Il Bianco & il Rosso - anno I - n. 1 - febbraio 1990

~.li.BIANCO l.Xll,ROSSO 11111 ili i ii iii Pazienza e profezia del vero riformismo Riprendiamo alcuni brani dal discorso di Filippo Turati al XVII Congresso del Partito Socialista Italiano (Livorno 15-21 gennaio 1921). Era il 19 gennaio, e le cose stavano precipitando verso la rottura da cui nacque il PCI. Difficile, alla luce di 70 anni di storia, negare l'attualità e l'anticipazione profetica di queste parole, in cui è descritta la 'vera e positiva rivoluzione', che avviene nella scelta democratica e nella 'azione che attua le riforme'. Il clima che si viveva in quei giorni, al Teatro Goldoni, era ribollente. Quella stessa mattina 'L'Ordine Nuovo' era uscito con un attacco diretto a Turati: 'Prenda Turati il cadavere de/fu Partito Socialista e ne faccia sgabello per la sua ambizione senile. Comunisti, Avanti!' Turati risponde con la calma del politico vero, e analizza il presente, anticipa i/futuro, arrivando esplicitamente ad annunciare il ricongiungimento, per quanto ancora lontano. Va ricordato che già da parecchi mesi Lenin in persona insisteva per la rottura, per la cacciata di Turati e dei riformisti. Il 30 luglio del 1920, in riferimento esplicito alla situazione italiana, Lenin ('Sul Movimento Operaio Italiano', Roma, 1962, p. 196) aveva detto seccamente: 'La tendenza riformista non ha niente in comune con il comunismo'. Fu una scissione voluta da Mosca, e il prezzo lo ha pagato, certamente, tutta l'Italia. L'anno dopo iniziava l'era fascista. La storia non si fa con i 'se' e con i 'ma', e tuttavia ci si può chiedere se senza la rottura di Livorno sarebbe stata egualmente triste. In ogni caso il tempo, anche stavolta, è stato galantuomo. Nel leggere la 'profezia' sullafine del bolscevismo, e sul 'nazionalismo orientale' che non è giusto 'seguire - - di Filippo Turati ciecamente', non si può non ammirare la lucidità dei giudizi. Turati fa appello alla 'lezione de/l'esperienza, e delle cose'. E' un discorso che vale anche oggi. (g.g.) • • • ... Il compagno Terracini ieri enunciava come un segno di distinzione fra la loro schiera e la nostra, fra il programma antico e quello tutto nuovo, che egli vorrebbe sostituire in blocco al vecchio e glorioso programma del Partito socialista ... la conquista del potere da parte del proletariato costituito in Partito indipendente di classe. lo posso dunque amichevolmente sorridere di questa novità e di questa scoperta, che furono l'anima della nostra intelligenzae della nostra vita da che cominciammo a pensare. Non è questo che ci distingue oggi. Ciò che ci distingue non è la generale ideologia socialista; ... è unicamente la valutazione della convenienza di determinati mezzi episodici della lotta. La violenza, che per noi non è un programma, non può e non deve essere un programma, che alcuni accettano in toto e vogliono organizzare e preparare - i cosiddetti comunisti puri, chiamateli come volete - che altri accettano a mezzo, guadagnando tutte le conseguenze dannose e nessun utile che la violenza potrebbe per avventura, nella mente di quegli altri, contenere in sé, noi come programma, la rifiutiamo. La dittatura del proletariato, per noi, o è dittatura di minoranza, e allora è imprescindibilmente dispotismo tirannico, o è dittatura di maggioranza, ed è un vero non senso, perché la maggioranza non è dittatura, è la volontà del popolo, è la volontà sovrana. E da ultimo, altro segno di distinzione, il proposito della costrizione del pen33 siero all'interno del Partito, la persecuzione dell'eresia, da cui nasciamo, nostra madre, o figliuoli, o fratelli carissimi, come direbbe un predicatore (ilarità), la persecuzione della eresia nell'interno del Partito, che fu l'origine e la vita stessa del Partito, la sua forza rinnovatrice ad ogni istante, la garanzia che esso possa lottare contro tutte le forze intellettuali e materiali che gli si parano di fronte. Tutte forme queste - violenza, culto della violenza, dittatura del proletariato, persecuzione dell'eresia - che si risolvono in una sola: nel culto della violenza interna, dirò così, e esterna, e che hanno un solo presupposto - semplifichiamo la questione nella quale è il vero punto di ogni nostra divergenza - e cioè quello - che per noi è l'illusione - che la rivoluzione sociale, intendiamoci, non una rivoluzione politica, che abbatte e cambia sistema, sia il fatto volontario di un giorno o di un mese o di qualche mese, sia l'improvviso alzarsi di un sipario, il calare di uno scenario nuovo, sia il domani di un posdomani di un calendario, mentre è il fatto di ieri, di oggi, di sempre, che esce dalla viscere stesse della società capitalistica, di cui noi creiamo soltanto la consapevolezza, che noi possiamo soltanto agevolare nei molteplici adattamenti della vita politica, ma non possiamo né creare, né apprestare, né precipitare, che dura dei decenni, che si avvererà tanto più presto quanto meno lo sforzo della violenza, quanto meno il culto della violenza provocante, bruta, prematura, e quindi destinata al fallimento, esasperando resistenze avversarie e provocando reazioni e controrivoluzioni, le ritarderanno il cammino e l'obbligheranno di ritornare su se stessa. (... ) Questo culto della violenza che la

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