L'Avvenire dei Lavoratori - anno XXXV - n. 18 - 30 settembre 1944

' .. Bi Il pen~iero federali~ta di Carlo Cattaneo IV La libertà - pensava e credeva il Cattaneo, come pensa o, ancor prima di riflettere, crede, chi si elevi ad uno «stato d'animo» liberale -, inviscerandosi nelle attività e nelle istituzioni degli uomini, ne promuove l'educazione, ne procura il benessere, ne assicura il perfezionamento, non meno materiale che morale. Orbene - nell'ordine politico -, «libertà (scriveva il Cattaneo) è repubblica; e repubblica è pluralità, ossia federazione». Perché? Le ragioni dell'una e dell'altra equazione sono assai semplici. E si possono riassumere in altri due aforismi cattaneani. Libertà è repubblica; perché, se - a mente del Cattaneo - libertà, nell'ordine morale, è, come s'è veduto, autocontrollo, anche nell'ordine civile è autonomia (si pensi alla precisa etimologia del termine). Ora, dice appunto il nostro scrittore - con parole che sembrano riecheggiare a distanza di secoli certi accenti premonitori di Marsilio da Padova -, come «Chiesa è popolo in atto di pregare», «Repubblica è popolo in atto di far leggi». Repubblica, a sua volta. è pluralità, ossia federazione: e ciò per un'altra ragione ancora più ovvia, che il Cattaneo espone col rievocare un precetto del Machiavelli, da lui più di una volta ricordato. Cioè, che «un popolo, per conservare la libertà, deve tenervi sopra le mani»; «ora - aggiunge -, per tenervi sopra le mani ogni popolo deve tenersi in ca.sa sua la sua libertà». Soffermiamoci un poco sopra l'uno e sopra l'altro punto. Già si è accennato in precedenza come il Cattaneo non abbia fatto professione di fede repubblicana se non nella sua piena maturità, durante l'insurrezione di Milano (egli, nato col secolo, in quel momento storicamente culminante della sua vita, era, infatti, se non vecchio, alla soglia dei cinquant' anni). In quel tempestoso periodo, ad un emissario di Carlo Alberto, che lo tentava con cortigianesche lusinghe affinché componesse egli stesso un governo, e facesse la formale dedizione della città al re di Sardegna, avrebbe riposto: «La parola gratitudine è la sola che possa far tacere la parola repubblica.» Ma sebbene il Milanese, che conosceva a fondo la propria terra, sia nelle sue condizioni naturali volte a profitto dall'industria tenace degli uomini, sia nelle sue gloriose tradizione storiche, non fosse scevro di legittimo orgoglio civico, non per miope amore di municipio (come pure inclinò, per un momento, a sospettare il Mazzini) si opponeva alle affrettate fusioni, bensi per antico amore di concrete libertà. Al quale amore, prima del '48 avrebbe sacrificato - come pure s'è veduto -, la stessa indipendenza dallo straniero, acconciandosi a franchigie per la sua Lombardia sotto il dominio, quando fosse stato più nominale che effettivo, perfino della Casa d'Austria. Del resto - egli diceva in piena rivoluzione milanese ( e non dimentica di registrarlo nel suo racconto) - «le famiglie regnanti sono tutte straniere; non vogliono essere di nessuna nazione; si fanno interessi a parte, disposti sempre a cospirare con gli stranieri contro i loro popoli». Ma egli caldeggiò la repubblica non per particolare avversione ai Savoia, e nemmeno la concepì come corollario d'una missione provvidenziale commessa da Dio stesso alle differenti nazioni, bensi come conquista, e come scuola insieme, di educazione di popolo, che sempre meglio si abilitasse a governarsi da sè, cioè a dar leggi a sè stesso. La ragione e la storia, sopratutto la storia del suo paese, a cui, naturalmente, si rivolgeva di preferenza la sua sollecitudine di pensatore politico, alimentavano il suo antico amore di libertà, e le sue convinzioni repubblicane, se pur professate abbastanza tardi, ingènite nell'animo suo. La ragione: che lo persuadeva essere la repubblica la forma politica - direi, vichianamente -, «tutta spiegata» d'un regime di libertà, cioè di schietta autonomia di popolo, il quale non può dirsi libero, se abbia il bisogno o la debolezza di affidare ad un potere che si asserevi, ma troppo sovente non è, estraneo e superiore alle lotte fra classi e partiti, la dubbia tutela dei propri diritti. Il compiuto liberale ed ottimista, che era Carlo Cattaneo, come, nel 1860, combatterà quale «vanissima sentenza», quale «idea chinese, idea bizantina», quella, manifestata dal Foscolo, scrittore pure a lui carissimo, di riunire in una sola opinione tutte le sette, cosi, fin dal 1833, aveva additato, nell'esempio della libera America, i pregi d'una costituzione rispettosa di tutte le opinioni, la quale con dar facoltà «a tutti di sfogarsi liberamente», tramutava «nemici spietati» in «emuli rispettosi e mansueti vicini». La storia d'Italia lo persuadeva, poi, ad asserire che in Italia, come in Grecia, «la natura ... è repubblicana». Dobbiamo - egli scriveva - «attinger consiglio nelle istorie nostre». E tale storia anzi tali storie (anche il plurale adoperato dal Cattaneo ha un suo significato), nelle quali si rifrange la vita molteplice della nostra nazione, gli rivelavano «che l'animo repubblicano vi si incontra in tutti gli ordini». Non pure nelle classi popolari, ma altresi nell'aristocrazia stessa. «Chè anzi - egli scrive - la genuina fonte della vera nobiltà italiana, non della ribattezzata di anticamera e polizia, sta nei consessi decurionali delle antiche repubbliche municipali: e pare anzi - rincalza - che fuori di codesto modo di governo non sappia operare cose grandi». E, quanto al popolo, vale la pena di ricordare, ancor meglio che altri scritti, ciò che il Cattaneo acutamente osservava (in un articolo anonimo, ma concordemente attribuitogli, che non fu più ristampato, e che io esumai dal Politecnico del 1861) circa la educazione a governarsi da sè, che si era formata e sviluppala nelle antiche corporazioni cittadine d'Italia, le fralie, le scole, le consorterie. Le quali «furono fomite primo al rinverdire i tronchi sfrondati dei comuni, e ne sorsero loro nerbo principale, e loro infusero lo spirito proprio di libertà e d'associazione operosa ed economica». In quelle società. operaie che discutevano liberamente i loro statuti, eleggevano regolarmente i propri reggitori, rivedevano i conti sociali, ordinavano le loro milizie ed il loro governo, decidevano le insorgenti questioni, il Cattaneo ravvisava, con piena ragione, un «esercizio continuo e minuto di regime rappresentativo», in forza del quale «si mantenne nel popolo delle antiche città d'Italia quella tenace tradizione di libertà e di governo di sè, che va operando le meraviglie de' giorni nostri». Quella è democrazia autentica - riteneva il sagace pensatore, nutrito di storia, non di formule aprioristiche -, che si attua con l'educazione del popolo a governarsi da sè medesimo. Da cotesto suo robusto positivismo politico ( come io non mi pento, malgrado qualche critica rivoltami, di averlo definito), e non da ostinati pregiudizi ideologici, egli traeva la conseguenza logica dell'equazione tra repubblica e federalismo. La repubblica, infatti, sarebbe, ed è, nome vano, quando il popolo non si abiliti all'autogoverno. Vedete, egli diceva, la Francia; la Francia che pure egli amava come ogni uomo libero e colto, in ispece di quel suo grande secolo, che ancora si considerava figlio legittimo della rivoluzione francese; «Sotto qualsiasi più libero nome (scriveva nel 1848), le 86 prefetture di Francia gesticolanti in conformità del telE7 grafo di Parigi, saranno sempre serve.» E poco tempo appresso, nel 1850, come se prevedesse il colpo di Stato di Luigi Napoleone, ribadiva la stessa osservazione, quasi con le medesime parole: «la Francia, si chiami repubblica o regno, nulla monta, è composta di 86 monarchie che hanno un unico re a Parigi. Si chiami Luigi Filippo o Cavaignac; regni 4 anni o 20; debba scadere per decreto di legge o per tedio di popolo; poco importa; è sempre l'uomo che ha il telegrafo e 400 000 schiavi armati.» I suoi «principi politici - egli aveva dichiarato, in una lettera diretta ad un amico il 16 marzo 1849, cioè proprio nel periodo intermedio (anche questa constatazione cronologica ha la sua importanza) fra la prima e la seconda delle scritture testè citate, in cui erano le quasi identiche osservazioni sul regime accentrato della Francia -, cotesti principi erano «affatto all'americana e alla svizzera, e non alla francese». Tale richiamo paradigmatico al piccolo, ma, appunto, esemplare paese europeo, dove vivono da secoli in pace almeno tre stirpi diverse, ed al grande paese di là dall'oceano, dove si sono fuse e continuano a fondersi in un solo crogiuolo, perennemente riscaldato dalla viva fiamma della libertà, tante stirpi differentissime -, richiamo, il quale, assai più che alle costituzioni scritte, si riferiva al modo di vivere e di governarsi di quei popoli, ed ai benèfici risultati che ad essi ne derivano -, ritorna, com'è naturale, più volte sotto la penna del federalista Cattaneo. Egli era, però, troppo edotto di dottrine antropologiche e storiche per non sapere che qualsivoglia nazione, pur se presenti «nel suo aspetto e nel suo genio qualche tratto che la distingue, e che conserva sotto tutti i climi», è tuttavia «una incrociatura, più o meno antica e più o meno confusa, di stirpi primamente diverse». Vero, bensi, che il risvegliarsi della coscienza dei comuni interessi e ideali di un popolo, facenti capo al concetto di nazionalità, era il pensiero caratteristico del secolo decimonono, il suo principio storico e civile, anzi «il fatto più eminentemente morale» dell'epoca. Ma egli, che non predicava, col Gioberti, un primato, se pur solo morale e civile, predestinato all'Italia, come a nazione religiosa per eccellenza, creatrice, conservatrice, redentrice, della civiltà europea; egli, per il quale le differenti nazionalità non erano, come per i'idealista e credente Mazzini, un segno delle particolari missioni affidate per volere divino ai diversi popoli, note differenti ma concordanti in una medesima armonia; - egli, il Cattaneo, pur essendo un fautore del principio nazionale, come corollario della libertà e garanzia di pace, sapeva scorgere altresi come nessuna isolata dottrina fosse applicabile «agli estremi margini delle grandi nazioni, dove per fallo antico della natura e dell'uomo, i versanti e le lingue e i dialetti fanno un nodo inestricabile». Il principio esclusivo della nazionalità non era, ivi, sufficiente, né per una spiegazione storica del fatto locale, né come fondamento di pretese politiche. L'osservatore analitico e positivista, il quale non in disegni o còmpiti provvidenziali, ma aveva tuttavia una fede ragionata e robusta nelle libertà e nei suoi vantaggiosi risultati, poteva scrivere, a proposito di quelle terre di confine e dei loro abitanti, che «solamente in seno alla libertà codesti popoli possono vivere l'uno accanto all'altro in fraterno patto, e addensare infoco comune quella luce di sentimenti e di idee della quale ogni lingua e ogni gente possiede solo un raggio». Ed aggiungeva: «Queste sono terre sacre al diritto e all'umanità.» Ivi, infatti, possiamo commentar noi, dalla comparazione assidua fra sè gli altri, ch'è, anche a mente del Cattaneo, il fondamento psicologico dell'idea del diritto, ivi, dal contatto, e perfino dal possibile attrito, fra tradizioni, fra costumanze, fra aspirazioni cli genti diverse, trae alimento il principio di quel diritto universale, che il Cattaneo auspicava quale termine (e noi diremmo quale concettolimite, o meglio quale idealità direttrice) delle lotte e delle speranze degli uomini. Lotte, che potranno diventare via via più civili, speranze, che diverranno via via più concrete, col diffondersi della libertà, quale il Cattaneo la intendeva, libertà che nell'ordine civile e politico, voleva dire federalismo, rispettoso dell'autonomia dei Comuni e degli altri Enti minori dello Stato nella vita nazionale, rispettoso dell'autonomia concorde dei popoli nella vita internazionale. «La libertà vuole l'eguaglianza nei diritti e nei doveri; chi non ha diritti è un oppresso; chi non ha doveri è un oppressore.» Il federalismo di Carlo Cattaneo era, pertanto, non un residuo, anzi l'antitesi (anche in senso hegeliano, perché il deciso superamento) del vecchio, gretto, geloso municipalismo. E - ben s'intende - il federalismo, quale il Cattaneo lo propugnava, era altresi la più risoluta antitesi di ogni imperialismo nazionalistico. Col suo consueto ( e, come si è cercato di dimostrare, coerente) ottimismo, il Milanese osservava che la politica imperialistica non è soltanto contraria alla giustizia, ma è anche inprovvida per quegli stessi Stati che la pràticano, i quali «cadono in fatali interessi», dannosi alla produzione, laddove una politica, non soltanto interna, ma internazionale, che si ispiri all'universale principio di libertà, giova a quella medesima nazione che la promuove. Come, dunque, nella vita interna d'ogni singola nazione, cosi nei rapporti fra Stato e Stato, il federalismo non apparisce soltanto la conseguenza benefica, ma la salvaguardia più sicura della libertà, e, con essa, della pace. «Al sole della libertà - scriveva il Cattaneo nel 1865, augurando», colla fine della guerra americana», l'inizio di «un nuovo indirizzo cli cose» -, «va'ha posto per tutti. Il principio federale previene tutte le guerre di confini; salta tutti i confini. Dalle sue molteplici considerazioni storiche, economiche, giuridiche, etico-politiche discendeva la concezione, ch'egli propugnò indefessamente, di quella milizia civica, i cui quadri dovevano apprestarsi, con opportuno insegnamento, fino dalle scuole medie ed universitarie. «La condizione suprema della libertà fu intesa solo dagli Svizzeri e dagli Americani: militi tutti e soldati nessuno!» Netta distinzione, dunque, o meglio contrapposizione, fra la nazione armata e quello che fu poi chiamato i1 militarismo. Il quale è una minaccia per la libertà e per la pace, oltre che un disastro per l'economia di un paese: «il più grave quesito economico» sembrava, al Cattaneo, quello «di istituire una pubblica difesa che non sia d'altra parte una pubblica rovina»; ma la psicologia applicata all'economia politica lo confortava a sostenere come il meno costoso ed insieme il più efficace sistema di difesa, «se non per un governo certo per una nazione» (si noti la profonda arguzia, celata in questa rapida osservazione), quello che accoppiasse «il principio della milizia volontaria dei Romani col principio della milizia universale degli Svizzeri, perché, mentre teneva addestrati tutti gli uomini abili alle armi, in caso di guerra si sarebbe riservato di fare appello alla volontà». A differenza dal militarismo, coi pericoli inerenti al costituirsi ed al permanere d'una casta avente i propri interessi e privilegi la milizia civica era malleveria di libertà, baluardo d'ogni altra autonomia, tutela dei singoli e delle civiche guarentige contro ogni eventuale arbitrio accentratore ed usurpatore. E, mentr'essa avrebbe assicurato i diritti individuali, ed insieme l'integrità del territorio nazionale contro ogni velleità di straniera conquista, l'applicazione di tale principio essenzialmente democratico appariva perfettamente congrua ai fini etici di comune progresso. «L'armamento nazionale, scriveva il Cattaneo, ha in sè un principio di moralità eminente; perché, mentre è irresoluto e inefficace alle guerre ambiziose e invasive, e tanto più poderoso nella guerra d'incolpabile difesa»; la nazione armata era dunque, a mente sua, un «pegno» - mentre il militarismo poteva costituire un'insidia - «alla giustizia, alla pace del mondo, alla concordia del genere umano». Per tutte le accennate ragioni, economiche e storiche, giuridiche e morali, il Cattaneo propugna va il federalismo, logica appl_icazion~ della sua teoria della libertà, arra sicura d1 pace e di progresso. Col porre «avanti a ogni cosa la libertà., e come condizione di libertà l'autonomia», egli teneva per certo «che effetto spontaneo della libertà e della autonomia sarà la concordia e quindi un'unità morale e vera»: cosi scriveva ad Agostino Bertani nel 1861. E un anno prima di morire, ad un altro amico sdriveva, che il federalismo era «la questione del secolo» era «per la prima volta al mondo una questione di tutto il genere umano: - o l'ideale asiatico, o l'ideale americano: aut aut». Cosi diceva Carlo Cattaneo, or sono tre quarti di secolo. Ma egli, come molti, come i più, forse, dei maggiori intelletti, era un presbite. Antivedeva, cioè, la realtà futura, meglio che non vedesse le circostanze e gli ostacoli, che, allora, si frapponevano all'attuazione del suo programma politico. Ma la soluzione da lui propugnata della «questione del secolo» - quella soluzione federalistica che pei suoi tempi potè parere un'utopia -, sarà, forse, la realtà di domani. A. L. (continua.) ,,Liberare e I ederare" Scritti di politica economia e cultura WALTER FLIESS L'Economiadell'Europafederata La vasta visione dell'economista tedesco {antinazista) che traccia le tappe della trasformazione dell'economia di guerra in quella del tempo di pace; che indica gli istituti indispensabili alla ricostruzione dell'economia europea del domani, si fonda sulla concezione socialista e federalista della unità politica ed economica del continente. 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