L'Avvenire dei Lavoratori - anno XXXV - n. 8 - 1 maggio 1944

Bit I problemi della lederazione europea tiamo che neppure i piccoli stati (non parliamo delle tre grandi potenze che emergeranno da questa guerra) siano pronti ad accettare la proprietà internazionale del potere. Per quanto ogni rinvio possa riuscire pericoloso dobbiamo rinviare ogni soluzione radicale di tale problema. Nel frattempo esaminiamo fino a che punto, in una Europa integrata e in un mondo ordinato, possiamo procedere per organizzare la nostra vita comune, soprattutto la nostra vita economica, nella direttiva supernazionale. In quanto l'ideale di indipendenza impedisce la cooperazione e disdegna ogni sottomissione al volere del più grande numero, nelle questioni di interesse comune, deve dirsi superato perché un ostacolo ad ogni progresso verso un ordine nuovo. Le ~ovranità • 1· naz1ona 1 Che cosa intende il mondo d'oggi per «indipendenza di stati sovrani»? La domanda ci è avanzata da una amara lettera di un lettore svedese che stampiamo questa settimana. La lettera può sembrare fuori posto in un giornale che ha sempre sostenuto che il diritto all'autogoverno è un diritto vitale per l'esistenza del paese. Ma nelle complesse questioni dei rapporti con l'estero, l'indipendenza non può che essere una espressione relativa. La sovranità dei piccoli popoli è una di quelle romantiche illusioni che per alcuni trasforma la politica di ogni giorno in un sentimentale racconto di fate. Per il nostro lettore svedese l'indipendenza degli stati baltici aveva un comprensibile significato. Ma in una maniera o nell'altra questo enigma riguarda tutti noi. Con le loro armate acquartierate sul suo suolo, il Maresciallo Stalin e Mr. Churchill confermano l'indipendenza della Persia, e l'assicurano di futuri favori economici che dipendono manifestamente dal suo non del tutto volontario aiuto alla nostra causa. Il popolo del Libano è ugualmente sicuro della propria indipendenza, perché le simpatie britanniche hanno reintegrato un ministero che la «Francia combattente», dipendente a sua volta dall'appoggio inglese ed americano, aveva deposto. La Corea, in base alle· decisioni della conferenza del Cairo, riceverà pure dal destino, alla fine della guerra, questo dono agognato. Che cosa significa tutto ciò? In che senso la Lituania, l'Austria, la Persia, .il Libano e la Corea si potranno dire indipendenti? Il fatto nudo e crudo, decisivo nel mondo attuale, è che la guerra meccanizzata e soprattutto la guerra aerea, richiede tali enormi -risorse economiche che un piccolo stato non può avere nessuna speranza di difendersi con qualche probabilità di successo; inoltre, la potenza militare di uno stato povero ed arretrato come la Lituania è talmente trascurabile che una grande potenza non si dà neppure tanto da fare, per tirarselo dietro come cliente o come satellite. E' passato il giorno in cui gli olandesi potevano aver fiducia nelle loro dighe e un Hofer poteva sfidare Napoleone nel Tirolo. I danesi combatterono coraggiosamente contro Bismarck, ma non poterono resistere ad Hitler. Ne 1 p e - riodo tra queste due invasioni della Danimarca l'indipendenza sovrana dei piccoli stati è svanita. Essa ebbe ancora una certa realtà, forse un'ombra di realtà, durante il secolo scorso. L'alta politica era allora l'esclusivo attributo delle grandi potenze che formavano il concerto europeo. Prevaleva in quel periodo - periodo che in confronto del nostro fu assai umano e di buone maniere - la convinzione che i piccoli stati non dovessero immischiarsi nei grandi affari; in cambio la loro neutralità veniva rispettata. Nessuna grande potenza poteva costringerli a diventare loro satelliti, né le grandi potenze potevano intervenire nelle loro questioni interne. Fu il periodo del «laisser faire» in economia, e l'idea parallela della neutralità non costituiva un'eccezione nella politica europea. Con gran fragore questa epoca finì con l'invasione tedesca del Belgio nel 1914. Gli alleati allora, nel loro comportamento verso la Grecia e la Persia e negli sviluppi dati dal blocco, concepirono i diritti dei neutrali secondo quello che a loro conveniva. Cosa fu che mise fine all'epoca vittoriana con i suoi ideali di indipendenza nazionale? In parte lo sviluppo delle comunicazioni e l'annullamento delle distanze. In parte la sviluppo della produzione di massa e la concentrazione dell'industria in pochi giganteschi trust e cartelli. Cosa ciò significasse fu reso evidente quando i tedeschi adottarono la M i t t e 1e u r o p a come obiettivo principale nell'ultima guerra. L'industria meccanizzata, la richiesta di maggiori e più sicuri mercati, faceva saltare i vecchi limiti delle frontiere nazionali. La stessa cosa avveniva anche con un'altra tecnica: la penetrazione di capitali stranieri nell'industria. Questo processo continuò in maniera sempre più rapida in Europa dopo l'ultima guerra. La maggior parte di noi imparò durante la grande crisi economica, se non l'aveva imparato già prima, che l'economia teneva poco conto delle frontiere. Un panico fece crollare i prezzi a Wall Street e alterò in pochi mesi il valore di tutta la moneta, nelle tasche di ogni contadino e di ogni operaio, in tutto il mondo, dal Reno al Gange, in modo tale che nelle sue conseguenze la modificazione avvenuta può considerarsi equivalente ad una mezza dozzina di rivoluzioni. Nel frattempo in un centro dopo l'altro, venivano sperimentate nuove tecniche di penetrazione politica. Alla vigilia dell'ultima guerra, Izvolsky, durante il memorabile periodo in cui fu ambasciatore della Russia a Parigi, si vantava, in un dispaccio segreto, che più tardi i bolscevichi pubblicarono, di aver sussidiato ogni quotidiano francese, salvo l'organo di Jaurès, L' H umani t é. Fino a che punto dunque la pubblica opinione poteva dirsi espressione di una ra ciarf1di endente? ~ cose a,gche ~iù gravi fu:uono cope te nei c1~0~ ginoli di Mosca. Ma furono poi i nazisti quelli che perfezionarono questa arte di penetrazione politica con i risultati che ben presto abbiamo dovuto affrontare da Madrid a Bucarest. La seconda guerra mondiale portò a Londra una me~za dozzina di governi sovrani che vogliamo sperare abbiano dedicato gli anni di esilio in proficue meditazioni sul significato e sul valore dell'indipendenza nell'epoca degli Stukas e delle tanks. E' ormai da molti anni un luogo comune per i pensatori politici della sinistra l'affermazione che dobbiamo tutti prepararci a fare qualche sacrificio della nostra sovranità. La formula è errata solo in quanto assume che la sovranità fosse per la maggior parte degli stati europei una realtà che essi devono sacrificare con nobile spirito d'altruismo. Per la maggior parte di loro, anche se in gradi diversi, era solo una pericolosa e gravosa illusione. In realtà essi non erano liberi di scegliere quale politica adottare, il che rappresenta per noi il significato dell'indipendenza. La neutralità è divenuta un impossibile lusso e la loro scelta, soggetta alle limitazioni geografiche, non può essere altro che una scelta fra questa o quella grande potenza, da tenere come protettrice. La Svezia può sembrare una eccezione, ma per quanto tempo avrebbe conservato la sua libertà se avesse rifiutato di rifornire la macchina di guerra nazista con il suo eccellente minerale di ferro? Quel mulino macina fino e da ognuno prende quel che ha bisogno: da alcuni piccoli stati la carne da cannone e da altri stati le materie prime per fabbricare i cannoni. Per due volte abbiamo già avuto la nostra lezione. Prima che un'altra ripetizione ci annienti, dobbiamo tutti ben mettere in chiaro che cosa è per noi che ha veramente valore in questo irrealizzabile ideale di indipendenza, in questa sospirata concezione di sovranità. E prima di tutto dobbiamo domandarci se è proprio lo stato nazionale con le sue frontiere tracciate dalla storia e dalla geografia, l'unità più appropriata per le nostre attività moderne? E', per esempio, cosa assurda immaginare che gli stati nazionali possano ciascuno per suo conto, stabilire un controllo sullo spazio aereo, tanto se si pensa ai bisogni dei trasporti civili quanto se si pensa a quelli della difesa militare. Solo un po' meno assurdo è pensare che le principali ferrovie del continente europeo possano essere gestite nel modo migliore da una qualche decina di autorità indipendenti e spesso ostili fra loro. Ed è forse ragionevole che un fiume quale il Danubio, che potrebbe essere la sorgente di energia elettrica per sei stati rivieraschi e potrebbe essere utilizzato in modo da aumentare immensamente il loro basso livello di vita, non sia sottomesso ad alcuna autorità collettiva, salvo, in un certo grado, per quanto riguarda la navigazione? La geologia distribuì i migliori depositi di ferro e di carbone attraverso le frontiere politiche che la storia ha tracciato. Ciò si deve riconoscere per la Ruhr, per la Saar, per il Lussemburgo, per la Lorena e per il Belgio. Ed è vero anche per l'area intorno alla Slesia superiore ed il Teschen che divide polacchi, cechi e tedeschi. In questi due casi si dimostra che le frontiere si oppongono ad una efficiente organizzazione industriale e creano un problema insolubile per la sicurezza ed il controllo degli armamenti. Inoltre in tali casi la sovranità impedisce la creazione di un consorzio internazionale per gestire le pericolose industrie pesanti. E potremmo continuare: dalla creazione di una banca internazionale per controllare tutte le nostre monete, alla questione se possa essere escogitato un organismo internazionale per collegare gli arretrati stati agricoli dell'Europa con gli stati industriali più progrediti, in maniera di proteggere e sviluppare i primi ed assicurare la occupazione completa della mano d'opera nei secondi. Sono problemi questi che non possono essere risolti, e neppure si può tentare di risolvere, se noi tutti cittadini dei grandi o dei piccoli stati non siamo disposti a sottometterci in ognuna di queste sfere d'azione ad una qualche rappresentativa autorità supernazionale. La stato che si rifiuta non resta fedele ad un nobile ideale di indipendenza: si comporta in modo reazionario, anti-sociale, con conseguenze che, col passare del tempo, potranno riuscire fatali a lui come ai suoi-vicini. In tutti questi casi (e ne potremmo ricordare molti altri) lo stato nazionale non è l'appropriata unità per la pianificazione e l'organizzazione. Qual'è allora la funzione dello stato nazionale? E' certamente quella di prender cura e di dare sviluppo all'eredità consacrata nel suo linguaggio e nelle sue tradizioni culturali, l'intero campo dell'educazione, nel più ampio senso della parola. A questo proposito è bene ricordare che i servizi resi alla civiltà da alcuni dei piccoli stati hanno meritato la nostra imperitura gratitudine. Questo si deve dire pec ·almente per l'Austria e per gli stati scanin~ I oltre va attribuito agli stati nazionali l'intero campo dell'amministrazione e della legislazione rivolta alla giustizia, alla polizia e ai servizi sociali, e i regolamenti per l'industria e l'agricoltura. In questi casi una vigilante e coerente opinione pubblica è della massima importanza, e per manifestarsi ed agire con maggiore facilità occorre un'area con un unico linguaggio. Ma quando poniamo la domanda ultima, che va alla radice dell'intera nozione di sovranità: «Dobbiamo o no conservare la proprietà del potere militare?» - la nostra risposta è per una categorica, se pur sconcertante, negazione. Noi pensiamo che la pace sarà sempre pr~caria, noi pensiamo che il mantenimento dell'ordine mondiale sarà sempre enormemente difficile, se non impossibile, fino a che gli stati nazionali, grandi o piccoli, vorranno conservare della forze armate per loro conto, in una misura che eccede quel che sarebbe necessario per il mantenimento dell'ordine interno. In poche parole affermiamo che il solo modo di conciÌiare l'autonomia con la cooperazione è di avviarsi verso la federazione. Pure noi dubiQuel che veramente è di incalcolabile valore è il rifiuto di sottomettersi alla volontà di una singola potenza. Ma la libertà da ogni arbitraria coercizione potrà essere assicurata solo quando impareremo a stare insieme sotto una disciplina democratica. Invece di asserire la nostra indipendenza, come grandi potenze o come piccoli stati, quel che dobbiamo fare, se vogliamo sopravvivere, è di organizzare la nostra reciproca dipendenza. (The New Statesman and Nation, 18. dic.1943) La politica e§tera italiana (A. proposito di alcune didiiarazioni del conte Sforza) Il «N e w Y o r k Ti m es» ha pubblicata la seguente corrispondenza da Napoli, in data 3 marzo u. s.: «In una intervista concessa al giornalista Sulzberger il conte Sforza si è dichiarato favorevole alla restituzione delle isole del Dodecaneso alla Grecia - che dovrebbe avvenire in seguito· ad un plebiscito - ed alla creazione di una zona internazionale a Fiume, comprendendo il territorio intorno alla città, quale residenza di una nuova Lega delle Nazioni. Le idee del conte Sforza offrirebbero delle possibilità per la risoluzione di alcuni problemi relativi alla pace futura del Mediterraneo e presentano il punto di vista italiano su altre questioni. Si deve, però, mettere in rilievo che il conte Sforza non, è certo, per ora, in una posizione che gli permetta di tradurre in pratica le sue idee. Parlando delle isole del Dodecaneso, il conte Sforza ha detto: «Quale espiazione per i delitti del fascismo contro la Grecia, e come nuova prova della fedeltà dell'Italia al principio di nazionalità, noi saremo ben contenti come italiani di favorire la restituzione del Dodecaneso alla Grecia, se gli abitanti lo desidereranno. Io mi farei sostenitore del plebiscito che dimostrerebbe certamente il desiderio della immensa maggioranza degli abitanti di tornare alla Grecia.» Riguardo a quelle che prima erano le colonie africane dell'Italia il conte Sforza ha dichiarato: «Io non credo nell'avvenire delle colonie. In tutti i modi non sarebbe però cosa saggia togliere all'Italia democratica le colonie che aveva prima del fascismo. E' di enorme importanza evitare la creazione di nuovi miti sull'ingiustizia e sulla violenza. Il conte Sforza ha aggiunto che riteneva che si sarebbe dovuto consentire all'Italia di conservare tutta la Libia, ma che avrebbe voluto garantire l'autonomia per i Senussi, come aveva fatto nel 1919, quando aveva assicurato tale autonomia, salvo la esposizione della bandiera italiana nelle feste del venerdi. Analogamente egli ha richiesto che l'Italia conservi la Somalia e l'Eritrea che ha chiamato «le colonie gemelle dell'Africa». Dopo avere definita l'invasione dell'Etiopia «il delitto del fascismo e delle nazioni che l'hanno consentita» ha asserito che l'indipendenza del paese era una «compensazione necessaria». Nel Levante, secondo il conte Sforza, l'Italia ha dei fortissimi interessi morali ed economici, ma non degli interessi territoriali. Riguardo all'Albania ha detto: «Questo paese è contornato dal mondo slavo, e fatalmente si appoggia all'Italia come ad una sorella maggiore. C'è una sola maniera per affermare la egemonia e l'influenza italiana in Albania, e cioè assicurare per sempre la indipendenza dell'Albania». Il conte Sforza si è scagliato quindi contro i motivi dinastici che spingono la famiglia monarchica italiana a suscitare il problema montenegrino. Il Montenegro - ha detto - è una regione essenzialmente serba, che fà parte della comunità slava. «E' assurdo pensare al Montenegro come ad un paese che voglia fare da sé.» In Dalmazia - ha osservato - «l'immensa maggioranza è slava quantunque l'elemento italiano predomini in alcuna delle sue belle e storiche città. E' desiderabile una resurrezione della Jugoslavia ed una reale, durevole amicizia che renda impossibile la concezione di una qualsiasi politica di persecuzione degli jugoslavi contro l'elemento italiano». Il conte ha detto che la maggioranza della popolazione di Zara è italiana, ma si tratta di un problema minore, e un compromesso potrebbe soddisfare entrambe le parti. Per il complicato problema delle pretese slave sulle regioni di Fiume e di Trieste il conte ha presentato una soluzione nuova: «Fiume e le regioni slovene appartenenti all'Italia non possono essere considerate frontiere perfette come quelle che esistono fra l'Italia e la Francia. E' d'altronde cosa assurda pensare, con una gretta mentalità nazionalistica, a frontiere che mutano ogni venticinque anni». Dopo avere dichiarato che Fiume era un porto molto bene attrezzato, che la nuova Lega delleNazioni dovrà essere assai più ;:iotente e meglio organizzata di quel che era a Ginevra, e dopo avere affermato che la Svizzera ha scoperto che «la neutralità vale più degli strumenti internazionali», il conte Sforza ha suggerito che Fiume con il territorio contiguo venga offerta quale sede di una nuova «Super-Lega». In questa corrispondenza il pensiero del Conte Sforza risulta così frammentario e mutilato che non è possibile assumerla come base per un giudizio serio sull'indirizzo ch'egli vorrebbe dare alla nostra politica estera. Possiamo però dire che, cosi quale la leggiamo, l'intervista non può certo soddisfare gli italiani che attendono che la loro politica estera venga audacemente impostata su una ampia visione delle più profonde esigenze della nostra epoca, nell'interesse di tutta quanta l'umanità. Per noi che facciamo prevalere sulle considerazioni nazionalistiche quelle ideali di carattere universale, il problema vero, il problema centrale dell'ora presente non è quello dei confini territoriali con i quali il nostro stato uscirà dalla guerra, ma quello del trionfo di alcuni grandi principi sui quali soltanto riteniamo sia possibile la ricostruzione della vita civile nel mondo. A questi princivi - che hanno per noi un valore per sé stessi e non come strumenti di difesa degli interessi nazionali, dobbiamo richiamarci tutte le volte che consid,eriamo i nostri particolari problemi nazionali, e questi principi noi per primi dobbiamo in ogni occasione propugnare, per raccogliere tutte le forze progressiste europee attorno a un programma che possa veramente consentire la loro pratica collaborazione nel più ampio concerto formato da tutti i vopoli della terra. Completamente errato sarebbe JJresentarsi come curatori dell'azienda fallimentare fascista, preoccupati solo di salvare il salvabile dello stato italiano. Non potremmo che rimanere impigliati in meschine questioni territoriali, in cui la nostra vosizione sarebbe debolissima, e la nostra voce non potrebbe avere alcuna risonanza. Tutta la nostra politica estera deve invece essere inipostata sul deciso sitperamento del princivio delle sovranità nazionali, tendendo a una organizzazione unitaria federale, in cui gli innumerevoli intricati problemi territoriali degli stati del nostro continente diventino questioni di dettaglio, di secondaria importanza. E per far questo dobbiamo vresentarci nella nostra qualità di oppositori della prima ora al fascismo, rivendicando il nostro diritto, non di italiani, ma di uomini liberi, di essere ascoltati da tutti coloro che hanno cari i valori essenziali della civiltà occidentale, perché per ptimi abbiamo lottato contro lei tirannide totalitaria, 11erprimi abbiamo messo in guardia i democratici degli altri paesi contro il pericolo del consolidamento di una tale tirannide con l'aiuto che ad essa veniva dai loro governi. In tale

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