B mensile di dibattito politico . · sommario 1 EDITORIALE: Riformismo e Solidarietà di P. DOSSIER: L'uguaglianza tra politica, etica e mer- 15 Camiti cato interventi L. Ruggiu, G.P. Cella, S. Antoniaz4 La crisi dei comunismi di· L. Rilggiu zi, F. Vigevani, S. Scaiola, M. Giacomantonio, M. Bertin, M. D'Antonio, E. Gabaglio, A. Scarpellini, 6 Ideologie in crisi, religione, etica, nell'Italia di oggi, Biblo di G. Gennari 8 Cattolici italiani e solidarietà:forza e debolezze, preL'EUROPA E IL MONDO: Sviluppo e disarmo, di 30 sente e futuro, di S. Ceccanti M. Sepi Europa orientale, tra novità e rischio di M. Martini 31 10 Movimento '90: Quando il coperchio salta di G. Guzzetta DOCUMENTO: Pazienza e profezia del vero rifor- 33 11 Tra l'etica e il fare politico di R. Caviglioli mismo di F. Turati 13 Riformismo socialista e solidarismo cristiano di G. SERVIZIO FOTOGRAFICO: Bambini Rom di A. Gherardi Cristini Riformismo e Solidarietà di Pierre Camiti La nascita di un nuovo periodico suscita, normalmente, due domande: «Chi c'è dietro»? E «che cosa si propone»? Dietro questo giornale c'è l'associazione «Riformismo e Solidarietà». È una associazione promossa e sostenuta da persone prevalentemente impegnate nella cultura, nelleprofessioni, nel sindacato, nella cooperazione, nelle organizzazioni del volontariato, sia interno che internazionale, ed aperta a tutti coloro i quali ritengono che alla esasperata cultura dell'individualismo e della competizione, che ha tenuto il campo negli ultimi anni, si debba opporre un riferimento ai valori di uguaglianza e di solidarietà. Uguaglianza non intesa, ovviamente, come omogeneità forzosa, come requisito alla formazione di nuove masse anonime, ma come l'insieme delle possibilità che attribuiscono
B i.).tJ. BIANCO \Xlt ltOSSt, 1ID•k11Jiii 1 cittadinanza a ciascuno e che gli consentono di rispettare e sviluppare la propria personalità. La condizione perché ciò sia possibile resta la solidarietà, cioè la tendenza a riconoscersi in un comune destino al di là dell'immediato. La solidarietà è un'esperienza secolare del mondo del lavoro, che oggi deve però varcarne le frontiere per esercitarsi nei confronti dei nuovi esclusi. Poi la domanda: «che cosa si propone?» La risposta è altrettanto semplice, anche se necessariamente meno breve. * * * Il mondo cambia. Gli avvenimenti straordinari ed inaspettati del 1989stanno mutando l'aspetto dell'Europa. Essi si presentano nella combinazione inconsueta della rivoluzione e della riforma. Di pressione dal basso e di trasformazione dall'alto. Ciò che è avvenuto nei paesi dell'Est, negli ultimi mesi, ha superato l'immaginazione anche degli osservatori più fantasiosi. Ci sono ragioni per esaltarsi di fronte alla rapidità ed alla profondità del cambiamento. La nuova libertà per milioni di persone è la cosa più importante. Non meno importante è la fine di uno status quo soffocante. L'entusiasmo, però, da solo non basta. Eravamo impreparati al cambiamento, ma non possiamo restarlo a lungo. Le conseguenze di quanto è avvenuto investono, in primo luogo, le prospettive delle istituzioni politiche e sociali ed il ruolo che l'Europa saprà darsi nella comunità internazionale. Ciò che essa vorrà, o potrà, essere 'tra gli altri', e come, in un mondo sempre più interdipendente ed 'aperto' saprà decidere del suo futuro. * * * C'è chi giudica positive le divaricazioni tra sentimenti ed intelligenza. Se però tutto dipendesse dalla forbice tra intelletto e sensibilità sarebbe difficile essere ottimisti. Ovunque, infatti, tranne che in Inghilterra, la coscienza è per l'Europa. Nello stesso tempo ovunque, tranne che in Italia, il cuore è per il proprio paese. Questo scarto tra il cuore e la coscienza non può essere lo spazio dell'Europa unita. Occorre, al contrario, colmare la distanza tra l'uno e l'altra, per vedere con chiarezza i termini dei problemi che dobbiamo affrontare e risolvere in vista dell'integrazione europea. La fatidica scadenza del '92, infatti, non sanerà da sola il deficit di bilancio, le diseguaglianze sociali intollerabili, il degrado delle nostre città, il crescente divario . . . - . -.. . 2 del Mezzogiorno, le magagne del traffico e del1' ambiente. Al contrario, aggraverà tutti i mali che non saranno tempestivamente affrontati ed eliminati. L'abbattimento delle barriere pareggerà le condizioI}i di mercato e quindi privilegerà le strutture produttive più forti. Nello stesso tempo lascerà inalterate le divisioni burocratiche ed amministrative tra Tesoro e Tesoro, tra Regione e Regione, tra Fisco e Fisco. E dunque aggraverà i mali di chi non avrà messo a posto quel che si doveva mettere a posto prima che ci pensi il mercato a sistemare le cose. Si può pensare che sarà sempre possibile ricorrere ai rinvii, alle deroghe, mendicare sospensioni, mettersi in aspettativa. Ma sarebbe l'inizio di una inesorabile deriva verso una solitudine senza sovranità e senza futuro. * * * Il mondo cambia. La storia accelera e l'Italia non può perciò pensare di restare ferma. Deve adeguare le strutture economiche, ma anche le sue istituzioni e la sua cultura politica. Sempre più urgente diventa quindi l'esigenza di affrontare le questioni che aggrovigliano il sistema politico e la sua dinamica. Finora privo di reali possibilità di alternativa il nostro sistema politico è del tutto anomalo rispetto al resto dell'Europa e delle principali democrazie. Questa peculiarità rende più ardua la soluzione dei problemi e contribuisce, non poco, al mantenimento della democrazia italiana nell'attuale stato di impotenza ed anche di degrado morale. Di fronte all'evidenza delle difficoltà emergono, talora, preoccupanti sintomi di crisi della politica che possono trasformarsi in crisi di consenso, di potere, di autorevolezza. Esistono e non vanno sottovalutati diffusi segnali di delusione e di disamore per i partiti e la politica. In realtà, però, essi sembrano esprimere più che il rifiuto della politica, la domanda di una nuova e diversa politica. Una politica che affronti il problema della utilizzazione della scienza e della tecnica come strumenti di liberazione anziché di asservimento dell'uomo; in funzione della difesa dell'ambiente e del miglioramento della qualità della vita. Una politica che non si fondi sulla sopravvivenza di vecchi equilibri di dominio e di potere in cui si elargiscono in modo clientelare benefici in cambio di opportunistico consenso. Una politica che attui una rigorosa riforma morale. Che ritrovi, assieme alla esigenza di rinnovare se stessa, la capacità di indicare mete collettive di cambiamento, obiet-
.P.U~ BIANCO lXltllOSSO 1M•H111Aii 11 tivi di solidarietà e di giustizia. Una politica in cui il necessario risanamento della finanza pubblica non sia separato dalle esigenze di equità e dalla necessità di realizzare una società migliore. Una politica per la quale l'occupazione ed il Mezzogiorno costituiscano un valore sul quale misurare le compatibilità e la legittimità della propria azione. Una politica, infine, che assuma come criterio discriminante l'effettiva eguaglianza dei diritti e delle possibilità degli uomini nella vita sociale. Che voglia una società che non abbia settori lasciati ai margini, zone d'ombra, alle quali, quasi per congenita ed insuperabile diversità, sia riservata una sorte meno fortunata, una partecipazione meno intensa alla vita sociale, una sostanziale diseguaglianza di posizione, un incolmabile dislivello sotto ogni riguardo. La resistenza allo sviluppo di una simile politica è naturalmente forte e può essere vinta solo se si supera davvero l'anomalia del sistema politico italiano, liberandone interamen- = 3 te le potenzialità democratiche e riformatrici con una aggregazione e mobilitazione di tutte le forze che si ispirano al riformismo ed alla solidarietà. * * * Si tratta di un approdo auspicabile, ma non per questo ineluttabile. Esso potrà essere reso possibile in ragione dell'impegno che si saprà attivare. L'esito della partita dipenderà, in larga misura, anche dalla capacità della cultura del riformismo socialistae del solidarismo cattol1codemocratico e progressista di far scaturire dal dialogo, dall'analisi e dalla ricerca collettiva una comune proposta ed un comune impegno politico. L'associazione 'Riformismo e Solidarietà' e questo giornale sono nati per contribuirvi e contano sull'apporto di quanti ritengono che anche in Italia sia necessario ed urgente impegnarsi per costruire le condizioni politiche della democrazia dell'alternanza.
B .P-lL BIANCO '-XltllOSSO •i1Hk11Aiil• La • • CflSl dei • • comun1sm1 di Luigi Ruggiu Il 1989 è stato l'anno delle grandi rivoluzioni democratiche. Sia di quelle vittoriose nei Paesi dell'Est, sia di quelle che, nel nome del comunismo, sono state soffocate nel sangue, come è accaduto in Cina. Esse concludono l'esperienza di blocco politico militare nata a Yalta, ma non concludono ancora Yalta. Insieme costituiscono l'atto finale della consunzione dei "comunismi". Quelle realizzate, o quelle in via di realizzazione. Le esperienze che si concludono non lasciano aperte vie a nuove esperienze possibili. Ciò che si è infatti consumato è appunto quello sfondo comune che ha reso possibili i vari comunismi, e cioé il comunismo come teoria ecome prassi, come movimento politico e ideale che si è espresso in analisi teoriche, in proposte di società, di economia e di stato, di libertà e di democrazia. Occorre portare la riflessione in profondità. Senza infingimenti, e senza complessi, con onestà. Occorre prendere atto che il comunismo non costituisce il massimo di espansione e di realizzazione possibile della democrazia - sostanziale, e non solo formale -, ma che esso ormai viene visto in modo esplicito come incompatibile non solo con ogni forma di democrazia, ma anche con ogni forma di sviluppo economico e sociale. Si è ritenuto di poter scindere, nel concetto e nella realtà, i due termini. Si è creduto che la scissione fosse temporanea, e potesse essere accolta in vista della piena realizzazione della emancipazione. Si è dovuto prendere atto, magari nel sangue, che i due termini non possono essere scissi senza piombare nella barbarie. Si deve quindi prendere atto che la rivoluzione democratica ha avuto come obiettivo primario la liberazione dal comunismo. Hanno gridato "mai più comunismo" non i nemici dichiarati del comunismo, ma quanti nel comunismo hanno creduto, quanti da esso hanno atteso emancipazione e libertà. Quello squarcio vuoto al centro delle bandiere rumene testimonia la cancellazione di un simbolo del passato come apertura di una nuova speranza. La perestroika di Gorbaciov l'ha reso possibile. Certamente, in quanto ha creato le condizioni internazionali di possibilità. Ma il comunismo muore non, come crede Gorbaciov, affinché esso viva rinnovato. E quindi, affinché, nei tempi lunghi, possa essere considerato come la tappa intermedia di una fase del rinnovamento. Sussisterebbe quindi un nesso di necessità tra il primo evento e il secondo. In realtà, del ragionamento è vera la prima parte, ma del tutto falsa la seconda. Occorre invece rovesciarne i termini: è in quanto il comunismo è fallito, che si è aperta la fase gorbacioviana. E questa fase si conclude, per ragioni storiche del tutto peculiari, e coerentemente, con la liquidazione del comunismo - del partito, ma anche della sua cultura, delle sue politiche, delle sue istituzioni - nei Paesi del1'Est. La cultura e la pratica del comunismo è stata vista, in URSS come altrove, come incompatibile con le istanze dello sviluppo. E per ridare spazio allo sviluppo - della sostanza economica e insieme della forma e della sostanza politica - si ritiene essenziale liberarsi anche dei segni che lo hanno nominato. Ma il nome è la cosa. La scomparsa della cosa, lascia il nome come ricordo di un passato di orrore. La liberazione del passato, esige la liberazione dalla cosa e dal suo nome. Ma "la cosa" è appunto la cosa del comunismo. Non di un "certo" comunismo. Quasi che, tuttavia, restasse pur sempre aperta - o addirittura proprio per questo aperta, come taluno dice -, la questione del "vero" comunismo, del "nuovo" comunismo, dell'ideale del comunismo. Questo è detto ancora nel PCI - par-
Bi .P-lt BIANCO l.XltllOSSO •ih•k11Hiil• liamo delledue moziono presentate, sia di quella di Occhetto come di quella di Ingrao -. Anzi, in esse la questione neppure esisterebbe, giacché tali regimi non sono mai stati comunisti. Sono finiti, genericamente, dei regimi totalitari, non delle realizzazioni del socialismo come prima tappa del comunismo. Noi non vogliamo certamente negare che esiste comunque uno scarto tra il comunismo e l'idea di comunismo. Ma questo scarto non toglie, comunque, il rapporto che esiste tra l'idea di comunismo e il comunismo realizzato. Il secondo è figlio legitimo, non spurio, del primo. È ormai da molto tempo che esiste una diaspora comunista. E perciò abbiamo sempre preferito parlare di "comunismi" piuttosto che di "comunismo". Ma il fatto di porre l'accento sulle differenze toglie forse comunque il riferimento a quella identità che fa da sfondo al plurale, e che consente infine di parlare appunto delle molte forme di realizzazione "del" comunismo? Che non siano la stessa cosa, non toglie la relazione di parentela, il vincolo di sangue. Né è più possibile mantenere insieme il nome - e quindi la cosa - del comunismo, e nello stesso tempo procedere ad un assemblaggio di termini e di esperienze. La democrazia in senso liberale e il suo legame con l'economia di mercato è infatti in contraddizione assoluta con la "cosa" del comunismo. Non ha senso sciendere la forma politica da quella economica. La forma politica lega in unità pluralismo politico e pluralismo degli interssi, stato e mercato. Si può e si deve chiedere il governo del mercato, affinchè esso sia in sintonia con le istanza di eguaglianza che sono proprie di un sistema sociale democratico. E il consenso è reale in quanto ottenuto a partire dal rispetto delle differenze. Laddove queste non sussistono, il problema del consenso non si pone, per la semplice ragione che è del tutto superfluo per un potere senza controllo. Si dice ancora che il PCI è altra cosa. Anzi, si afferma che i fatti dell'Est testimoniano della verità della via italiana. E che quindi la liquidazione dei comunismi costituisce la via percorsa dalla provvidenza per l'affermazione "del" comunismo. Nella sua forma "vera", che è appunto quella della via italiana. Noi non siamo in grado di avere informazioni privilegiate dalla provvidenza. Ma una domanda ci pare dobbiamo porre: in che cosa infine consiste il comunismo? Non certo in quei ter- •:w ·- •• , 5 mini del tutto generici e assolutamente non caratterizzanti che un'azione di inconsapevole depistaggio introduce. Siamo del tutto consapevoli delle giuste ansie di giustizia e di emancipazione che hanno dato tanto peso ai comunismi. Ma non è questo il punto. Tanto è vero, che la contrapposizione storica con il socialismo democratico e riformista non è stata in queste 'aspirazioni', bensì negli strumenti e nella forma complessiva che esse assumevano - nella teoria e nella pratica - per dare infine loro realizzazione. È appunto "questo modo", non la generica istanza emancipativa, il comunismo. È appunto questa forma totale che contraddice tali istanze. E ·dunque cosa rimane della via italiana? Il fatto forse che in Italia il comunismo sia stato possibile solo in quanto inglobato nell'orizzonte politico economico e sociale di ciò che comunista non è? Se così è, allora, si deve dire che tale orizzonte non è stato una limitazione del comunismo, bensì esso è proprio ciò che ne ha consentito esistenza e sviluppo. Ma questo, allora, testimonia piuttosto della verità di quel- !' orizzonte che della verità del comunismo. Ed è grazie alla solidità di tale orizzonte, che è stata persino possibile il perpetuarsi del nome e del partito comunista all'interno di una "cosa" che ormai nessuno sa più dove e come sia. Occorre insieme prendere atto del fatto che è anche a tale persistenza della cosa che deve essere fatta risalire la responsabilità della forma bloccata della democrazia italiana. In questo senso, conventioadexcludendume conventio ad auto-excludendum si sono infine saldate. Ma tale autoesclusione indebolisce e frena la democrazia. La crescita della democrazia passa attraverso la rimozione di questo equivoco storico. Per quante benemerenze possano avere storicamente i comunisti nella stessa tenuta della democrazia italiana, senza questa presa d'atto di onestà politica e intellettuale, l'anomalia del caso italiano si perpetuerà. La .democrazia ha bisogno di socialisti riformisti. Oggi, non domani.
i.>11. RIA. NCO '-XII.HOSSO 1i1i1kHDi1ii Ideologiein crisi, religione, etica nell'Italia di oggi. di Giovanni Gennari Gorbaciov in Vaticano, e il papa presto al Cremlino. È realtà di oggi. Le mani del successore di Lenin che stringono calorosamente quelle del successore di Pietro, e la statua di Lenin stesso agganciata dalla gru operaia, sradicata dal suo basamento e portata nel deposito dei cantiere di Danzica. Due simboli: stiamo assistendo, quasi di colpo, al crollo del sistema ideologico, politico ed economico che si chiamava comunista, e che in tanti anni di dominio non è stato capace di mettere radici nel cuore della gente. Uno degli elementi della crisi è stata la pretesa di quel sistema di elevarsi a ''religione'' assoluta e totalitaria, che voleva spazzare via dalle coscienze, anche con la violenza fisica e psicologica, lo spazio di ogni aspirazione alla libertà di coscienza e di religione. Non è un caso che quasi tutti gli atti finali del rovesciamento dei regimi comunisti abbiano visto una chiesa, un prete, un pastore, una folla religiosa che si riunisce e protesta. Tutto il sistema è crollato come un castello di carta, e al posto del feticcio ideologico dell'ateismo di stato si è subito manifestata, nelle sue diverse forme, la forza ambivalente della religiosità. Anche nell'Urss sconfinata, nel vuoto dell'ideologia fino a ieri onnipotente, la religiosità oppressa e mai domata fa ora sentire il suo peso anche nei conflitti razziali e nelle esplosioni di nazionalismo, che lacerano l'unità di ungigante troppo artificiale per essere tenuto insieme dal solo carisma di un leader, fosse anche quello della perestroika. I fondamentalismi sono in agguato, e si annunciano decisivi per un futuro ancora oscuro. Torna la religione. Tornano le religioni con il loro peso di liberazione, o anche di schiavitù e di pregiudizio. E da noi? Nell'altra metà del mondo l'ideo- • 6 logia atea non è mai stata imposta con la forza, ma regna, apparentemente vincente, il consumismo superideologico, che convive con tutte le ideologie, e postideologico, che pare non aver bisogno di alcuna ideologia. Il momento presente ò certo di rischio e di opportunità. Chi non accetta la facile teorizzazione del vuoto non solo ideologico, ma anche ideale, deve chiedersi come sia possibile uscire tutti insieme, e in avanti, ad Est e ad Ovest, dal presente che ribolle e sconcerta. Da Oriente, certo, è venuta una indicazione di libertà e di ideali. Ma per andare dove? Può bastare la rivincita pura e semplice del capitalismo occidentale, che comunichi con le sue innegabili ricchezze anche le sue spaventose miserie indotte in tanta parte del Sud del mondo? E altrimenti: è davvero una strada praticabile il ritorno al totalitarismo sacrale? Da noi parlare di religione, etica, ideologie, vuol dire fare i conti con 2000 anni di cristianesimo, dentro cui ci sono fatti e misfatti in nome di Dio, liberazioni e schiavitù, splendori e miserie. C'è la grande cultura medievale e l'Umanesimo; c'è la condanna della rivoluzione del 1789, e di ogni libertà di pensiero e di religione, ma poi anche la sua consacrazione nel Concilio Vaticano II; c'è il rifiuto ufficiale ecclesiastico dell'azione politica e partitica dei cattolici, vietata per decenni dalla Chiesa, e poi c'è una unità politica e partitica che continua ad essere proposta, se non imposta, da circa quaranta anni, anche come baluardo al "comunismo ateo". E' possibile, oggi, di fronte alla fine del comunismo come sistema di ateismo, e forse anche semplicemente come sistema politico, che i cattolici italiani possano partecipare con piena coerenza e con piena libertà pluralistica alla vita politica e anche partitica italiana? Deve essere possibile. Ma è chiaro che non .............. ---- ... ~
B {)Jt BIANCO '-X11, nosso H011k 11 A ii ii basta volerlo. Si debbono realizzare le condizioni necessarie e sufficienti, anche nella prassi pubblica di tutti i giorni, perché un credente non democristiano non sia, e neppure appaia, un errore di natura. Queste condizioni sono attinenti ai programmi dei partiti, la cui laicità deve essere rigorosa senza mettere in questione l'identità di chi crede e vuole essere coerente con la sua fede. Laicità è metodo, prima che contenuto, ed esclude che si affermi per tutti un principio teoretico che contraddice questa o l'altra coscienza, anche in temi scottanti e controversi. Non è laico chi impone le sue idee e i suoi principi solo perché li ritiene veri, né chi pretende che la legge di tutti consacri le sue opinioni, per quanto le ritenga giuste, o anche moderne e in apparenza progressiste. Non giriamo attorno ai problemi: su temi come divorzio e aborto è laico chi, pensando in piena coerenza con i suoi principi, credente o no che sia, riconosce che la comunità civile ha il diritto, e il dovere, di legiferare in modo tale da prevenire al massimo, anche con qualche doloroso contrappeso, fenomeni che sono e restano negativi, ma che non si superano con l'ipocrisia o con l'abbandono alla dinamica del puro scontro di forza, in cui non quasi sempre, ma sempre, a soccombere sono i più deboli. Può apparire singolare che nell'opinione di certi uomini di chiesa risulti favorevole al matrimonio e alla vita, tra le forze politiche italiane, quella che è certo più responsabile di altre del fatto che nell'aria si respira, e nella vita si mastica quotidianamente la difficoltà concreta a vivere in coppia (lavoro, casa, salute, stress ... ), e a procreare gioiosamente (educazione sessuale, procreazione responsabile e davvero libera, parità uomo-donna ... ). Nessun partito italiano, se si escludono i radicali, che del resto sul tema dell'aborto hanno subito dalla volontà popolare un rovescio di quasi il 900/odei voti contrari, ha presentato il divorzio, e soprattutto l'aborto, come un fatto naturale, che va da sé, un diritto assoluto, e certo non lo ha mai fatto la legge. L'impegno di tutti, credenti e no, può e deve essere quello di favorire la libera fedeltà coniugale e familiare, e la libera accoglienza del concepimento voluto e deliberato. Forse la fine pratica dell'unità politicopartitica dei cattolici italiani, favorita dalla presente situazione internazionale e nazionale, può restituire libertà di annuncio, e di presentabilità, agli stessi valori cristiani, non più intralciati e sviliti da indebite identificazioni storiche. Anche per questo una iniziativa come Riformismo e Solidarietà può essere opportuna.
B {)Jt BIANCO ~11.llOSSO 1IU•k11dlil1 Cattolici italiani e solidarietà: forza e debolezze, presente e futuro di Stefano Ceccanti Che cosa si aspettano i lettori di un articolo sui cattolici italiani e la solidarietà? Se negli anni Settanta si sarebbero aspettati sotto questo titolo qualche riflessione sull'impegno sindacale, oggi il pensiero va certo in primo luogo alla Caritas, al volontariato, a realtà - simbolo come quella di S. Egidio, ecc .. Questo spostamento del baricentro dell'attenzione alle iniziative immediate di solidarietà, che ha conciso con uno spostamento reale di impegno di larghe fasce di cittadini, ha in sé elementi di forza e di debolezza. I primi sono legati alla concretezza dell'impegno, all'immediata visibilità dell'adesione formale al valore della solidarietà rispetto a fughe ideologiche che hanno finito per chiedere all'azione politico-sindacale ciò che essa non poteva completamente assicurare, soprattutto col classico metodo della gestione diretta degli interventi da parte dei pubblici poteri. In questa immediatezza, però, stanno anche tutti glielementi di debolezza. In primo luogo, in termini religiosi, non si può scambiare il consenso dato alla Chiesa come "Forza sociale" con un'adesione in termini di fede. Se è vero che una fede adulta deve basarsi sulla logica sintetizzata da Giovanni nella frase "Chi non ama il proprio fratello che vede non può amare Dio che non vede", i cattolici non possono però asservire le opere di solidarietà a finalità proselitistiche, esplicite o latenti, o scambiare il consenso ad esse con consenso dato alla istituzione - Chiesa. Chi interpreta, ad esempio, la fuoriuscita della Polonia dal Comunismo vedendo l'esperienza di quel composito Comitato di Liberazione Nazionale che è stato Solidarnosc come una prosecuzione di un intatto Medioevo Cristiano, avente come centro una Chiesa "Forza sociale" miracolosamente non contaminatasi con la secolarizzazione, si sbaglia di grosso. - - --- - - - - -- 8 È invece avvenuto un grande miscuglio culturale tra intelligentsia cattolica, ebraica, delusi dal comunismo, nazionalisti, liberali, ecc. intorno ad un'istanza di solidarietà che le condizioni di disastro economico non meno della spinta dovuta a motivazioni di fede hanno contribuito ad estendere e rafforzare. Accanto a queste possibili scorciatoie interpretative sull'asse solidarietà - fede religiosa, si pongono poi simili scorciatoie su quello solidarietà - azione politica. Proprio perché la spinta verso la solidarietà avviene in forma immediata, sotto la spinta del1'emergenza, e in connessione alla reale crisi del Welfare, il rischio è che essa resti legata ad una concezione volontaristica che si rapporta con la politica a tratti con grandi denunce e, subito dopo, con la contrattazione di vie d'accesso privilegiate, dal momento che, alla fine, con la politica bisogna pur fare i conti per un finanziamento, una convenzione, un'autorizzazione. La parabola del 'Cattolicesimo sociale', privo di un'attenzione alle istituzioni, alle regole che possono rendere la solidarietà non solo una sfida 'profetica' al sistema, ma anche una sua risorsa interna, ordinaria, è sempre la stessa. Esso parte con le velleità di 'Terza via' globale del cattolicesimo intransigente di fine '800 o di Comunione e Liberazione degli anni '70, per finire fatalmente al 'Patto Gentiloni' e alla 'Compagnia delle Opere'. Chi finisce per descrivere la società come un insieme coerente e negativo rispetto al quale le esperienze di solidarietà si porrebbero come isole incontaminate, non è in grado di percepire adeguatamente la realtà delle democrazie occidentali e la specificità dell'azione politica al suo interno. Anche un buon contratto aziendale è solidarietà, così come lo è un buon sistema pensionistico e previdenziale, un equo sistema fiscale, e via dicendo.
i.).tt BIANCO lXILHOSSO •ibik11Aiil1 Allora è probabilmente maturo il tempo per un passaggio di fase in cui, dopo il periodo più acuto di emergenza, dovuto alla crisi del Welfare, in cui le preoccupazioni immediate hanno avuto la meglio, il pendolo si sposti di nuovo sulle risposte mediate, istituzionali, da dare. Non si tratta, in altri termini, di predisporre solo interventi tampone ex-post ma di costruire una solida rete di misure ex-ante, e di giungere ad un vero Welfare State. Abbiamo bisogno che anche grazie ad una presenza competente di cattolici si affrontino in modo nuovo, nella 'società dei due terzi', i due classici nodi della democrazia contemporanea: la tassazione e la rappresentanza, l'equità sul piano delle entrate dello Stato, la qualità e l'efficienza su quello dei servizi. Per questo, però, c'è bisogno di ripensare i meccanismi della rappresentanza, superando qualsiasi nostalgia consociativa, qualsiasi difesa nostalgica del connubio tra proporzionalismo e parlamentarismo. Difendendo il consociativismo il cattolicesimo del nostro Paese ha non solo contribuito ad allargare l'area democratica, ma ha anche difeso se stesso, potendo convogliare dentro un unico contenitore partitico le differenze programmatiche esistenti al proprio interno. Poiché però la sopravvivenza dei meccanismi consociativi è ormai da vari anni non più conforme all'interesse generale del Paese, il cattolicesimo progressista deve avere il coraggio di essere in prima fila nel processo delle riforme istituzionali, ben sapendo che questo va ad intaccare le consolidate divisioni partitiche, la stessa tendenziale unità elettorale (non politicoprogrammatica, mai esistita) dei cattolici. In sintesi: coniugare al futuro il rapporto tra cattolici e solidarietà significa sostanziamente ricostruire lo Stato, creare un Welfare con standard europei; al di là della predisposizione di competenze a tutti i livelli, dal volontariato alla pubblica amministrazione, questo significa però in primo luogo un rilancio della presenza nei partiti, che sono i veri perni (nel bene e nel male) del governo della cosa pubblica. Significa quindi battersi per avvicinare la prospettiva di una democrazia dell'alternanza in cui si avvicendino governi di legislatura decisi dall'elettorato e quindi per qualificare la presenza di cattolici in entrambe i poli alternativi della futura competizione politica.
,PJJ,HIANCO lXll,HOSSO 1i111111 Dlil1 Movimento '90: quando il coperchio salta di Giovanni Guzzetta È sconsigliabile, in questa fase, avventurarsi in pronostici sul futuro del "movimento del '90". La relativa lentezza con la quale la protesta si è diffusa (a Palermo è iniziata già da quasi due mesi) è infatti un indicatore dello specifico disagio generazionale verso la mobilitazione. Ed anche la cautela con la quale si accrescono le adesioni o si costruiscono gli stessi simboli del movimento, se da un lato è segno di genuinità, dall'altro lascia aperta ogni possibile ipoteca. Chi, se mai ci sarà, gestirà la negazione in nome del movimento? Chi sarà determinante nell'elaborazione di un eventuale pacchetto di richieste? La scarsa alfabetizzazione alla politica è una spada a doppio taglio. D'altra parte - sorprese più di tutti - le associazioni e le organizzazioni giovanili sembrano ancora annaspare tra la nostalgia di un monopolio illusorio ed il complesso dell'insignificanza. Alla luce di queste premesse cautelative si può azzardare qualche valutazione d'insieme. Innanzi tutto vi è un problema relativo alle forme della "militanza" e della mobilitazione. Il nostro paese vive un macroscopico handicap, che conferma drammaticamente l'arretramento relativo rispetto alle posizioni ormai assunte dagli altri partners comunitari e, quel che più ci deve interessare, rispetto a quelli del bacino mediterraneo. Da noi, la crisi della rappresentanza è, innanzi tutto, la crisi della politica giovanile e delle politiche per i giovani. A fronte della creazione di ministeri per le politiche giovanili, di comitati nazionali della gioventù e di iniziative politiche volte a capitalizzare risorse investendo sui vari segmenti della vita dei giovani (scuola, educazione, mobilità, transizione al lavoro, ecc. ecc.), avviate con decisione dalla totalità dei governi CEE, il nostro paese si affida a ben scarsi rimedi. Finora si ò istituita solamente una famigerata commissione di in- ■ 10 •···. -- ·-·., dagine giovanile, scarsamente produttiva e senza chiari obiettivi di risultato. Ben si comprende allora l'impasse delle organizzazioni giovanili. L'assenza di oggetto e di interlocutori sulle questioni di interesse specifico rende improba la fatica dell'aggregazione nelle vecchie e nuove associazioni. Non è un caso quindi se, proprio nel momento in cui su un problema così scottante come l'università si profilano all'orizzonte un oggetto ed un interlocutore (sotto l'aspetto del nemico, ovviamente), i frammenti della soggettività studentesca si riattivano immediatamente. Per di più la strategia di Ruberti, che non merita forse tutte le critiche di cui è oggetto, ha certamente il 'limite' di una improvvisa accelerazione del processo di modernizzazione del sistema formativo, troppo a lungo rimandato e poco preparato culturalmente. L'assenza di dibattito sull'autonomia, l'elusione - piuttosto grave - dei nodi strategici (didattica, diritto allo studio, accesso alla ricerca per i giovani laureati) di maggiore interesse per gli studenti, e l'improvvisazione di alcuni passaggi della legge - che richiedono come minimo una maggiore razionalizzazione - hanno fatto il resto. È difficile dire se l'università italiana ce la farà; perchè l'ambiguità dei diversi fronti che si sono creati sull'argomento delle riforme e la scarsa credibilità (atavica, e perciò legittima anche oggi) degli interlocutori politici, difficilmente possono superarsi con rapidità. Certo sarebbe grave eh.el'accentuarsi di spinte polarizzanti rituffasse definitivamente l'università in un orizzonte di sottosviluppo. E sottosviluppo è il termine adatto se si guarda con serenità all'assetto del nostro sistema formativo, e alla qualità della sua offerta di istruzione, avendo come prospettiva la libera circolazione di 'cervelli' e laureati che ci prepara il 1993.
.{)Jt BIANCO O(ltROSSO ''"''"""'' Tra l'etica e il fare politico di Rino Caviglioli Molte persone, impegnate nelle organizzazioni sociali e della politica, sono scontente, attraversate da un senso di sottile ma pervasivo disagio. Non vogliono rinunciare al lavoro collettivo, continuano a pensare che di lì passano speranze e processi reali. Cionondimeno registrano una divaricazione consistente tra le aspettative e gli investimenti personali (emotivi, professionali, culturali), e i progetti, la qualità della vita associativa: l'esperienza quotidiana s'impoverisce, il bisogno di significato si scioglie altrove. Taluni interpretano tale disagio con le categorie della psicologia, oppure con l'infiacchirsi di storie personali, con l'inevitabilità dei cicli storici. Può darsi, ma forse c'è dell'altro. Per questo vorrei provare a ragionare attorno a talune idee-guida che ispirano le leadership e contribuiscono così a definire costumi e clima interno delle organizzazioni. Anzi, poiché le motivazioni dei comportamenti delle leadership assai raramente sono esplicitate, proverò a risalire ad esse attraverso una riflessione sui costumi e sui comportamenti collettivi più ricorrenti. Gli atteggiamenti e le sceltedei "capi" rispondono ai fondamenti etici dell'agire personale e collettivo? Il leader dei nostri tempi è portato, quasi d'istinto, a scegliere il comportamento meno esposto. L'impopolarità e la solitudine dei doveri, i vincoli dell'imperativo categorico, la ricerca degli universali, vengono collocate agevolmente negli spazi delle velleità idealistiche. Opportunamente svalutata è quell'idea di coerenza che fa rimproverare: tu sei cambiato! Vale niente come accusa: ci cambiano la conoscenza, la scoperta degli altri e di ciò che è in noi. Dovremmo esseredefiniti dalla nascita, dall'eternità e per sempre, maschere, pietrificazione di cultura? Piuttosto c'é qui da domandarsi come mai le organizzazioni sono sempre di meno il luogo educativo dove l'esperienza cambia in meglio le persone. Ma ugualmente non significante è spessoconsiderata la ricerca di una coerenza tra i modi utilizzati per conquistare una collocazionedi potere ed i fini, gli obiettivi, i valori che legittimano l'esercizio di quel potere. Non è solo questione di verità o di igiene mentale: davvero si crede ancora, negli anni in cui l'informazione la fa più da padrona, di poter operare una simile scissione? Certo, un capo carismatico riesce ad esercitare un potere solitario, anche se con rischi non indifferenti: soprattutto il rischio che, al riparo del patos carismatico, si perpetuino pratiche e culturale vecchie, individuali e di gruppo, pronte a riemergere con la scomp,arsa dalla scena di quel capo. Ma più banalmente il carisma ò spesso sostituito dal paternalismo (so, ti spiego poco, ti proteggo, fidati di me) e dall'autoritarismo (so, non ti spiego, decido per te), e l'uno e l'altro indeboliscono le pratiche democratiche, collettive, e l'efficacia dell'organizzazione. In una logica siffatta le persone diventano strumenti, postazioni da conquistare, vengono ridotte alle loro opinioni politiche, (favorevoli o contrari, amici o nemici), ad un punto non significante e privo di spessore, se non attraverso le congiunzioni infinite che fanno la ragnatela del potere e della politica. L'individuo qui preso in considerazione è lo stesso oggetto delle cure del mercato: è l'individuo economico, centrato sull'interesse. Non la persona, cioè quel punto unico e irripetibile, quel precipitato di intelligenza e volontà che ha anche bisogni non economici, di cultura, di giustificazione, di senso, di affetti, di solidarietà. Coerentemente questa idea di eserciziodel potere e della politica, ignora i sentimenti e le emozioni. Come nelle migliori tradizioni dello scientismo, si finge naturale, asettica, nasconde i va-
B .{)!L BIAl\CO '-Xli, BOSSO •IP•Wdiii• lori e le forze profonde, consapevoli e inconscie, che muovono gli individui come i gruppi. Si introduce così una contraddizione radicale: la politica si rivolge all'uomo intero e non solo alla sua dimensione economica e materiale, mentre il 'fare politico' lo mutila, lo semplifica, oscura la sua dimensione intellettuale e spirituale, arretra di fronte a tutto ciò che, più in profondità, lo smuove e ricompone l'unità di ragione e sentimenti. Lo stesso accade con l'utilizzo di un gergo che si rivolge solo agli specialisti, agli addetti ai lavori, attraverso un linguaggio allusivo, non chiaro, stereotipato, asettico, omologato. Esso appare il prodotto di una acculturazione senz'anima, che ha spianato tutto, e di una volontà di non definire per non impegnarsi. Certo, anche di una scuola della politica che non perdona. Ed infatti, se nel linguaggio si riflette anche 'il profondo' di ciascuno di noi, come non pensare che un linguaggio così banale e semplificante tenda a nascondere le cicatrici della politica, le motivazioni irrise, le esperienze traumatiche interiorizzate, l'ignoranza di se stessi, il bisogno di essere riconosciuti dal gruppo di appartenenza, la paura della diversità e della originalità che comportano il rischio della estraneazione ed emarginazione? E d'altra parte chi ha un'idea della politica come di gestione di ciò che accade, gestione accorta dei conflitti e delle diversità che già la realtà produce, perché mai dovrebbe cercare un di- - - --- - - - - -- 12 verso linguaggio? Un linguaggio diverso si cerca quando si 'sentono' contenuti non espressi, quando c'é un momento di riceerca, quando si vuole conoscere ed essere riconosciuti. In questo modo di fare politica conta più l'apparire che l'essere, l'immagine che la sostanza, il presenzialismo che non il lavoro quotidiano indispensabile per dare efficacia a qualunque progetto; premia di più la fedeltà e l'appartenenza ad uno schieramento, ad una cordata, ad un gruppo amicale, che non la realtà e la coerenza con i fini collettivi dichiarati. E la lotta per il potere è senza regole, le questioni di costume vengono derubricate ad instabilità psicologiche, l'etica si fa gioco di parole, la virtù non è più una virtù. A fronte di tutto ciò non sarebbe straordinario se organizzazioni sociali e politiche così segnate dai vizi della decadenza producessero poi un "fare politico" efficace, sensibile, anticipatore? Eppure non ci si può rassegnare. L'uomo senza politica è un uomo senza qualità, dimezzato, che magari s'è costruito altrove nicchie e privilegi. Il problema allora è: come riempire le sedi e gli strumenti della politica di voci e sogni e progetti, come invogliare la leadership a misurarsi con la ricchezza e la maturità dei bisogni dell'uomo moderno. Ed è, problema al quale ciascuno può dare una risposta: soprattutto debbono darla le organizzazioni.
Bi ~-ltBIANCO lXILHOSSO 1ib•k1D1 iii1 Riformismo socialista e solidarismocristiano di Gabriele Gherardi C'è una vecchia storia di un contrastato legame fra il riformismo socialista e il solidarismo cristiano. Lasciando stare lo stereotipo ottocentesco di "Gesù Cristo primo socialista" (pure indicativo di un approccio, per quanto popolaresco, non privo di significato) la contemporaneità della risposta alla questione sociale scoppiata drammaticamente verso la fine del XIX secolo determinò una sintonia fra il cristianesimo sociale e i movimenti socialisti. Nel 1891 (l'anno di promulgazione dell'Enciclica Rerum novarum di papa Leone XIII) il programma di Erfurt della socialdemocrazia tedesca affermava che '' la religione è unfatto privato'': non era poco per quei tempi e in quel contesto. Questa affermazione infatti sottraeva il socialismo riformista allo spirito di crociata antireligiosa diffuso nei nascenti movimenti e partiti della sinistra rivoluzionaria, ed era destinata a differenziarlo marcatamente dal comunismo leninista che di lì a poco avrebbe teorizzato l'ateismo di partito e di stato. Si apriva così un lungo processo politico-culturale, per il quale - ad esempio - i laburisti britannici potevano affermare (nel 1948) che il partito laburista era "il partito dei cristiani". Ma questo non è un articolo di storia; e quindi questi rapidi cenni sono più che sufficienti. Anche perché - al di là, o meglio al di qua della politica - la questione è anzitutto e soprattutto di sostanza. Si tratta di verificare se la convergenza ideale che si determinò alle soglie del1'era contemporanea fra cristianesimo e socialismo è ancora vitale nonostante le insufficienze e gli errori con cui è stata vissuta o combattuta, da entrambe le parti. Innanzitutto noi vogliamo parlare di "valori" cristiani. Non quindi di una chiesa, e meno ancora di un partito. Ma di valori che sono propri della fede cristiana; e, relativamente ai credenti, non ci riferiamo a comportamenti o atteggiamenti o costumi (spesso condizionati da molte e diverse circostanze esistenziali), ma ad un patrimonio interiore che per i cristiani forma oggetto di fede. Quindi, al di là delle contingenze, dei modi e dei tempi, quali valori essenziali possiamo prendere in considerazione? La persona umana, anzitutto, il concetto cioè di uomo che è persona; e i diritti fondamentali che ne derivano, il diritto alla vita e il diritto alla libertà. Poi, nei rapporti fra le persone, la fraternità, la solidarietà, l'uguaglianza. Infine, nei rapporti sociali collettivi, l'esigenza di giustizia, di cui il cristiano ha "fame e sete", nella concezione biblica di questa giustizia che deve essere fatta per i "poveri" secondo la concezione biblica, cioé per coloro che sono senza potere, che non contano, che vengono posti in condizione di non poter affermare il loro valore di persona. Questi valori sono certamente, per i cristiani, radicati nella fede in Dio, nel Dio che 'non è il Dio dei filosofi - come dice Pascal - ma ilDio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe'. Ma questi valori, radicati nella fede, non sono peraltro subordinati ad essa. Essi sono stati posti da Dio nel cuore dell'uomo; noi li possiamo conoscere indipendentemente dalla rivelazione. Questo mi pare un elemento importante perché ci dice come la caratteristica dei valori cristiani non sia una loro separatezza metafisica, ma anzi la loro estrema comunicabilità, la loro estrema diffusibilità, in un potenziale rapporto originario con i non credenti. Questi valori, della dignità della persona, di solidarietà, di uguaglianza, di questa fame e sete di giustizia, sono infatti del tutto omogenei con quelli presenti nel nucleo essenziale della tradizione socialista. Ed è opportuno ricordare che nella tradizione socialista italiana l'attenzione ai valori cristiani è presente; è antica la esplicita dichiarazione che un certo tipo di anticleri-
B ~li, RIAl\lf:O l.Xlt HOSS(> 1M111A11ii1l1 calismo e di sbrigativa liquidazione del fenomeno religioso (di tipo volterriano, per intenderci) è da archiviare. Tesi di questo tipo si trovano fin dal 1907 in Critica Sociale, anche se filoni e tendenze anticlericali continuarono a manifestarsi, nonostante ciò, nel socialismo italiano. Nel dopoguerra Rodolfo Morandi precisa notevoli aperture fino dal 1945, in un testo che val la pena di citare ampiamente: '... La dottrina politica marxista, plasmata nella lotta e come strumento di lotta, è dottrina atea nelle forme più radicali che mai siano state espresse. Non è però questo il legato che essa tramanda alla posterità. Questa è di essa piuttosto laparte caduca che appartiene al tempo, e un aspetto che il tempo ha consumato e dissolto. ... Se certe correnti politiche borghesi si attardano ancora in una intolleranza della vecchia maniera, il socialismo non ha impedimenti che lo trattengano da un riconoscimento aperto della libertà di credenza e dellafacoltà di praticarla in seno alla chiesa. Esso non ha da salvaguardare gli interessi in cui si radica il laicismo borghese, ha invece interesse a valorizzare tutti quei vincoli che valgono afonda re nella società liberi sentimenti di fratellanza tra gli uomini. ... Esso sa che l'insegnamento di Cristo è la solidarietà, è il debito di ogni uomo e della collettività di sostenere i deboli, di sovvenire i bsiognosi. ... Il socialismo si rivolge alle grandi masse dei lavoratori cattolici, che dalla fede e dalla chiesa non hanno voluto disgiungersi quando esso doveva temprare apiù cruda fiamma la coscienza di classe del proletariato, perché, oggi che esso ha superato le limitazioni ideologiche d'una fase che s'é conclusa, vengano nelle sue file, e in una schiera sola il popolo lavoratore muova alla conquista della nuova società'. Dopo queste aperture razionali e lucide, anche se espresse col veemente e romantico stile della pubblicistica socialista di quell'epoca, si ripropose però la logica dello scontro. La guerra fredda venne importata in Italia. Il PSI ne fu indotto al legame frontista con il PCI. Lo scontro ridiventò aspro e non si distinsero più i cattolici dai democristiani. Se consideriamo dunque l'andamento complessivo dei rapporti fra il cristianesimo e il socialismo, mi pare evidente che la tensione, la difficoltà di rapporti, è sempre stata prevalente nei momenti in cui que- -- - --- -- - - --- -- 14 ste due realtà, cristianesimo e socialismo, si confrontavano come due dottrine dogmatiche, come due chiese, come due realtà organiciste. È da questa impostazioen che dedvò l'affermazione della enciclica Quadragesino anno del 1931, che 'non si può essere ad un tempo buono cattolico e vero socialista'; ciò fu detto nel momento del pieno vigore della 'dottrina sociale cristiana', cioè del cristianesimo che tentava di darsi una interpretazione o anzi una teorizzazione organicista della società e dei rapporti sociali. Oggi peraltro la dottrina del Concilio (con tutti i limiti della sua prassi applicativa) va contro questa teorizzazione; e mi pare comunque che la dottrina sociale cristiana sia entrata da tempo in una fase di deperimento irreversibile. D'altra parte il Partito Socialista si propone oggi come un partito aideologico, come un partito pragmatico; 'un partito pragmatico - dicevano fin dal 1981 le tesi per il 42 ° Congresso del PSI - che non è una chiesa e che non ha una soluzione filosofica complessiva per i problemi della società e del mondo'. Detto questo, non è che non ci siano problemi aperti anche nel PSI per questo rapporto vitale fra riformismo socialista e solidarismo cristiano. Nella fase di rilancio del cosiddetto nuovo corso socialista l'esigenza del primum vivere ha dato di fatto ampio spazio nel partito al r~dicalismo culturale e al rampantismo di costume: due fenomeni ben diversi nella sostanza, ma convergenti nell'effetto divaricante rispetto al pensiero e all'etica cattolica. Frattanto, i cattolici impegnati nel PSI sistematizzavano forse all'eccesso la pregiudiziale di laicità della politica che li aveva portati fuori dalla DC, fino a comportarsi come 'lingue tagliate' e cioé autocensurandosi nell'apporto specifico di sensibilità e di valori che è loro proprio. E' forse venuto il momento (nell'interesse stesso del PSI e della sua potenzialità di accogliere e portare a sintesi una pluralità di 'culture') che i cattolici riprendano un dialogo culturale esplicito su questi temi, sia fuori che dentro il partito. Questo non è certamente un tema secondario. Ma le dimensioni che ormai ha assunto questo intervento consigliano di riprenderlo in altra occasione.
B ~.tt BIANCO lXll,llOSSO 1111 #hiii «Il Bianco e il Rosso» dedica il dossier di questo primo numero al tema dell'uguaglianza. I diversi interventi cercano di metterne in luce gli aspetti oggi più problematici. Senza pretese di completezza si tratta di una serie di spunti complementari che possono servire ad orientare il lettore. In particolare riteniamo utilissima la bibliografia ragionata con cui il Dossier si conclude. Il prossimo Dossier della nostra rivista sarà dedicato a «Democrazia e Governo delle città»: la concomitanza con le elezioni amministrative ne renderà più attuale l'utilizzazione. L'uguaglianza,tra politica, etica e mercato Nuovi significati dell'uguaglianza,oggi L'uguaglianza ha costituito e costituisce il valore discriminante tra le posizioni di sinistra e quelle conservatrici. La sfida essenziale del socialismo riformista e democratico è quella relativa all'ampliamento delle aree dell'eguaglianza sia nelle società forti che nelle società deboli. È lotta per la riduzione progressiva di questo divario, fino alla sua totale scomparsa. Il valore dell'uguaglianza si coniuga strettamente con quello della solidarietà. Senza l'uno, neppure l'altro può esistere. Ma anche la democrazia si fonda, si esprime e si sviluppa, solo nel suo rapporto con l'udi Luigi Ruggiu guaglianza. Allargamento della democrazia e espansione del terreno delle uguaglianze fanno tutt'uno. Eppure, in una società in forte sviluppo come la nostra, con un alto grado di produzione e consumo e con un'accettabile livello di diffusione della ricchezza, parlare di uguaglianza sembra del tutto fuori posto. La nostra società viene contrabbandata come il prodotto della esaltazione delle differenze e dei meriti. La disuguaglianza è stata teorizzata come la nuova virtù, e l'accoglimento delle disuguaglianze è posto come la condizione essenziale della società opulenta. La società moderna ha come proprio fondamento la disuguaglianza. Proprio per questo, richiamare l'uguaglianza come principio, norma e valore da perseguire, appare come una provocazione, frutto di inguaribili tendenze pauperistiche di stampo cattolico. Ci si imputa una mentalità che non sa accettare la ricchezza come bene collettivo. Si dice che essa viene da noi vissuta con senso di invidia e di impotenza che si traduce in un egualitarismo verso il basso. Il principio che sembra affermarsi è l'imperativo ad arricchirsi, nei modi e nei tempi che sono fun-
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