L'Avvenire dei Lavoratori - anno XXXV - n. 8 - 1 maggio 1944

B Anno XXXV (nuova serie) N. 8 L'AVVENIRE DEI LAVORATORI DeIDocrazia dei consuDiatori e deD1ocrazia dei la-voratori estremi esiste un p un t o m e d i o , che la economia liberistica pretendeva determinabile dal libero gioco della domanda e dell'offerta. In difetto di tale meccanismo, ormai dimostratosi incapace di funzionare, il punto medio potrà essere determinato soltanto in base a criteri economico-politici, mediante uno o più piani economici, dagli organi di una democrazia dove siano liberamente rappresentati ed equilibrati gli interessi dei consumatori e dei produttori. Solo tali organi sono in grado di decidere se, in un determinato periodo, convenga alla collettività sacrificare il tenore di vita alle necessità delle ricostruzioni, delle opere pubbliche, ecc., o viceversa. «La produzione va messa al servizio del fabbisogno, talché il piano del consumo popolare preceda e segni la via a quello della produzione. Nel futuro non dovrà più spettare al prezzo e al profitto di decidere che cosa e in che misura si debba produrre, bensi al fabbisogno della collettività. Solo in tal modo si potrà stabilire una effettiva "democrazia dei consumatori,,.» Cosi veniva riassunta e riportata, nel n° 5 dell' <<Avvenire dei lavoratori», l'opinione di Edward H. Carr sul meccanismo del consumo, della produzione e del prezzo. Se però ci si pone «in medias res» ci si rende conto che la soluzione pratica del problema non è cosi semplice come sembrerebbe subordinando il produttore al consumatore. L'economia europea, cosi come è adesso e come risulterà a guerra finita, avrà una sua fisionomia r e a 1 e , data dai complessi produttivi, officine, impianti, maestranze e tecnici, materie prime e prodotti, mezzi di trasporto, ecc., da una p:1rte, e da una grande massa di consumatori impoveriti, dall'ultra. La condizione essenziale per la normale ripresa del meccanismo della produzione e del consumo, nell'interno e fra gli stati, è che sia ristabilita la normalità e la stabilità monetaria. Dato ciò come avvenuto la questione si presenta nei seguenti termini: come avviare la produzione di pace in modo che essa si metta al servizio del fabbisogno della collettività ma nello stesso tempo si riorganizzi razionalmente, liberandosi dalle sovrastrutture di guerra e anche da quelle mantenute in vita per molti anni dall' «autarchia» e dall' «isolazionismo» ? Se l'unica legge della ricostruzione e rio;:ganizzazione economica europea dovesse essere il fabbisogno dei consumatori, la produzione seguirebbe una data direzione: quella di soddisfare la grande richiesta di generi di prima necessità, ma si troverebbe dopo un certo periodo ad una svolta pericolosa, cioè ad una nuova crisi. Gli impianti rimessi in piedi o costruiti ex novo solo per accontentare i bisogni provvisori e indistinti di milioni di consumatori rischierebbero di diventare parzialmente improduttivi. Da ciò appare come per «fabbisogno della collettività» debba intendersi il fabbisogno presente e futuro, secondo una previsione se non razionale almeno non del tutto empirica. Se ciò è vero, come sembra, soltanto un piano, o diversi piani economici possono far si che il produttore sia subordinato al consumatore senza conere il rischio di costruire impianti che diventino improduttivi col cessare o col diminuire della richiesta e, d'altra parte, che questa sia disciplinata in modo da dar luogo ad una produzione razionale e non soggetta a crisi periodiche. Soltanto a tali condizioni la «democrazia dei consumatori» può evitare di dare origine agli stessi inconvenienti giustamente imputati dal Carr alla «dittatura dei produttori». Ma i piani economici, si osserva da taluni, contraddicono al concetto della democrazia dei consumatori in quanto possono servirsi del «prezzo» come di un facile mezzo per orientare il consumo secondo le esigenze della produzione, tornando cosi al punto di partenza. «Il prezzo, osserva ancora il Carr, dovrà cessare di essere il fattore dominante e potrà allora in certe determinate circostanze diventare un utile servitore, una volta rinunciato a far da padrone.» Senonché. il prezzo è molto più l'arma dei produttori che non la difesa dei consumatori, i quali hanno invece quella, piuttosto debole e limitata ai consumi non di prima necessità, di diminuire la domanda. Perché il prezzo possa divenire un utile servitore dei consumatori occorre che questi possano contribuire a determinarlo con mezzi efficaci. Ma poiché i consumatori sono t u t ti , cioè la collettività, chi può determinare il prezzo se non lo stato che appunto rappresenta la collettività? Se dunque ci si met.te nel mezzo delle cose e se si traduce in dati reali la teoria, si arriva alla conclusione che la democrazia dei consumatori potrebbe essere attuata soltanto dallo stato secondo uno o più piani economici. Tale conclusione può sembrare assurda e invece non lo è. L'economia pianificata è infatti la sola che renda possibile la democrazia dei consumatori mediante l'equilibrio fra la domanda e l'offerta senza ritornare al liberismo economico con tutte le sue conseguenze. Il problema si riduce cosi alla determinazione del prezzo, agli organi che dovranno determinarlo, ai criteri da adottare per disciplinarlo. Se il prezzo g i u s t o , idealmente, è quello che soddisfi al massimo i bisogni e i desideri dei consumatori secondo le loro possibilità e nello stesso tempo favorisca lo sviluppo della produzione in modo razionale, cioè senza crisi ricorre ti, l s à.e t e m · n~ · n e n: RJ.lQ clie e ser a a all'. co ro Belle vo on à; dei consumatori e dei produttori. Tali volontà possono incontrarsi soltanto sul terreno della democrazia politica dove gli interessi di ognuno e di tutti possono e devono avere il loro libero gioco. Perciò g 1i organi adatti a determinare il prezzo saranno soltanto quelli emananti democraticamente dai due interessi concorrenti. Le soluzioni diventano più complesse quando si cerchi di fissare concretamente i cri te r i da adottare per la determinazione del prezzo. E' noto che a parità di tipo e di qualità, i costi di produzione variano notevolmente fra lo stabilimento (o impianto, o officina) meglio collocato e attrezzato, e quello peggio attrezzato e collocato. Se il primo può produrre, ad esempio, ad un costo medio, per unità, di 75, l'ultimo potrà produrre soltanto ad un costo medio, ad esempio, di 125. L'interesse astratto del consumatore sarebbe che il prodotto venisse posto in vendita a 75, più un modesto utile industriale. Se tale però fosse il prezzo tutte le aziende i cui costi di produzione fossero superiori a 75 lavorerebbero in perdita, il che non può essere in nessuna economia a regime monetario, anche socializzata. L'interesse astratto dei produttori sarebbe che il prezzo fosse fissato a 125 più il margine industriale, ma anche ciò non può essere perché la vendita (e quindi il profitto in regime capitalistico) diminuirebbe per tutti, pur essendo l'utile, per unità, il massimo possibile. Poiché la differenziazione dei costi è venuta accentuandosi dal principio del secolo ad oggi, quasi tutti gli stati sono intervenuti nella attività economica privata regolandola in modo che il prezzo; esclusi i casi di quasi-monopolio, si stabilisse ad un livello medio e tale da assicurare il profitto alla maggioranza dei produttori. Per la minoranza, i cui costi di produzione superavano il livello medio corrente, gli stati hanno provveduto mediante il protezionismo. Questa è una, non la sola, delle varie forme di protezionismo adottate. Volendo abbandonare il sistema protezionistico senza porre immediatamente in disavanzo buona parte della produzione ( ciò vale anche in regime di socializzazioni) il solo mezzo utile è il prezzo e la sua fissazione ad un livello medio. Tale livello (che naturalmente non sarà né permanente né uniforme per tutti i generi di prodotti) può essere determinato soltanto in base a considerazioni p o 1 i ti c h e oltre che economiche. Infatti dalla media dei prezzi dipende lo standard di vita della generalità (i numeri indici del costo medio della vita, se sinceri, permettono calcoli se non esatti almeno approssimativi) come si può accelerare o ritardare il ritmo della produzione aumentando o diminuendo l'utile industriale. Aumentare il tenore di vita significa distrarre l'economia dalla produzione di beni di non immediato consumo (ad es. grandi opere pubbliche, ricostruzioni, ecc.), mentre il serbare in vita, con gli alti prezzi, gli strumenti di produzione scarsamente produttivi significa abbassare il tenore di vita generale. Fra i due * Il prezzo non è però il solo «fattore dominante» dell'economia: il salario ne è un fatlore altrettanto «dominante». L'alto salario può dominare l'alto prezzo come il basso prezzo può sempre essere eccessivo in regime di bassi salari. Cosi pure il costo di produzione scema in regime di bassi salari e la percentuale di produttori deficitari diminuisce, cosicché lo stato riesce a trasferire sui salariati parte dell'onere derivante dal protezionismo. D'altra parte i salari aumentano il costo di produzione anche nelle aziende meglio attrezzate e collocate, con la conseguenza di aumentare il prezzo medio. Questo perciò non ha mai un senso né un valore assoluto, ma soltanto re I a ti v o, cioè in rapporto al salario medio. Se l'economia intende escludere, come superato, il libero gioco della domanda e dell'offerta àei prodotti, cosi deve abolire la determinazione del salario mediante il libero gioco della domanda e dell'offerta di lavoro. Perciò anche il livello medio dei salari (che, come per il livello medio dei prezzi, non potrà essere né permanente né uniforme per ogni genere di lavoro) dovrà essere determinato in base a criteri e c o n o mi c o - p o 1 i ti ci , nello stesso modo come per i prezzi. Soltanto cosi la «democrazia dei consumatori» può cessare di essere un'aspirazione per diventare una stabile realtà. Tecnicamente, anche in una economia socializzata, la differenziazione degli stadi evolutivi degli strumenti di produzione ( officine, stabilimenti, impianti, ecc.) richiede una differenziazione nella cifra-salario per ogni azienda o tipo di aziende. Il mezzo più adatto per far si che la cifra-salario non annulli, se troppo alta, i benefici derivanti dai minori costi di produzione o non abbassi, se troppo ridotta, il tenore di vita dei lavoratori, è il sistema del fondo - sa 1 ari da determinarsi secondo criteri che tengano conto non solo degli interessi dei lavoratori-consumatori, ma anche di quelli dei lavoratori-produttori: in altri termini in base a criteri convenienti all'intera collettività, cioè politici. Ma il discorso sul meccanismo del fondo-salari ci porterebbe ad una esposizione particolareggiata ed estranea al nostro scopo, che è solo quello di precisare come l'unico modo per stabilire una effettiva «democrazia dei consumatori» è quello di regolare ed equilibrare il consumo e la produzione, mediante il prezzo e il salario, secondo piani economici studiati e attuati in base a criteri economico-politici, cioè nell'interesse della collettività complessiva, dagli organi di una effettiva democrazia dei lavoratori. D. G. Che co~a e CODle ~ocializzare? La socializzazione è un mezzo, non un fine. I socialisti vogliono socializzare certe imprese, non per la socializzazione in sé, ma perché credono che quelle imprese, diventate proprietà sociale, saranno utili o almeno non nocive alla comunità. Di per sé, staccata da ogni considerazione di spazio e di tempo, la socializzazione può anche essere cosa non buona; in un determinato momento, in un certo ambiente, in una certa misura, la socializzazione può anche essere soltanto un semplice espediente. Le ragioni più importanti per le quali i socialisti, sia in Gran Bretagna che in tutti gli altri paesi europei intensamente industrializzati, vogliono socializzare certi settori della produzione, sono due. Storicamente parlando, la prima di queste ragioni sarebbe la seguente: quando la produzione è al servizio dell'interesse privato, inevitabilmente c'è sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Le ingenti fortune che i ricchi riescono ad accumulare, sono dovute alle sudate fatiche dei lavoratori. Questo genere di sfruttamento non ha cessato di esistere in Gran Bretagna, benché il capitalismo inglese espandendosi lo abbia in gran parte trasferito nella sua forma più grossolana alle popolazioni dei territori coloniali. Dal punto di vista psicologico questo primo motivo per il quale la socializzazione fu ritenuta sempre necessaria, ha perduto una parte della sua urgenza, pur mantenendo la sua giustificazione logica. motivo è maggiormente valido. Il i mostra sempre più incapace ad assolvere il suo compito storico di liberare le forze di produzione e consacra sempre meno le sue energie ad accrescere la produzione delle merci e dei servizi, cercando anzi di limitare questa produzione per paura di inondare il mercato. Dall'ultima guerra mondiale in poi, l'industria è stata diretta da gruppi monopolistici i quali hanno inteso il problema della produzione in senso negativo. Ristretta la produzione, distribuiti i mercati fra di loro, distrutte ovunque fosse possibile le fabbriche e i cantieri «superflui», essi hanno creduto non solo di potersi salvare, ma anche di potersi consolidare. Questa tendenza restrizionista e monopolistica non caratterizza tuttavia tutti i rami dell'attuale sistema economico. I capitalisti monopolisti non controllano direttamente tutti i settori dell'industria; normalmente essi si impadroniscono di parecchie materie e meccanismi, con il controllo dei quali riescono ad influenzare l'intero processo economico. - La leva di controllo può essere determinata, secondo i casi, dall'estrazione o dal raffinamento di una materia prima essenziale, oppure dalla trasformazione della materia prima in prodotto intermedio semi-fabbricato. Talvolta è la tappa finale della fabbricazione, quando gli impianti dell'industria sono cosi costosi e la scala minima della produzione è cosi vasta che il numero di aziende è per forza ristretto e una loro cooperazione è più facile ad attuare. Il controllo monopolistico viene quasi sempre assicurato in Inghilterra indipendentemente Zurigo, 1 Maggio 1944 dalla legge, la quale semplicemente si astiene dall'immischiarsi nell'economia; ma accade pure che i monopolisti invochino addirittura l'aiuto della legge e persuadano il governo a creare leggi a loro favore, ad appoggiarli nel commercio internazionale, ad aiutarli con il contingentamento e le manipolazioni delle tariffe. - In un modo o nell'altro, il capitalismo monopolistico ha raggiunto in grande misura il controllo sulle industrie essenziali della Gran Bretagna e degli altri paesi occidentali e ha impresso la sua impronta essenzialmente restrizionista all'intero sistema economico. Questo controllo è stato raggiunto non con l'estendere il monopolio a tutte le industrie - simile generalizzazione sarebbe stata a svantaggio dei monopolisti - ma con l'occupare in esse un ristretto numero di posizioni-chiave. Possiamo quindi azzardare l'opinione che, per abolire le influenze restrizioniste del capitalismo monopolistico, non è necessario socializzare tutte le industrie, ma soltanto quelle parti di esse nelle quali il monopolio ha già preso radice, o potrebbe prenderne delle nuove se venisse scacciato dalle sue attuali roccaforti. Per socializzare le altre industrie e attività produttive non soggette a questa particolare condizione, potrebbero esserci delle buone ragioni; ma, se vogliamo procedere razionalmente, dovranno essere sempre della ragioni speciali per socializzare la tale industria o il tale servizio, e non per intraprendere la socializzazione indiscriminata di tutte le industrie e di tutti i servizi. Alcuni socialisti sono dell'opinione che il capitalismo in tutte le sue forme debba essere spazzato via in blocco, cosa questa che si può benissimo ammettere in certe circostanze. Non è da escludere che prima della fine dei subbugli attuali il sistema capitalista crolli nella Gran Bretagna e in altri paesi, cessando di fornire quel minimo essenziale di merci necessarie all'esistenza del popolo. Se ciò dovesse accadere, la sola possibilità di ripiego sarebbe questa: lo stato, qualunque specie di stato e di governo, si impadronirà come potrà della situazione, preoccupandosi soprattutto di far funzionare nuovamente l'industria. In simili circostanze, non si possono naturalmente porre limiti alle misure di socializzazione rese assolutamente necessarie. Questa fu nei suoi aspetti essenziali la situazione dei russi l'indomani della rivoluzione sovietica, situazione che li condusse al «comunismo di guerra» nei primi anni del loro regime. Se noi dovessimo affrontare in Gran Breta_gnaun simile problema, lo dovremmo risolvere pressapoco nello stesso modo, volenti o nolenti; oppure, cercando un'altra soluzione, troveremmo quella di lasciar morire di farne il popolo. Ma per il momento non vogliamo occuparci di situazioni ipotetiche, e vogliamo invece considerare quale politica dovrebbero addottare i socialisti inglesi di fronte a un sistema capitalistico tutt'ora funzionante, il quale, sia pure in quantità non sufficente, effettua la distribuzione delle merci. Noi non ci rivolgiamo agli innamorati della rivoluzione che credono alla stessa soltanto in quanto è violenta (quelli cioè ai quali non importa la natura e la sostanza della rivoluzione); ci rivolgiamo a coloro i quali si sono resi conto dell'urgenza di un cambiamento radicale del sistema economico britannico e che vorrebbero attuare questo cambiamento con il minimo possibile di violenza e di sofferenze durante il periodo di transizione. Anzitutto diciamo loro che non c'è nessuna necessità immediata che giustifichi il passaggio nelle mani dello stato di tutte le industrie. Organizzare un'industria come entità unificata per servire il pubblico interesse, non è facile cosa. La sua attuazione richiede dei dirigenti di grande capacità; e le capacità organizzative di primo ordine sono rarissime. Il socialista sensato, cosciente della vastità dei compiti che ad ogni modo gli spetteranno, avrà la prudenza di evitare ogni estensione inutile del raggio delle sue responsabilità, e tra le istituzioni esistenti si servirà di quelle che si possono adattare ai suoi fini. Non avrà il desiderio di capovolgere per il divertimento di dover poi ricostruire; poiché egli sarà seriamente e intensamente occupato in opere necessarie di creazione, egli non avrà il tempo per le superflue opere di distruzione. Le imprese meno facili ad integrare in un sistema socializzato, saranno le piccole imprese; le industrie più difficili da socializzare saranno quelle composte da un grandissimo numero di ditte indipendenti. Una grande industria trustificata, consistente in pochi stabilimenti giganti, la quale si trovi già sotto un controllo finanziario unificato, potrà essere socializzata con un semplice cambiamento nella sua direzione centrale, seguito da variazioni secondarie, attuabili quando l'occasione si presenterà. In questo senso le grandi industrie trustificate sono già mature per la socializzazione; la sola difficoltà sarà nel trovare gli uomini più adatti a occuparsi di esse e a dirigerle in uno spirito socialista. (Continuazione pag. 5)

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