Il Bianco & il Rosso - anno I - n. 1 - febbraio 1990

B .P-lL BIANCO '-XltllOSSO •i1Hk11Aiil• La • • CflSl dei • • comun1sm1 di Luigi Ruggiu Il 1989 è stato l'anno delle grandi rivoluzioni democratiche. Sia di quelle vittoriose nei Paesi dell'Est, sia di quelle che, nel nome del comunismo, sono state soffocate nel sangue, come è accaduto in Cina. Esse concludono l'esperienza di blocco politico militare nata a Yalta, ma non concludono ancora Yalta. Insieme costituiscono l'atto finale della consunzione dei "comunismi". Quelle realizzate, o quelle in via di realizzazione. Le esperienze che si concludono non lasciano aperte vie a nuove esperienze possibili. Ciò che si è infatti consumato è appunto quello sfondo comune che ha reso possibili i vari comunismi, e cioé il comunismo come teoria ecome prassi, come movimento politico e ideale che si è espresso in analisi teoriche, in proposte di società, di economia e di stato, di libertà e di democrazia. Occorre portare la riflessione in profondità. Senza infingimenti, e senza complessi, con onestà. Occorre prendere atto che il comunismo non costituisce il massimo di espansione e di realizzazione possibile della democrazia - sostanziale, e non solo formale -, ma che esso ormai viene visto in modo esplicito come incompatibile non solo con ogni forma di democrazia, ma anche con ogni forma di sviluppo economico e sociale. Si è ritenuto di poter scindere, nel concetto e nella realtà, i due termini. Si è creduto che la scissione fosse temporanea, e potesse essere accolta in vista della piena realizzazione della emancipazione. Si è dovuto prendere atto, magari nel sangue, che i due termini non possono essere scissi senza piombare nella barbarie. Si deve quindi prendere atto che la rivoluzione democratica ha avuto come obiettivo primario la liberazione dal comunismo. Hanno gridato "mai più comunismo" non i nemici dichiarati del comunismo, ma quanti nel comunismo hanno creduto, quanti da esso hanno atteso emancipazione e libertà. Quello squarcio vuoto al centro delle bandiere rumene testimonia la cancellazione di un simbolo del passato come apertura di una nuova speranza. La perestroika di Gorbaciov l'ha reso possibile. Certamente, in quanto ha creato le condizioni internazionali di possibilità. Ma il comunismo muore non, come crede Gorbaciov, affinché esso viva rinnovato. E quindi, affinché, nei tempi lunghi, possa essere considerato come la tappa intermedia di una fase del rinnovamento. Sussisterebbe quindi un nesso di necessità tra il primo evento e il secondo. In realtà, del ragionamento è vera la prima parte, ma del tutto falsa la seconda. Occorre invece rovesciarne i termini: è in quanto il comunismo è fallito, che si è aperta la fase gorbacioviana. E questa fase si conclude, per ragioni storiche del tutto peculiari, e coerentemente, con la liquidazione del comunismo - del partito, ma anche della sua cultura, delle sue politiche, delle sue istituzioni - nei Paesi del1'Est. La cultura e la pratica del comunismo è stata vista, in URSS come altrove, come incompatibile con le istanze dello sviluppo. E per ridare spazio allo sviluppo - della sostanza economica e insieme della forma e della sostanza politica - si ritiene essenziale liberarsi anche dei segni che lo hanno nominato. Ma il nome è la cosa. La scomparsa della cosa, lascia il nome come ricordo di un passato di orrore. La liberazione del passato, esige la liberazione dalla cosa e dal suo nome. Ma "la cosa" è appunto la cosa del comunismo. Non di un "certo" comunismo. Quasi che, tuttavia, restasse pur sempre aperta - o addirittura proprio per questo aperta, come taluno dice -, la questione del "vero" comunismo, del "nuovo" comunismo, dell'ideale del comunismo. Questo è detto ancora nel PCI - par-

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