la vischiosità del sistema politico hanno finora impedito a Craxi di raccogliere tutti i consensi raccolti da Pertini, e al PSI tutti quelli raccolti da Craxi. È curioso, piuttosto, che qualcuno si stupisca per l'affezione con cui i socialisti guardano alla repubblica presidenziale. Concludo. Non c'é bisogno di essere un pertiniano per apprezzare il ruolo che Pertini ha svolto nel suo settennato presidenziale. Anzi: c'è bisogno, forse, di non esserlo. Di tenersi distanti dal "colore" per cogliere fino in fondo il peso degli elementi di rottura che Pertini ha introdotto nel sistema istituzionale e politico del paese. Con buona pace dei salmodianti in gloria, che non hanno dimenticato il carattere esorcistico dei riti funebri.
B i.).tJ, BIANCO lXII.ROSSO iii•ii••P PCI e dintorni: speriamoche sia <<nuovo> di Giovanni Gennari - Al Congresso straordinario del PCI noi di ReS guardiamo tutti con particolare attenzione, e anche con speranza. Lo dice bene Camiti nel suo editoriale di questo numero dedicato, a caldo, all'assise di Bologna. Siamo davvero interessati alla "Cosa" che nasce a Bologna, e abbiamo chiaramente detto il perché, anche nel nostro «manifesto» di fondazione. In Italia solo con un PCI rinnovato, quale che sia il suo nuovo nome, sarà possibile un vero ricambio politico e istituzionale, che esigeun'autentica alternanza, e che da noi non può non assumere, almeno in prima battuta, dopo quarantacinque anni di governo ininterrottamente DC, il nome e i connotati di «alternativa». A noi pare che Occhetto abbia iniziato bene il suo cammino. Si può discutere un certo continuismo obbligato, si può desiderare questo o quell'accento, si può deplorare questa o quella polemica, ma la.strada è giusta, e noi speriamo sia percorsa fino in fondo. Alla realtà del PCI, del resto, dedicheremo il «Dossier» del prossimo numero de «II Bianco e il Rosso»: per guardare avanti. * * * - Che il PCI sia cambiato è difficile negarlo, anzi, impossibile. Basterà annotare che in altri tempi uno come Cacciari sarebbe stato non solo cacciato, posto che fosse dentro, ma anche indicato al disprezzo almeno politico dei militanti, per aver osato criticare non questo o quel comunista eccellente, ma il partito in blocco. Oggi invece sarà capolista alle elezioni di maggio a Venezia. Cacciari ha detto che se nel '48 le elezioni non fossero andate come sono andate e se il PCI fosse andato al Governo, l'Italia avrebbe fatto la stessa fine degli altri paesi comunisti. Difficile dargli torto. Non si trattava, infatti, di buona volontà di questo o quel leader illuminato, ma di meccanismi internazionali che producevano comportamenti collettivi, senza eccezione alcuna. - - --- - - - - -- ~ Niente autorizza a pensare con fondamento che questa eccezione sarebbe stata italiana. * * * - Uno dei rimproveri che in passato si è mosso al PCI, come noto, è stato quello della "doppiezza". Di questa doppiezza circolavano, e circolano, varie versioni, più o meno nobili. Di recente Bobbio ne ha dato la versione più nobile, segnalandola come piena accettazione del metodo democratico e contemporaneamente come permanente tensione al cambiamento del sistema. Ma non è tutto qui. Circola, ancora oggi, anche qualche altra versione della doppiezza, e si rivela dura come pietra, e constatabile da chiunque, nero su bianco. Eppure sembra che nessuno se ne accorga, o che a nessuno interessi. Il Presidente, eletto all'unanimità dal Congresso, dell'assise di Bologna, Giancarlo Pajetta, ha più volte detto di non aver nulla da rinnegare, e nulla di cui pentirsi, nel suo passato. Sarà: ma fa impressione - ed è il minimo che si possa dire - che nel suo volume «Le crisi che ho vissuto» (Roma, 1982),forse più recensito e lodato che letto, a proposito dell'era staliniana, e dello stesso Stalin, in relazione al leader del PCI di allora, e in pratica al partito intero, ha pensato bene di cavarsela così (p. 18): «Non ho mai parlato con Togliatti di Stalin». Sarà vero? Se lo è occorre dire che la situazione era spaventosa; e se non lo è, allora occorre dire che chi scrive, nonostante ogni crisi, non è ancora riuscito a essere sincero. In casi come questo neppure la doppiezza aiuta. * * * - A proposito di Stalin. Sul Corriere della Sera del 27 febbraio il corrispondente da Mosca, Andrea Bonanni, racconta su cinque colonne che «nel cervello di Stalin non c'è segno di aggressività». Da studi compiuti dall'«Istituto del cervello» di Mosca, che tiene in «cassaforte» i cervelli
i.)!I, Bl:\:\(:O l.XII.BOSSO iii•iiM•b dei massimi leader sovietici, e di grandi uomini come Pavlov e Landau, e che ora ha allo studio il cervello di Andrej Sakharov, risulta che Stalin aveva un cervello «normalissimo». Il Prof. Oleg SergeevichAdrianov, che dirige l'Istituto, si cautela, affermando che «la ricerca continua». Per ora, tuttavia, risulta che in quel cervello non c'era aggressività. Per una singolare coincidenza, a p. 17 dello stesso giornale, in quello stesso giorno, sono pubblicate le cifre ufficiali del KGB sulle vittime dell'era staliniana. Eccole: in 24 anni, tra il 1930e il 1953, le condanne pronunciate dai Tribunali speciali sono state 3.778.234, e di queste 786.098 furono alla pena capitale, per lo più fucilazioni. In 24 anni, cioè 8.760 giorni, ogni giorno 432 condanne, di cui 90 a morte. Ogni ora 18 condanne, di cui 4 a morte, una ogni quarto d'ora. E per fortuna, possiamo ben dirlo, che in «quel» cervello non ci sono tracce di aggressività! Anche per questo, forse, qualcuno non ha mai parlato di Stalin, in quegli anni. E l'Italia si scopre razzista di Franco Ferrarotti Come sono dolcemente, astutamente ingannevoli i luoghi comuni! Ci si adagia e ci si addormenta come su una comoda poltrona. Da tempo, forse da secoli, usavamo pensare che gli italiani, certo non privi di difetti anche gravi, erano però di buon cuore, compassionevoli, umani ... Italiani, brava gente ... I razzisti erano gli altri, i tedeschi, i nazisti. Non c'è voluto molto a scoprire che non ci sono solo i negri degli altri. Prima, Villa Literno: un delitto che si poteva ancora in buona fede ritenere la bravata d'un pugno di balordi di paese, tanto che persino al funerale di J erry Masslo il parroco poteva cercare scuse, in verità poco convincenti, per la popolazione nel suo insieme. I recenti fatti di Firenze, però, le scorrerie di K. Lynch, D. Appleyard, J. Meyer, immagini sull'autostrada di Boston (1964).
.L)_(J, BIANCO 0-11, HOS..'",O iii•iil•P bande solo in apparenza raccogliticce, la proterva affermazione dei minorenni arrestati, che sembrano di primo acchito essere stati opportunamente imbeccati e criminalmente istruiti, non possono più lasciare dubbi. Ancora poco più di due anni fa, i soprusi subiti in un autobus romano da una signora nera potevano essere ridotti e interpretati come mala creanza. Era questa l'interpretazione data da me e dal compianto Cesare Musatti. C'era, naturalmente, la discriminazione - una discriminazione a sfondo razziale in quanto subita da una persona di colore - ma la stessa casualità del fatto ci spingeva a far rientrare l'episodio in un quadro di costume più che di consapevole razzismo o di deliberato conflitto etnico. Questo riduttivismo, oggi, sia pure nell'intento di sdrammatizzare, non è più sostenibile, rischia di favorire i criminali. È stato un brusco risveglio. Un popolo abituato per generazioni a esportare propria manodopera - la carne fresca dei più giovani, costretti ad emigrare per sfuggire, per sé e per le loro famiglie, alla fame cronica e alle angustie della povertà endemica - si rivela oggi profondamente nemico, insofferente e irritato fino alla violenza, progettata e nello stesso tempo gratuita, contro i lavoratori immigrati di colore. Vien subito da pensare che dietro ai fatti di Firenze, così come dietro a certe manifestazioni di pseudo-spirito sportivo, si nasconda un progetto politico, una volontà precisa che persegue un disegno articolato e rigorosamente calcolato in ogni sua fase. Non siamo in Francia e neppure in Germania. Non abbiamo un Le Pen - non ancora. Nel mio libro Oltre il razzismo - verso la società multirazziale e multiculturale (Armando editore, 1988), avevo citato esempi e testimonianze del neofascismo francese, che ha trovato le sue fortune elettorali fra i "pieds noirs", in centri operai (!) come Marsiglia (che ne penserà l'ombra del socialista Gaston Defferre, per decenni sindaco popolarissimo del grande porto mediterraneo?), a Tolone, fra gli epigoni del1' Action Française di Charles Maurras, oggi raccolti sotto le bandiere del «Fronte nazionale» di Jean-Marie Le Pen. Notavo in quel libro che il 20 per cento ottenuto da Le Pen a Tolone, e battuto solo dal voto sorprendentemente plebiscitario di Marsiglia, aveva dato una sorta di colpo di sprone a quanti manifestano l'orgoglio del «français pur», specialmente se reduce o nostalgico di avventure coloniali co- - ------------ ~ 6 me l'Indocina e l'Algeria, l'Organisation de l'Armée secrète, e così via. Lasciamo stare, poi, la situazione tedesca con i turchi, e quella inglese, con i «cittadini» provenienti dagli exDominions della Corona. Ciò che mi ha da ultimo colpito in Italia è stata la superba confessione, quasi l'autoincriminazione dei giovani teppisti fiorentini. So bene che c'è tutta una tradizione, non solo letteraria, di «maledetti toscani» e di «Italia barbara» - una tradizione che non basteranno certamente le belle parole di Spadolini a cancellare. So anche che a Roma, non molto tempo fa, a Tor Bellamonaca si sono verificati episodi, penosi, di lotte fra poveri. Gli abitanti della borgata si erano sollevati contro l'idea di attrezzare i campi dei nomadi, degli «zingari». Mi domando alla luce di questi fatti che cosa significhi il programma dell'on. Pino Rauti, appena eletto segretario nazionale del MSI, quando si ripromette uno «sfondamento a sinistra». Che cosa ha in mente? Intende organizzare i «lazzaroni del re»? Vuole esacerbare le insicurezze e le frustrazioni dei poveri indigeni, alimentarne sapientemente l'irrazionale timore di venire scavalcati dai poveri di colore, scatenare una guerra fratricida fra miserabili, lucrando elettoralmente sulle paure dell'eterno grigio e gretto mondo dei benpensanti italiani? Bisognerà lasciar cadere ogni atteggiamento di supponenza, quale quello messo sorprendentemente in luce dall'on. Laura Balbo (in Democrazia e diritto, n. 6, novembre-dicembre 1989). C'è da inventarsi tutta una politica: dal controllo efficace delle frontiere alle questioni, spinosissime, della convivenza con culture diverse - culture che vogliono dire lingue, cucine, religioni, strutture familiari e abitudini quotidiane spesso completamente estranee, incomprensibili, in apparenza assurde. Non bisognerebbe mai dimenticare, per cominciare, che questi problemi non se li sono inventati gli immigrati di colore. Se li sono procurati gli italiani: le famiglie bene che hanno chiamato le filippine o le capoverdiane quando sul mercato nazionale le cameriere si sono fatte scarse; gli agricoltori del centro e del sud quando hanno «incettato» tunisini per raccogliere pomodori e olive. Adesso anche l'Italia ha scoperto che chiamare braccia di lavoro vuol dire chiamare persone e che, se non subito, molto presto chiamare persone vuol dire importare famiglie - vale a dire necessità di scuole, case, ospedali, ecc.
.{)!I, BIANO) l.XII.BOSSO Uiiiiiiil Non si pensi con ciò, secondo un cliché diffamante, che gli immigrati di colore siano tutti morti di fame, pezzenti, e così via. Sarebbe bene procurarsi un supplemento di informazione. Una ricerca recente, Stranieri a Roma, a cura della Caritas e della SIARES, è in questo senso utile. Ci dice che gli immigrati di colore sono in gran parte uomini, in giovane età, in possesso di discreti titoli di studio, con la conoscenza di una o più lingue europee. Miserabili lo divengono in generale dopo un soggiorno anche di poche settimane nella capitale dello Stato italiano nonché centro della Cristianità: scippati, derubati dei soldi e dei non molti averi, ridotti sul lastrico, devono scegliere con urgenza spesso drammatica l'espediente come mezzo di sussistenza. A questo proposito le stesse autorità di governo vivono e operano - spesso rinviando - in una condizione di lamentevole sottoconoscenza del fenomeno. Bisogna, per il momento almeno, contentarsi delle impressioni e di «ricerche-pilota». A parte Palermo, Napoli, Milano e Torino, è Roma ad apparire come un classico porto di mare, l'approdo ideale. Qui più che altrove sembrerebbe possibile trovare lavori saltuari, magari nel terziario, unendo l'elettronico e il borbonico, oltre che lavori al nero in ditte e imprese agricole e edilizie di basso profilo. Profughi provenienti dai paesi dell'Est europeo, per lo più piccoli huclei familiari, fino a tempi recenti i soli a godere dello stato di riVeduta aerea della città di Palmanova (fondata nel 1593). =· 7 fugiati politici, ghanesi, etiopici, eritrei, somali, iraniani, si possono incontrare nelle vie della capitale, soprattutto intorno alla Stazione Termini, presso alcuni centri o parrocchie situate nei vari quartieri e in periferia, ma anche a Ostia, nei paesi che costellano le colline dei Castelli, o ancora verso Tivoli, Mentana, Palombara Sabina. Si tratta di nuclei etnici diversi, che portano con sé istanze, modelli culturali, valori, costumi differenti da quelli italiani. Sono per lo più persone che le circostanze hanno portato a vivere in condizioni di precarietà e di marginalità. Sono quasi tutte «persone in attesa», magari di un visto, per un'ulteriore tappa migratoria, generalmente Stati Uniti e Canada, oppure in attesa di un inserimento a pieno titolo in Italia - inserimento che tarda a realizzarsi. Per il momento, due lezioni: non schiacciare tutti nel «solito negro», omogeneizzando persone che sono diverse le une dalle altre e che hanno diritto ad essere individualmente riconosciute; comprendere che il loro più importante problema non è forse quello del lavoro e dell'alloggio, ma, ancor prima, quello dell'accettazione, uno per uno, come persone e non come numeri, pur sapendo che la questione dell'immigrazione di colore non potrà essere risolta da nessun paese europeo da solo. È una responsabilità dell'Europa che va unendosi e che anche rispetto a questo problema può fin da ora dare un'idea della sua statura storica e morale.
__Q.tJ, UIANCO '-X_ll,HOSSO iiikiii•P Stranieriin Italia: una legislazionenecessaria di Bruno Nascimbene Le polemiche e i dissensi che hanno animato e resa problematica l'approvazione delle nuove disposizioni in materia di asilo, di ingresso e soggiorno degli stranieri, non possono meravigliare chi ricordi quante e quali difficoltà abbiano incontrato le numerose proposte di riforma che, soprattutto dal 1980 in poi, intendevano colmare una lacuna del nostro ordinamento, più volte censurata dalla Corte costituzionale. Il decreto legge del 20 dicembre 1989, n. 416, convertito con modificazioni nella legge del 28/2/1990 n. 39, riprende in parte un disegno di legge del Governo approvato in sede legislativa dalla Carnera nel 1987, decaduto per anticipata fine della legislatura. Esso ripropone una regolarizzazione delle situazioni illegittime per i lavoratori subordinati, già prevista dalla legge 31 dicembre 1986, n. 943 (sul collocamento e trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine) estendendola ai lavoratori autonomi; introduce inoltre i primi elementi della disciplina del diritto d'asilo riconosciuto dal1' art. 10, 3 ° comma della Costituzione, mai propriamente attuato ( «Lo straniero ... ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le conclusioni stabilite dalla legge»); introduce altresì la «programmazione» dei flussi di ingresso per ragioni di lavoro e dell'inserimento socio-culturale per gli stranieri, nonché le relative modalità da adottare con decreti di concerto fra quattro Ministeri (esteri, interno, bilancio e programmazione economica, lavoro e previdenza sociale). Il compito dell'interprete e dell'operatore giuridico non si presenta facile per più profili, primo fra tutti quello del coordinamento con norme che solo parzialmente vengono abrogate (testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1931 e relativo regolamento di esecuzione del 1940)e con norme (legge n. 943) che, malgrado la mancanza di previsioni espresse, dovrebbero continuare a disciplinare la materia del lavoro subordinato (salvo incompatibilità manifesta, dedotta in via interpretativa). Si è ancora lontani dal «riordinamento» della materia e dalle «compiute organiche norme» sollecitate dalla Corte Costituzionale: esse appartengono, invece, al più ampio disegno riformatore cui il Governo dovrebbe dare attuazione presentando, in occasione della prossima Conferenza nazionale dell'immigrazione, uno o più disegni di legge. La riforma dovrebbe riguardare oltre all'asilo, ingresso e soggiorno, l'assistenza sanitaria, la formazione professionale, l'istruzione (accesso alla scuola e all'università) e innovare la disciplina in materia di lavoro subordinato, di cui alla legge n. 943. Theo Van Doesburg, Città della circolazione (1929). ---------- ---- ------------ •., :. 8 - ., ... ·- - ... - - ......
.i>-l-'- BIAN(:O lXll.llOSSO iii•lil•P Le nuove norme rappresentano un primo passo della riforma e, pertanto, il segno positivo di un indirizzo che vuole svincolare la materia da mere valutazioni di ordine pubblico e pubblica sicurezza, in un contesto internazionale che non consente soluzioni improvvisate e unilaterali (come quelle adottate dalle molte circolari ministeriali surrogatesi all'inattività del legislatore) e che richiede soprattutto la definizione, almeno nelle sue linee essenziali, dati i brevi termini imposti, di una politica dell'immigrazione. L'impegno del legislatore in questa direzione esige un consenso politico non condizionato da situazioni contingenti, bensì coerente con un atteggiamento obiettivo e critico dei risultati che conseguiranno alla prima applicazione della legge n. 39. Tale coerenza è necessaria se si considera che la precedente legge n. 943 non ha, sostanzialmente, operato, salvo che per la parte relativa alla c.d. sanatoria (e, pure in questo limitato ambito in modo non soddisfacente) e che la concentrazione a livello comunitario (pur con i limiti conseguenti a un non completo trasferimento di sovranità dagli Stati alla Comunità, nella materia) non è semplicemente una scelta, ma un obbligo. Italia '90, non dimenticare i poveri di Luigi Di Liegro Parlare oggi di povertà nella nostra società che troppi analisti amano chiamare «postindustriale» sembra un goffo cedimento al cattivo gusto o un grave ritardo culturale. Fa rabbia che ci sia chi ne parli, mentre l'Italia delle imprese e delle concentrazioni mira alla conquista dell'Europa e del mondo. Sembra quasi un problema inventato o ozioso perché nelle società più avanzate la povertà dovrebbe essere, se non estinta, in via di estinzione, e gli altri tipi di situazioni sfavorite dovrebbero essere bloccate da interventi sempre più efficaci. Eppure le povertà restano. È inutile cercare di cancellarle a parole. Il fatto è che le politiche sociali, anche a causa della proliferazione di una burocrazia sociale fredda e talvolta corrotta, comportano molti punti deboli. Il fatto è che la politica sanitaria, quella edilizia, quella dei redditi, quella dei servizi di base, quella dell'educazione, il mercato stesso del lavoro incontrano ostacoli complessi, malgrado l'ampiezza dei budget che sono loro assegnati. A livello europeo si è ormai al varo del terzo programma di una azione coerente globale contro la precarietà. La solidarietà verso i poveri non è più limitata al proletariato dei tempi di crisi condannato alla disoccupazione di lunga durata, ma appare come una categoria sociale propria, vittima di un cumulo di precarietà: scolarità approssimativa, non qualificazione, esclusione da ogni forma di assicurazione sociale, fragilità o disgregazione familiare, assenza di una professione o di un mestiere, mancanza di una abitazione, accumulazione di disavventure di vario genere, basso reddito etc. Così lo sguardo sugli esclusi non si limita più al solo aspetto economico, anche se esso rimane essenziale. L'esclusione diventa anche questione di cultura: essere povero significa non accesso al sapere, non partecipazione alla vita sociale, non conoscenza dei propri diritti. Si tratta, cioè, di un problema di cittadinanza sociale oltre che economica, in quanto il sistema non garantisce a tutti i cittadini, di fatto, il medesimo di-
_i).tJ, BIANCO l.Xll,ROSSO Ui•iii•P diritto di vita e quindi di appartenenza, anche se lo proclama teoricamente. Questi problemi riguardano soprattutto le grandi città che devono far fronte ad una serie di limitazione di risorse insieme alla forte domanda di beni e servizi essenziali da parte di centinaia e centinaia di migliaia di cittadini che per ultimi hanno visto i benefici dello «stato assistenziale» e per primi ora ne pagano e più pesantemente la crisi. Le povertà, come privazioni complete o, come è più spesso il caso, relativo a beni e servizi ritenuti essenziali in un dato contesto sociale, sono un fatto. Rappresentano un fantasma ed il nemico per chi sogna di abolirle una volta per tutte. Diventano un problema per chi apre gli occhi sulle realtà e vede che lungo la scala delle possibili posizioni sociali molti stanno al di sotto ancora di una certa soglia che né lo spirito e neanche la lettera del nostro ordinamento civile possono legittimare. La frammentarietà dei dati esistenti proprio su quelli che dovrebbero essere i punti nodali da conoscere per programmare una politica sociale meno episodica e più efficace «dalla parte degli ultimi», fa pensare che stia venendo meno quel processo ideale di un ordinamento civile basato sull'impegno di tutti e perciò dello Stato a riequilibrare la produzione e l'accumulo delle risorse a favore di chi da solo o non starebbe in piedi o non potrebbe mai reggere il passo di altri più fortunati e più forti. Sembra piuttosto affermarsi una filosofia spesso implicita e quasi mai sottoscritta che in soldoni è quella del «visto che le risorse cominciano a mancare e finora lo Stato ha speso troppo, smettiamo di intervenire e vediamo chi riesce a nuotare da solo» o, da altra angolatura, «visto che lo Stato non ci arriva, rimbocchiamoci le maniche facendo appello alla solidarietà di tutti ed alla bontà di chi può». Sono molti a legittimare la convinzione che qualcuno deve pure sacrificarsi per il progresso e visto che nessuno, tranne santi ed amanti, si sacrifica volentieri, il sacrificio è meglio chiederlo a chi ha poco da offrire e niente da minacciare. Questa povertà non nasce, qui da noi, da mancanza di risorse collettive, ma il più delle volte è figlia di sprechi, inefficienze e distrazioni nell'apparato pubblico, e non si vede perché alla resa dei conti a pagarne le spese debba essere chi ne ha meno colpa e meno ne ha goduto i benefici. A questo proposito ricordiamo che uno, non l'unico e neanche forse il principale, ma uno dei fattori che ha influito di più nella corruzione della vita pubblica è stata certamente la grande massa di risorse finanziarie rastrellate dal fisco e messe a disposizione degli Amministratori pubblici per il potenziamento della sicurezza sociale e lo sviluppo dei servizi di base su vasta scala. Sono sufficientemente documentate le prove degli sprechi, delle inefficienze, delle distrazioni di pubbliche risorse, a tutto danno (ma a beneficio di chi?) della politica sociale più richiesta nei settori chiave dell'istruzione di base, dell'edilizia popolare, delle soluzioni di alloggi protetti per fuori famiglia ed emarginati, degli incentivi per vere cooperative di produzione e lavoro, dei presidi sanitari specializzati e di unità di assistenza domiciliare per persone dimesse dall'ospedale, dei ricoveri per lungodegenti, della riabilitazione e dell'inserimento per handicappati, etc. Parliamoci chiaro: l'internazionalizzazione dell'economia richiede, per essere solida e consistente, la contemporanea internazionalizzazione della società, o meglio la diminuzione dei divari che ancora persistono tra il nostro Paese e quelli più avanzati, per esempio sul terreno delle politiche sociali. Ma qui sta il punto: l'Italia «non» tutela affatto i suoi poveri in misura pari a quella degli Stati dell'Occidente. Anzi, siamo molto indietro nella classifica delle nazioni occidentali quanto a determinazione prima e a garanzia poi dello stesso reddito minimo per i cittadini più deboli. Non c'è bisogno né di una legge né di una riforma né di riconoscimenti particolari per garantire il lavoro, la casa, la tutela della salute, l'istruzione, il rispetto della propria dignità e la liberazione dalla paura di una vecchiaia allo sbando per chi ha tutta la cultura per capire l'importanza di questi beni e tutti i mezzi per procurarseli. La politica sociale ha importanza, invece, in un contesto di disuguaglianze che si vogliono se non combattere alla radice quanto meno ridurre e correggere nelle forme più gravi e nelle conseguenze più pesanti. Senza un grado sufficiente di protezione dei membri non forti della comunità, senza cioè un'adeguata misura concreta di solidarietà, non è possibile fondare su un basamento soli-
.P-tJ, lllAM:O lXII. HOSSO iii•iil•d do lo scontro planetario cui l'Italia vuole partecipare. Occorre, in altre parole, tenendo ferme le uscite statali, spendere meno altrove per divenire più europei nel sostegno di uno Stato sociale da rendere più efficiente, trasformando i poveri in cittadini. Una maggiore equità può essere la base di maggiore efficienza di uno Stato che si proclama «Stato dei diritti», che lotta per la «pari dignità» di tutti coloro che lo compongono, e che non può dirsi tale se, singolarmente, dimentica e abbandona i più deboli. Piccole imprese: meglio una legge subito di Gino Giugni Il referendum abrogativo della norma contenuta nello statuto dei lavoratori, che preclude l'applicazione della «tutela reale» dai licenziamenti (e cioè dall'obbligo di reintegrazione dei lavoratori licenziati senza giustificato motivo o senza giusta çausa) nelle unità produttive inferiori a 15 dipendenti, solleva delicati problemi di ordine giuridico e di equilibrio sociale. Il problema giuridico è ormai rinviato alla fase posteriore al referendum, all'ipotesi naturalmente che esso abbia un esito positivo. Ma non è di poco conto. A seguito di un malaugurato incidente procedurale (e cioè della mancata ammissione di due referendum paralleli e integrativi a quello indetto) non è ben certo se l'esito sarà di estensione anziché di ulteriore restrizione. La Corte costituzionale, che a fronte dell'ambiguità del quesito avrebbe fatto bene a dichiararlo inammissibile, ha precisato comunque che il senso è quello voluto dai proponenti, e cioè quello estensivo. Ma si sa che, in materia di interpretazione giuridica, tutto è possibile e più che mai in questo caso, che la spiegazione fornita dalla Corte non è da considerarsi vincolante; è un parere, sia pur autorevole, e nulla più. Certo, conviene attenersi all'interpretazione più ovvia, perché a questa con quasi certezza finirebbe per adeguarsi la giurisprudenza futura. Ma anche in questo caso è facile prevedere un periodo di intenso contenzioso, in cui a guadagnarci sarebbero più gli avvocati che i lavoratori. Daltronde, la presentazione dei referendum è la logica conseguenza di un'inerzia del Parlamento, che pure da anni si trovava di fronte a specifici disagi di legge, ed era premuto dai sindacati dei lavoratori ben sensibili al dato di fatto di una crescente occupazione - si parla di 5-7 milioni circa 1/3 di lavoratori - esclusi dalla forma anche più attenuata, persino dalla forma scritta di tutela dai licenziamenti arbitrari. La prospettiva è più allarmante, in termini di equilibrio sociale. Se il referendum dovesse conseguire il risultato proposto, a tutte le imprese, minime o artigiane che siano, escluso solo il lavoro domestico e le altre attività non produttive, si applicherebbe non solo il vincolo del «giusto motivo», ma la sanzione, in tali casi veramente insostenibile, della reintegrazione del lavoratore, con sentenza pretorile esecutiva anche se oggetto di appello. Come conseguenza, sarebbe da paventare non tanto, come si sente affermare, una minor occupazione, perché chi vuol operare sul mercato non si autolimiti per effetto di tali ed altri vincoli; ma, più probabilmente, una sommersione di tutta o di parte dell'attività produttiva, e un più ampio uso di forme atipiche di lavoro. Il tutto avrebbe come risultato la minor stabilità, anziché quello opposto, di garanzia della continuità e stabilità del lavoro voluto dal re-
i.)!1. BIANCO lX11.nosso iiiiiii•b ferendum. E d'altronde, è ben comprensibile la reazione di rigetto dei piccoli produttori ed esercenti. Il rapporto stabile si addice ad organizzazioni produttive che hanno un certo grado di flessibilità interna, di adattabilità ad un mercato mutevole. Poi a piccole unità che producono o smerciano un solo prodotto, e di fronte ad una qualunque oscillazione del mercato non hanno altra reazione possibile che quella di ridurre l'organico o il tempo di lavoro. Non si può integrare la vendita di scarpe, in caso di calo della domanda, con quella di (quali?) prodotti affini, solo per non licenziare i commessi. E, a tale livello di organizzazione e anche di cultura manageriale (e che cosa si può pretendere?), chiedere di elaborare una prova del giusto motivo da portare al giudice è quanto meno pretendere più di quanto non sia possibile adempiere, anziché ricorrere a trucchi e sotterfugi. Ed infatti, per tali unità, la soluzione più acconcia sarebbe stata, oltre alla forma scritta, che è il minimo indispensabile, l'impostazione di un procedimento di conciliazione. Oggi, a fronte di un referendum che propone un obiettivo ben più drastico, tale soluzione non sarebbe sufficiente. Ma altre, e ben accettabili, si possono proporre. La Camera dei Deputati ha pronto un disegno di legge che introduce, insieme a qualche vincolo inutile (come l'obbligo di motivazione contestuale alla lettera· di licenziamento, e qualche altro), un criterio che si sostanzia nella tutela «economica» (risarcimento del danno) in tutte le unità produttive (ovvero, gli stabilimenti, le agenzie, etc.) con meno di 15 dipendenti, che sono quelle oggi sprovviste di tutela (a meno che appartengano ad imprese con più di 15 dipendenti). Inoltre, se l'insieme dell'organizzazione aziendale supera i .50 dipendenti, andrebbe applicata la reintegrazione, anche se l'organizzazione stessa ·è frammentata in varie unità (si pensi che oggi può accadere che persino una piccola officina della FIAT sia esclusa dalla reintegrazione se non raggiunge i 15 dipendenti). Restano però aperti due problemi. Il primo è che anche se tra i buoni propositi del progetto c'è quello di favorire la conciliazione, non altrettanto favore esso dimostra nei confronti dell'arbitrato che potrebbe invece sottrarre la controversia sia al giudice sia all'avvocato (l'indennità minima è di due mensilità e mezza: è poco, e sarà sempre conveniente pagare il dipendente, piuttosto che un avvocato, la cui difesa è obbligatoria in giudizio - ma sembra giusto?). Il secondo è che forse aver localizzato solo il problema del licenziamento, e per di più con soluzioni inevitabilmente «leggere», non ha colto nella sua integralità il problema della condizione del lavoratore nella piccola impresa, che investe anche, e si integra con esso, lo svolgimento dell'attività sindacale, anche se, ovviamente, nei termini di compatibilità con il particolare ambiente di lavoro. Nel settore artigianale sono state già introdotte acconce misure per via di accordi collettivi. Perché non scegliamo questa strada della globalità, anziché puntare tutto sulla posta delicata del licenziamento, con il rischio di non soddisfare né l'una né l'altra parte? Il referendum non ha reso un buon servizio né ai lavoratori né alle piccole imprese, il cui impetuoso sviluppo è stata una delle principali cause, nell'ultimo decennio, della crescita economia del paese. Ma, ormai, i buoi sono scappati dalla stalla. È meglio una prudente legge che un «sì» (che mortificherebbe tali impulsi di sviluppo) o un «no» (che escluderebbe, per un lungo periodo, ogni possibilità di intervenire ad equilibrare un mercato del lavoro, oggi lacerato tra i lavoratori ben garantiti e gli altri privi di ogni garanzia). Le Corbusier, visione prospettica per «Una città contemporanea• (1922). : IZ
,P_lJ,1\1.\M:O lXII.HOSSO lii•iii•b L'altro pragmatismo di Rino Caviglioli Ad un sindacalista non s'addicono le asperità e gli anfratti della filosofia. Tuttavia il fare quotidiano lascia emergere una questione che costringe, per essere analizzata, ad un qualche richiamo speculativo. La questione è quella del modo di procedere pragmatico, oggi vincente, in molte grandi organizzazioni sociali e politiche. Ma il pragmatismo al quale si fa riferimento non è più parte di quel nobile indirizzo filosofico che affida il criterio e la misura della verità dei principi teorici alla loro efficacia pratica: se così fosse, quale migliore garanzia, per un attore sociale, di non cadere nei vizi dell'idealismo o anche solo dell'astrattezza che non quella di essere intriso di «spirito pragmatico»? Un pragmatismo così definito si farebbe punto d'incontro e sintesi tra il reale e le ambizioni progettuali, la voglia di andare oltre il senso comune e di sfiorare l'utopia: tra ciò che dà significato al lavoro e all'essere collettivo e la sua capacità, efficacia, possibilità di incidere sui processi sociali che effettivamente accadono. Sarebbe, in definitiva, una misura di verità e di pulizia intellettuale. Ma il «pragmatismo» di cui qui si parla è 'diventato altro. Grosso modo, esso è sorretto da questa filosofia minima. C'è una «evenienza sociale» ricca, indotta dall'operare di molti soggetti, individuali e collettivi, economici, politici, sociali. Ogni cosa che accade ha una sua specifica ragione d'esistenza. Le grandi organizzazioni sociali e politiche debbono limitarsi ad assecondare questa crescita, e, qualora si rendesse proprio necessario, intervenire nei casipiù evidenti di devianza e nelle occasioni di più duro conflitto. Sembra una filosofia del buon senso e dell'accortezza politica. È invece, più probabilmente, una concezione del fare politica pigra ed opportunista, che non rischia il conflitto proprio laddove esso sarebbe eticamente le- : 13 gittimato, cioè sui contenuti e sui modi dell'azione politica. E questo approccio «pragmatico» induce non pochi processi degenerativi. Qualunque elaborazione progettuale, qualunque tentativo di darsi una strategia di intervento, appare eccessivo, fuori misura, pretenzioso. E di conseguenza il lavoro culturale (ricerca, formazione, elaborazione politica) diventa progressivamente marginale, produce turbative considerate inutili. Il conflitto si fa sempre più allusivo, simbolico, non incide sui rapporti di potere, sul sistema delle disuguaglianze. La spinta per processi di trasformazione sociale prima s'indebolisce e poi s'arresta. La filosofia minima sopra ricordata s'affida all'immagine di una barca, che va guidata accortamente in un mare mosso da forze e divinità a noi sostanzialmente inaccessibili. Ma l'immagine è sbagliata. Noi siamo con Eolo, il dio dei venti. Siamo tra le forze che provocano i marosi. Noi, organizzazioni sociali e politiche collettive. Non godiamo perfino di un attributo «divino», quello di esercitare un potere anche istituzionale? Mi sembra più vera un'altra immagine. C'è una città da abitare. E tutti corrono, chiedono il meglio, ed hanno ragioni specifiche per farlo. Ma come non vedere che d'altro c'è bisogno? Di ragione, di interessi e logiche comuni, di progetti, di strategia, di politica infine.
,{)!I, nlANO) lXII.HOS..~ iii•iil•P Le lezione della pantera di Giorgio Tonini Sull'improvvisa e imprevista agitazione degli studenti universitari si è ormai detto tutto. Dopo le prime, e dunque acritiche mitizzazioni o demonizzazioni, sta emergendo un giudizio più articolato. I giovani che hanno dato vita alla «Pantera» non sono né terroristi, né riformisti; esprimono bisogni veri individuando nemici sbagliati; rivendicano il diritto, sacrosanto e assurdo insieme, che tutte le generazioni «scolarizzate» hanno rivendicato in questo dopoguerra: quello di ricominciare ogni volta da capo, di sbagliare da soli. Il vero rischio, dopo le risposte enfatiche in positivo o in negativo, delle prime settimane, è che alla tempesta dei primi giorni, che tutto sembrava travolgere, subentri la quiete un po' paludosa della cosiddetta «normalità», senza che la protesta abbia prodotto alcun effetto politico, cioè riformistico: poiché la rivoluzione è impossibile, ed è impraticabile persino la sua caricatura, ossia la richiesta di dimissioni del ministro e del governo, non resta che rassegnarsi alla smobilitazione graduale, paghi di aver non modificato, ma semplicemente stoppato, il tentativo, timido e parziale, di riforma Ruberti, con il conseguente trionfo, l'ennesimo trionfo, dello status quo, del quale fanno ormai parte integrante anche i periodici imbrattamenti delle mura delle aule e degli edifici universitari. Alla fine, la vera lezione che può trarsi dalla vicenda della «Pantera» è che questo sistema politico è strutturalmente incapace di produrre qualsiasi riforma e di dare a qualunque movimento sociale altra risposta che non sia il muro di gomma dell'immobilismo. Questo del resto è ciò che è accaduto nel confinante mondo della scuola, nel quale movimenti studenteschi a corrente alternata e Cobas hanno prodotto come unico risultato una (modesta) rivalutazione delle retribuzioni degli insegnanti. E invece, di interventi di riforma, di massicci investimenti non solo economici, ma anche di cultura organizzativa, nella scuola, come nell'università, il nostro paese ha un bisogno sempre più forte. La scuola italiana, nella quale pure non mancano, anzi per molti versi abbondano, energie intellettuali e risorse morali, appare infatti per molti versi un vascello alla deriva, privo non solo di un nocchiero, ma anche di una rotta incerta. A quindici anni di distanza, gli amati-odiati «decreti-Malfatti» restano l'ultimo tentativo di dare alla scuola una direzione di marcia. Poi, più nulla, se non i mille fiori delle sperimentazioni sparse, diffuse ormai in quasi tutte le scuole, fuori da precisi criteri e nella completa assenza di qualunque verifica. E così la scuola italiana, anche lei, è messa al guado. Poco può venirle dal palazzone umbertino di viale Trastevere, progettato come monumento all'onnipotenza dello Stato unitario e oggi divenuto uno dei principali simboli della sua impotenza. Ma ancora poco può fare da sola, perché troppo gracile è la sua autonomia, sul piano giuridico, come su quello economico e su quello culturale. I risultati di questa condizione di paralisi progettuale sono allarmanti, in termini di produttività sociale del sistema formativo italiano. Nel nostro paese, su 100 ragazzi che intraprendono gli studi, solo 50 superano la soglia del primo biennio della scuola secondaria superiore. Quest'ultima registra un tasso di abbandono del 35%, mentre l'Università, con oltre 1.700.000 iscritti, riesce a produrre ogni anno solo 70.000 laureati. Nell'anno scolastico 1987-88, gli iscritti alla prima media inferi ore erano 992 mila, gli iscritti alla prima media superiore 766 mila.
_\).tJ. HIAM:O l.XII.HOSSO iii•iii•il Ma alla maturità sono arrivati solo in 400 mila: ciò significa che quasi mezzo milione di ragazzi si è perso per strada. Non sorprende allora che nel 1981 (dati del censimento) ben il 55,5% (la maggioranza assoluta!) della popolazione italiana oltre i 14 anni risultasse ancora priva di titolo di studio, o al massimo con la licenza elementare. Non si tratta solo della sopravvivenza, ormai in fase di riassorbimento, per così dire, «biologico», della bassa scolarizzazione delle generazioni più anziane: ne è prova il fatto che ben 2 milioni e mezzo di giovani al di sotto dei 29 anni non ha completato l'obbligo; e che ogni anno, su un milione di giovani che escono dal sistema formativo, ben centomila non ha neppure la licenza media, 500 mila hanno al massimo quella, solo 124mila arrivano al diploma ,! ... '·~-=====-:;::=::::.: \.,....,,,. ' ·+/·\/·:·:.·, ··.,. ,,,,a,,. di scuola media superiore e appena 70 mila (il 70/o !) alla laurea. Ne consegue che la forza lavoro italiana è tra le meno qualificate del mondo industrializzato: la media di anni di scuola frequentati dal lavoratore italiano è di otto, un livello assolutamente inadeguato a sostenere la concorrenza internazionale, in un'epoca nella quale le risorse immateriali stanno assumendo una rilevanza del tutto inedita. Ed è allora difficile non mettere in correlazione questi dati con quelli sulla disoccupazione giovanile e sulla delinquenza minorile, non a caso particolarmente allarmanti nelle aree, soprattutto del Mezzogiorno, ove più evidente è il degrado del sistema scolastico. Più generalmente, è difficile non ricavare da questi dati la conferma, l'ennesima, del fatto ,.,.,,. .. . " ,l ..... ,,;1 1 - ' ,, Le Corbusier, Pianta di "Una città contemporanea" per tre milioni di abitanti, (1922). = 15
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