Il Bianco & il Rosso - anno I - n. 1 - febbraio 1990

..Q.-l.t BIANCO l.XII. nosso I I''"" fil•iitfMun Sviluppo e disarmo di Mario Sepi Mentre spariscono gli ultimi bastioni del socialismo reale nell'Europa centro-orientale, diventa sempre più pressante l'esigenza di unarisposta dell'Europa occidentale all'altezza dei gravi problemi economici che i nuovi regimi democratici dovranno affrontare. L'attuale dislivello economico tra Est ed Ovest di Europa diventa ancora meno logico in un momento in cui i muri vengono abbattuti e la vecchia cortina di ferro diventa un vero ferrovecchio. L'apertura delle frontiere può evitare sconvolgimenti politici, migrazioni selvagge, rinascita di nazionalismi esasperati, disordine politico solo nella misura in cui accanto ai sacrifici i cittadini dei paesi dell'ex-socialismo reale, intravvedano, in fondo al tunnel, la luce di uno sviluppo reale garantito dalla solidarietà concreta dei paesi occidentali. Finora le promesse sono state tante, gli interventi invece episodici ed inadeguati, specialmente da parte dell'Italia, dove alle grandi dichiarazioni e all'attivismo diplomatico non ha certo corrisposto quello sforzo economico concreto che li rendesse credibili. Fino al gennaio '90 sono 150i milioni di lire stanziati nelle rigide pieghe del nostro bilancio, e non è mancato chi, malgrado l'irrisorietà di questa cifra, ha cominciato a gridare a difesa della finanziaria, né chi ha tentato di scaricare, sul fondo per la cooperazione con i Paesi in via di sviluppo, i maggiori oneri che esige una politica di solidarietà europea. Il problema è indubbiamente reale. Un paese con un debito pubblico come l'Italia non può impunemente aprire i cordoni della borsa senza cadere in una situazione difficilmente controllabile. Dirottare d'altra parte i fondi destinati al Sud del mondo verso l'Europa ex comunista oltre che inopportuno politicamente, significa venir meno ad impegni ufficiali già presi e distruggere quel minimo di prestigio che, malr-- 1 30 grado tutto, la cooperazione italiana ha raggiunto nella sua politica di cooperazione. Non resta perciò che attingere ad altri capitoli di spese senza intaccare gli equilibri della finanziaria. Se questa è l'unica soluzione logica non c'è dubbio che la spesa per la difesa è il capitolo di bilancio più facilmente ed immediatamente riducibile e più logicamente connesso con il problema di una robusta politica di solidarietà verso l'Est. Una connessione che si potrebbe definire biunivoca, nel senso che innanzitutto i processi di democratizzazione in atto e la prevedibile conclusione positiva della trattativa di Vienna sulle armi convenzionali rendono oggettivamente possibile ridurre le spese per una politica di sicurezza militare che vedeva i principali, se non gli unici rischi provenire da quella direzione. Oggi inoltre è probabile che per la sicurezza all'Est sia più necessaria la crescita di un tessuto economico stabilizzante piuttosto che due divisioni in più in Friuli o il progetto di un aereo incursore o intercettore (per accennare a due dei più costosi programmi iscritti in bilancio). Riduzione degli apparati di difesa sulle frontiere orientali e sviluppo economico e democratico in questi paesi possono cioè essere visti come due facce della stessa medaglia, e stupisce che ancora nessuno abbia colto l'evidente validità politica di questo nesso. L'intervento a favore dei paesi dell'Europa centro-orientale dovrebbe servire, al di là del1'emergenza immediata, ad una ristrutturazione industriale ed economica di grandi dimensioni che richiede oltre alle riforme istituzionali, i cui effetti vengono sopravvalutati soprattutto ad Est, investimenti in uomini e mezzi cospicui multilaterali e bilaterali. Il Ministero della Difesa spenderà quest'anno oltre 22.000 miliardi, una cifra considerevole, anche se già autoridotta di circa 600 mi-

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