Il Bianco & il Rosso - anno I - n. 1 - febbraio 1990

squilibri è vero per quanto riguarda la sanità, la scuola e la formazione, la casa e l'abitare. Il problema è che queste conquiste da un lato sembrano ben lungi dall'essere irreversibili, dall'altro lasciano scoperta una fascia significativa di persone. In questi anni si è parlato molto, giustamente, di revisione del welfare state, di una sua trasformazione in welfaresociety, cioé nella capacità di coinvolgere e di responsabilizzare l'utenza e più in generale la società civile nelle forme del volontariato e dell'associazionismo. In realtà quello che è andato avanti è piuttosto il tentativo di creare un welfare residualee assistenziale, una sorta di stato sociale dei poveri, col rischio di strutture o prestazioni di qualità inferiore, accentuando così insoddisfazioni e frustrazioni presso le categorie di lavoratori dipendenti che sono chiamati a finanziare i servizi col loro reddito. In realtà questi problemi rivelano un cambiamento di fase. Lo stato sociale è sorto perché voluto allo stesso tempo dalle imprese e dai lavoratori. Era interesse anche delle imprese che i lavoratori godessero di un certo benessere sociale per potersi dedicare meglio alla produzione. Ora però l'attenzione del capitale è venuta allargandosi ben oltre i campi della produzione, investendo quelli della riproduzione sociale. Sanità, formazione, tempo libero sono divenuti terreni importanti della valorizzazione capitalistica e si sviluppano pressioni per derubricarli da componenti di una sfera sociale riservata. Pressioni non solo sul governo, ma sulla stessa opinione pubblica con una certa efficacia verso ampi strati sociali anche di lavoratori dipendenti. Ma al di là del destino dello stato sociale è un fatto che lo svilupparsi del benessere è accompagnato da una forte polarizzazione. Vi è polarizzazione a livello internazionale fra paesi ricchi e paesi poveri, ma vi è polarizzazione anche all'interno degli stessi paesi. Con una notazione aggiuntiva, che la polarizzazione in basso nei paesi privilegiati - dei quali il nostro indubbiamente fa parte - più che in termini di povertà si caratterizza ormai come emarginazione. Contribuiscono a questa trasformazione della povertà in emarginazione due fatti. Il primo è la condizione numericamente minoritaria che la povertà ha .{)J.I.BIANCO \XltllOSSO 11i)1ihld in paesi come il nostro. Si parla di società dei due terzi intendendo che qui la grande maggioranza ha raggiunto un grado di integrazione sufficiente sia sul piano sociale che su quello economico. Questo non può non avere riflessi politici in società democratiche governate sulla base del consenso. I poveri non possono più contare sul deterrente del numero, come in qualche modo era avvenuto per il passato. La seconda è la condizione disaggregata, con la mancanza di un polo di riferimento, che oggi caratterizza la povertà. In passato questo ruolo di polo l'aveva svolto il movimento dei lavoratori che, a partire anche dalla centralità della fabbrica nel sistema sociale, offriva agli strati sociali subalterni una promessa ed una prospettiva di riscatto. Oggi non vi è più centralità nella fabbrica ed è sempre più difficile configurare i lavoratori come una classe con una loro identità dentro e fuori i cancelli della fabbrica. : 22 Ma la formula dei due terzi per descrivere questa nuova società è notevolmente imperfetta. Permette di inquadrare in qualche modo la debolezza del polo minoritario ma non ci dice niente su quello maggioritario. Ce lo presenta come un tutto indistinto mentre esso in realtà è caratterizzato da forti asimmetrie. Di esso fanno parte categorie di lavoratori che hanno raggiunto un certo benessere, ma anche i grandi potentati economici e sociali. È anzi il moltiplicarsi di questi gruppi di potere su una varietà di terreni e con influenza anche sulla sfera sociale e civile (ordine pubblico, giustizia, diritto di comunicare) una delle caratteristiche delle società di mercato avanzate. Questo fenomeno mette in crisi la regola 'laica' di base della società di mercato che vuole che non si prevarichi sugli altri per non dovere essere prevaricati a propria volta. Questa regola in presenza di asimmetrie di potere forti non vale più. Sono molti quelli che possono prevaricare sapendo di poterlo fare impunemente. E qui gli esempi presi dalla cronaca di tutti i giorni si sprecano. La società di mercato abbandonata alle proprie logiche crea asimmetrie, e le asimmetrie finiscono col disarticolare il tessuto sociale, di cui pure il mercato ha bisogno. È una contraddizione forte che ripropone l'attualità del valore dell'uguaglianza. Ma è possibile oggi inverare questo valore? Penso di si, a condizione che si ricominci a riflettere su un pensiero politico forte non subalterno alle logiche selvagge del mercato. Un pensiero politico che si fondi su un fondamento etico più forte di quello del non prevaricare per non essere prevaricato. Quale? Oggi la gente, lo abbiamo visto, aspira con una determinazione inedita a dare senso e qualità alla propria vita. Bisogna fare comprendere quanto questa qualità sia fragile se si fonda sulle esclusioni e sulle emarginazioni e come diventi illusoria di fronte ad asimmetrie pronunciate. Bisogna far capire che il 'ripartire dagli ultimi' rendendoli protagonisti - di cui i Vescovi italiani parlavano in una Nota pastorale del 1981 ("La Chiesa italiana e le prospettive del paese") - non è una indicazione caritativa soltanto, ma la condizione imprescindibile per costruire una società ricca di qualità sociale.

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