Alfa beta 114 e osa significa che il design ha dato all'industria il lessico? Quale design ha dato a quale industria qual lessico? Di che design si parla e cosa significa lessico? In quale paese ci troviamo, in quale epoca storica e con quale in- •dustria ci dobbiamo confrontare? Poi, questo documento perché è stato fatto proprio da una industria, una delle più rappresentative tra quelle considerate design-oriented, la quale se ne dichiara promotrice? Sarà un ricorso storico piuttosto che un nuovo corso? Se con il lessico l'industria ha espresso prodotti dotati di linguaggio autonomo perché l'industria·ha «espresso», o non fabbricato, o non venduto? Cosa sarà mai questo linguaggio autonomo del quale si vestono i prodotti? Ma è solo abito oppure habitus mentale? Cosa è un linguaggio autonomo, anzi cosa si intende comunemente per «linguaggio»? Sarà mai vero che l'industria lo ha appreso? Perché la critica dell'esistenza è parte integrante del progetto moderno? Cosa si intende per critica dell'esistente? Perché la costruzione di una etica dell'era industriale è necessaria allo sviluppo del progetto moderno, anzi ne è la condizione? Cosa mai sarà questo progetto? Cosa vorrà dire «moderno»? Vogliamo che il design sia la coscienza critica della produzione industriale? Ma a chi servirà questa coscienza critica, e da quali momenti storici deriva la forza della sua affermazione oppure a quale futuro si vorrebbe riferire? Discutiamo pure sulla A più voci pagina 91 nvagone __ incompletezza dei risultati ottenuti dalla razionalità pratica adottata dalla società contemporanea, però chiariamoci prima se fu vera razionalità oppure solo pratica. Siamo poi certi che venne addottata piuttosto che accettata, quando non addirittura subita? Diamo per scontato che l'intervento delle capacità tecnologiche ha prodotto effetti non controllati? Difficile confutare l'ovvietà. Ma allora quanto infastidisce è la rivelazione della nostra acquiescenza trasformatasi, negli anni, in connivenza? Eccoci arrivati al punto centrale del documento, i tre principali assunti del progetto generale di riferimento ai quali accenniamo in maniera volutamente affrettata con tre domande. Gli uomini hanno la responsabilità morale degli effetti che le loro azioni producono sull'ambiente? L'utilità collettiva esige una costruzione razionale della cultura della pace? Perché non affermare la necessità di una figura che riunisca in sé la dimensione strutturale, la dimensione funzionale, la dimensione comunicazionale, la dimensione del desiderio? Cosa sarà mai questa dimensione del desiderio? Qui avremo voluto veder nascere e fiorire un mare di punti di domanda. Tanti quanti sono i tulipani ad Harleem in primavera. O forse nessuno possiede più questa dimensione del desiderio? Colui che pratica il design, colui che pratica il progetto è l'unica figura esistente che esprima queste caratteristiche? Solo quelli .. che operano sui valori dell'arte, congiunta a solida conoscenza tecnica? Capaci di creare nuovi riferimenti culturali? Capaci di trarre sintesi dai vari elementi del sapere? Saranno solo questi, oppure questi si proporranno come parte di un tutto? Saranno i referenti? Gli esecutori testamentari? La collettività dei designer rappresenta o non rappresenta, per la società contemporanea, il più vasto spettro di conoscenza tecnologica ed umanistica? I fratelli Arze Anaiak Perché non denunciare la mortificante assenza di un progetto generale di riferimento? Perché utilizzare le risorse mentali per migliorare la qualità della produzione e non, invece, la qualità della vità? A questo punto appare chiaro che nessuno vorrà fare un salto di scala nelle qualità del prodotto progetto. Non si parla solo dei designers oppure dei cosiddetti, o sedicenti, operatori culturali. Ma perché auspicare che la società compia un salto di scala nella qualità dello sviluppo? Ma perché firmando questo documento facciamo appello al senso di responsabilità non solo dei designer, bensì di tutti coloro che sono chiamati a prendere decisioni che investono l'ambiente l'utilità collettiva, le condizioni di sicurezza dell'uomo? Cosa è questo nostro atteggiamento di sicurezza? Da cosa è dettato? Da ignoranza, presunzione, superiorità, desiderio di utopia, dalla dimensione del desiderio? Perché non proviamo a trasmetterlo a certi raggruppamenti industriali, culturali, politici? Oppure è meglio aspettare il riscontro della diffusione di queste enunciazioni di principio all'estero? Questa ltal~a di santi, di navigatori, di poeti, chissà che non riesca ancora ad incantare qualcuno. Resterebbero una infinità di domande sulla provenienza degli estensori del documento. Qualcuno li ha definiti «uomini venuti dal freddo». Altre domande possono chiarire meglio i motivi della promozione da parte della Fratelli Guzzini in occasione del Settantacinquesimo anniversario di fondazione. Un sasso gettato nello stagno? Aspettiamo di registrare dove arriverenno i cerchi che si stanno rincorrendo sulla superficie. Per ora stiamo guidando un treno con un vagone di domande. Il valore simbolico I 1recente memorandum sul design sottoscritto dall' ADI propone nel tono profetico del manifesto, una serie di interessanti ipotesi per la rifondazione della cultura disciplinare. Mi sembra che il documento sollevi, anche per il design:la ben nota questione morale indicando una serie di temi di riflessione sul possibile ruolo di questa disciplina per un più generale progetto della nostra civiltà. Un richiamo puntuale per una attività il cui campo di azione si è dilatato a dismisura con l'universo degli oggetti che popolano il nostro mondo, ma che rivela ambigue incertezze fra i ricchi allettamenti della moda e le originarie inclinazioni sociali. Gli ultimi anni hanno aperto al design campi di intervento che lo rendono sempre di più un crocevia della nostra cultura ma contemporaneamente hanno definito la crisi irreversibile dei due argomenti forti della cultura disciplinare delineata dal movimento moderno ovvero la nozione di bisogno e di prodotto industriale. La nozione di bisogno, figura centrale nella formazione di un'etica e di una metodica del design, appare, nella nostra civiltà post-industriale, così vasta e velata da legittimare, forse affrettatamente, il giudizio di trapasso da una società del bisogno ad una del sogno. E questo ben riflette i criteri con cui le nazioni emergenti e le industrie leader configurano e vendono la nuova cultura del progetto: una cultura capace di produrre oggetti carichi di valore simbolico, maschere e segnali del complesso gioco che tutti i protagonisti, consumatori e produttori, giocano sulla scena del mondo. Parimenti il concetto chiave di produzione industriale, e di desing come ideazione di configurazioni coerenti con questo tipo di produzione, appare così dilatato e così incerto nei confini da giustificare ed accogliere, sotto il suo ombrello, le esperienze produttive più diverse, dal gioiello artigianale al prodotto di processi robotizzati. In verità, non solo la nozione di prodotto industriale ma dell'oggetto stesso appare ridefinita da questa civiltà della comunicazione, capace di riconoscere l'oggetto più per le sue valenze simboliche (immagine) che per la sua fisicità. È forse, come si è detto, una civiltà neobarocca in cui trionfano le messinscene sofisticate, le maschere, in cui è più facile ricordare i ruoli sulla scena che non il profilo degli attori. La crisi dell'oggetto, del bisogno, del prodotto industriale modificano essenzialmente il ruolo del design che partecipa ai processi evolutivi erogando innovazione e creatività ma non gestendo obiettivi e strategie. Il design in questa complicata macchina teatrale non regge i fili ma disegna con inesauribile fantasia la scena e le maschere. E su questo punto si può sottolineare la prima importante intenzione del «design memorandum»: porre energicamente la questione etica come centrale del processo creativo significa sospendere il processo di appropriazione delle strategie di creatività da parte del sistema produttivo/finanziario. È intuibile il ragionamento; per legittimare nuovamente la cultura del design, quale protagonista strategico del grande progetto moderno della nostra civiltà, biso-
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