itl-tt BIANCO '-XltROSSO •h•#hid Uguaglianza e Meridione C'è una diseguaglianza all'opera sul territorio nazionale, che separa le regioni del Mezzogiornod'Italia da quelle del Centro-Nord: le prime sono indietro alle seconde per livello di reddito e di consumo pro-capite e per tutti gli indicatori di benesseresociale. Ma c'è anche una diseguaglianzache agisceall'interno dell'area meridionale, tra diversi strati della popolazione. È su quest'ultima che intendo qui soffermarmi. Sulla prima si è già scritto tanto ed è ormai opinione condivisa a sinistra che non bastano misure redistributive, tra il Nord e il Sud del Paese, per accorciarla. I divari che si manifestano all'interno del Mezzogiorno, tra i diversi gruppi sociali, sono ampi e più stridenti che altrove. La misura statistica della maldistribuzione del reddito (il coefficiente di concentrazione dei redditi personali) è più alta nelle regioni meridionali rispetto al resto del Paese. Andiamo al di là di questa misura e vediamo quali sono i fattori che portano ad ampie sperequazioni non solo di reddito, bensì anche di status sociale nel Mezzogiorno. Il primo fattore è l'ampia disoccupazione lavorativa che flagella le regioni meridionali e che colpisce sempre di più i giovani, particolarmente le donne nelle classi di età più giovane. Alcuni ritengono che la disoccupazione com'è rappresentata dalle rilevazioni periodiche delle forze di lavoro (effettuata trimestralmente dall'Istat) sia sopravvalutata: più di un milione e mezzo di meridionali sono registrati come persone che cercano attivamente un lavoro. Può anche darsi che sia così. Ma è indubbio che c'è una tendenza all'aumento degli inoccupati e, per quanto il numero di quelli che veramente cercano un lavoro possa essere inferiore ai dati ufficiali, si tratta pur sempre di cifre vistose. I disocdi Mariano D'Antonio cupati meridionali ovviamente non sono totalmente privi di un lavoro. Quelli che sono registrati come tali per mesi e per anni, è chiaro che qualche attività la svolgono: svolgono un'attività precaria, mal retribuita, priva di ogni tutela contrattuale e previdenziale. È già questa una causa potente di discriminazione dei lavoratori, di separazione tra chi gode dei diritti elementari sul luogo di lavoro, e chi non gode di alcun diritto. Se poi il disoccupato è un cittadino/una cittadina che preferisce rinviare la scelta anche di un lavoro precario, s_es'impegna in un'attività di formazione, se occupa il suo tempo a cercarsi un lavoro regolare, in tali casi si tratta di una persona che grava sul bilancio della famiglia, che sopravvive grazie ad una redistribuzione privata del reddito. Le famiglie monoreddito sono ancora diffusissime nel Sud, e non è raro il caso di un giovane che supera la soglia dei trent'anni e viveancora a carico dei genitori. Un altro fattore di maldistribuzione dei redditi personali è costituito nel Mezzogiorno dallo stato comatoso in cui è lasciata la Pubblica Amministrazione, specie gli Enti locali. I servizi pubblici che queste Amministrazini erogano ai cittadini sono simultaneamente esigui (in quantità) e pessimi (in qualità). Risultato di ciò è che i cittadini meridionali sono costretti a monetizzare ciò che il settore pubblico non concede loro, sono costretti a pagare di tasca propria un'assistenza sanitaria decorosa, un'istruzione appena sufficiente per i loro figli, sono costretti ad usare intensamente l'automobile perché privi di mezzi collettivi di trasporto, e così via. Naturalmente non tutti possono pagarsi questi servizi che altrove sono meglio erogati dagli Enti locali (pensiamo alla situazione da avanzato welfare che ca- ■ J4 ■ - - - ratterizza specie le regioni dell'Italia Centrale). Chi può pagarseli, è un nucleo molto ristretto della popolazione, gli altri fanno a meno dei servizi pubblici fondamentali, oppure accettano quello che il convento gli passa. Sicché la divisione ulteriore che si verifica, è ali 'interno di coloro che godono di un reddito regolare da lavoro. È la divisione tra chi guadagna tanto da permettersi la fruizione privata di servizi sulla carta disponibili per tutti, e chi guadagna poco e deve sottostare alla scarsità o allo squallore di questi servizi. La sperequazione è poi particolarmente acuta nelle città medio-grandi del Mezzogiorno. Qui un ceto politico rissoso, che si autoriproduce per partenogenesi, che non accetta alcun intruso (intruso è chi non fa della politica una professione esclusiva o eterna), ha portato la condizione urbana ad un esito disastroso. Vivere oggi a Napoli o a Palermo è accettabile solo per una fascia esigua della popolazione. Approssimativamente si può dire che il reddito minimo necessario per sopravvivere in queste città è almeno una volta e mezzo più alto rispetto ad una città del Centro-Nord. E poiché ci siamo trovati a parlare del ceto politico meridionale, si può accennare ad un terzo fattore che sta all'origine delle diseguaglianze all'interno del Mezzogiorno. È il fattore specifico della politica. Negli anni del dopoguerra (forse per più di trent'anni dalla fine della guerra) la milizia politica è stata nel Mezzogiorno un formidabile generatore di mobilità sociale: la piccola borghesia intellettuale che non sarebbe mai riuscita a migliorare sul mercato la propria condizione (perché-squattrinata e perché il mondo degli affari le era precluso), ha trovato nell'impegno politico una via d'uscita dal ghetto in cui era
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