_ I Alfabeto 114 rimenti nei classici:passati secondo Philip Johnson), sia dalla crescente invadenza del saggio di Heidegger incantevole a portar fuori dal «bello» - e dal linguaggio cioè-, per mirare addirittura alla verità. Raccogliamo indicazioni, verso un accertamento di punti, metodologie, argomenti, buoni a discutere fra noi in un rapporto attento con le opere recenti di arte e letteratura. Permesani comprende piuttòsto temi di constatazione simile nei modi a Baudrillard: «arte povera, conceptual art e body art fondavano ancora il loro statuto teorico sull'autonomia dell'arte»; «dagli anni Cinquanta in poi assistiamo ad un processo di derealizzazione della società ad opera dei mass media e della pubblicità»; «l'estetica, che svolgeva il compito di legittimazione dell'arte, viene sostituita dal sistema dell'arte» (nozione ora corrente che significa la prevalenza di criteri di efficacia, e anche di critici manageriali). Si sente già qui che il timbro è però diversivo; non c'è constatazione, ma tensione verso il mercato universale. Lo scacco del moderno è stato tale secondo Loredana Parmesani che «ciò che di interessante ci hanno proposto gli artisti degli anni Ottanta, sono le tecniche di suA più voci peramento, di fuga, di uscita dal moderno» (con una sua giustificazione, però acuta, sugli anacronisti). Il riferimento maggiore è a Nietzsche e a Heidegger ma con la precisazione che «un compiacimento sul nichilismo passivo» (criticato come è noto da Nietzsche) è stato invece vincente e ha portato al pensiero «performativo e calcolatorio». Viene dunque posta in atto come indispensabile una tensione etica in luogo dell'esame linguistico, o meglio con una curva che vuole depassare tale tipo di esame. Uno degli scritti di fondo di Grazioli, «Il simulacro», riferisce criticamente la linea di Baudrillard secondo cui «è un principio di simulazione quello che ci governa al posto dell'antico principio di realtà». Nel tentativo già baudelairiano di radicalizzare le stesse «armi» contro cui si combatte, Warhol, dunque, «prende la pubblicità e la eleva alla potenza nella simulazione, nel simulacro di terzo grado: riproduce la pubblicità della Campbells' soup in un'opera; e la mette in opera», come immagine dell'immagine, svelando e scaricando la situazione attuale nell'ironia': situazione che è: «siamo qui solo per i soldi»... E così l'artista «è tutto dentro e vuole esserlo». L'argomento critico molto acuto di Grazioli si svolge da qui: «la Pop Art, dà elevazione alla potenza della pubblicità, diventa sua vittima e specchio della potenza-impotenza del mercato e della società dello spettacolo». E ancora esplicitamente: «il simulacro non esiste; il lavoro, la fatica, così come tutto quanto è il 'dietro', esistono anche se apparentemente annullati o denegati»; e «l'opera dice di più, e di meno, e quelle che sono le opere degli addetti al simulacro dicono di più e di meno del loro effetto involutivo». Con rif_erimento finale a Cragg o a De Maria, Grazioli (dopo interpretazioni di opere che colpiscono e chiariscono i suoi motivi del «dietro» - molto buono e interessante, è il reale nascosto -, della «soglia», dello «specchio», della «coppia», del «chiasmo» e appunto del «simulacro») perviene anche a una definizione: «l'arte non è uno specifico, è un incidente, è al limite del linguaggio, è la metafora in quanto impossibilità di nominare, mancanza di linguaggio per poter dire il reale, metonimia dell'impossibilità del significante di avere un fondo su cui depositarsi» (ammirevole questo punto). E non c'è «lo stile come risveglio della soggettività e individualità dell'autore, ma il modo del rapportarsi rispetpagina 71 to a un'impossibilità che pure va presa in causa». Qui, mi pare, il riscontro con le tensioni teoriche delle avanguardie del Sessanta arriva a portare i più recenti e difficili disincanti e controcanti sul rapporto fra linguaggio e realtà fino a un elemento che è stato sempre proprio del Novecento, e a ripigliarlo: l'asimmetria, lo straniamento, il passaggio cercato verso un oltre. Forse ci sono convergenze o discussioni più ravvicinate nel periodo prossimo, fra le diverse ascendenze. Noi di altre generazioni, e vicini alle avanguardie, abbiamo tutti usato quella teoria, e quella metodologia, che con tanta discrezione teorica e tanta violenza di stile critico Lea Vergine usa nel suo libro L'arte in gioco. Siamo marxiani e adorniani verso il contesto da sviscerare, e in cui incidere; saussuriani e freudiani nei problemi di «linguisticità» (come si dice dopo Gadamer). Ma noi dobbiamo rendere anche utili, insieme, gli apporti inventivi e critici più sottili dei giovani che provengono dall'immersione nella crisi, nella discontinuità del soggetto, nella non certezza: senza perdere filtro. Calvinoàihericano I talo Calvino era stato molto sensibile all'onore di essere chiamato nel 1984 a tenere, due anni dopo, le Charles Eliot Norton Poetry Lectures, presso la Harvard University di Cambridge, a poca distanza da Boston; e questo sia perché i suoi predecessori erano stati tutti grandi firme dell'olimpo internazionale (Eliot Stravinsky, Borges, Frye, Paz), sia perché, secondo la tradizione, questo tipo di lectures richiedeva un tono conversevole, assai poco accademico, e quindi molto adatto ai mezzi del nostro scrittore. Calvino dunque vi si era accinto con bell'impegno, come ci ricorda la vedova, presentando al pubblico italiano il testo di cinque delle sei conferenze previste. L'ultima purtroppo non fu stesa per il sopraggiungere della morte. Ci consola però la sensazione che essa (dedicata alla Consistency) non avrebbe potuto dirci molto di più; e che il blocco dei saggi pervenuti a noi è esauriente, pur nella sua stringatezza: un vero testamento spirituale dell'autore, quasi presago della fine imminente. Forse anche in seguito Calvino avrebbe potuto aggiungervi ben poco, tanto l'invito era venuto al momento giusto. Quanto al sottotitolo (Sei proposte per il prossimo millennio), anch'esso vale soprattutto se riportato al suo caso personale. L'autore, cioè, si preoccupa ben poco di cercare di prevedere, con atteggiamento scientifico e impersonale, quali mai potranno essere le tendenze del futuro: si limita ad aderire alla sua parte, alla sua vocazione, sorretto dalla sensazione piacevole che ci sia una spontanea corrispondenza tra quanto egli ha sempre inseguito e i bisogni dei nostri anni. Gli basta dunque «parlare tanto di sé» per fare anche opera di comune utilità. Lo si può constatare fin dal primo argomento, dedicato alla leggerezza: c'è dote che meglio di questa si convenga all'arte di Calvino? E nello stesso tempo, c'è aspetto che più di questo si identifichi con una tipica vocazione della nostra fine-di-millennio? Ecco dunque che i due corni del problema confluiscono in un'unica realtà. Caso mai, la storia della narrativa calviniana è stata una lunga, proterva resistenza alla «chiamata», alla vocazione verso la leggerezza esercitata su di lui ab origine, dato Renato Barilli che, non dimentichiamo, i tempi in cui egli si formò e colse i primi successi erano totalmente avversi a questa virtù, imponevano anzi allo scrittore di essere il più possibile «pesante», leggi «impegnato». E Calvino sacrificò la sua parte, a questo idolo della tribù. Non per nulla, nella lecture in questione risuonano opportuni cenni autocritici, in tal senso. E anche chi scrive queste righe si può vantare di essere stato allora (nel '58, data di uscita del volume einaudiano contenente tutti i racconti stesi fino a ragno. Poi ancora per qualche anno egli perseverò su questa via del peccato, non evitando di tuffarsi in giornate di scrutatori, in speculazioni edilizie, sempre alla ricerca di una morale, di un contenuto socialmente utile. E non di rado i benpensanti di casa nostra, cioè una certa sinistra ufficiale e conformista, lo usarono per rivolgere qualche romanzina a noi giovani dissidenti della nascente neoavanguardia. Però nel complesso Calvino non mancò mai di avvertire che la «leggerezza», ap- @ff) Il Canzoniere del Lazio quel momento) un pungolatore di Calvino, un critico non corrivo, non disposto a lodarlo per i contenuti «impegnati». Numerose furono invece le tentazioni, per un Calvino figlio prediletto della letteratura resistenziale, pavesiana, di sinistra ecc. , a cominciare proprio dai temi «alla Pavese» o alla Fenoglio, legati al mondo dei partigiani. Buon per lui che fin dall'inizio li «alleggeriva» ostentando la trama esile e precisa al tempo stesso del Sentiero dei nidi di punto, era la sua stella polare, la sua salvezza, ed ebbe perfino il coraggio di rompere con le patrie lettere, di affrontare un esilio in Francia, andando a risciacquare sulla Senna i suoi minerali, così da dissolverne le scorie, da mettere in luce le splendenti pepite d'oro che custodivano al loro interno. Era anche un congedo dai vari contenutismi, e una scelta irreversibile a favore delle forme, sulla scorta degli insegnamenti di Queneau e dell'Oulipo, dell'Ouvorir de littérature potentielle. Di pari passo, era anche un congedo dal fastidioso primato della ragion pratica, che aveva aduggiato i nostri anni post-resistenziali, dove vigeva il culto del politico e del sociale d' abord. Era anche la fine del Calvino che con ostinazione i nostri critici ufficiali volevano «moralista», fustigatore dei costumi. Egli comprendeva invece che, semmai, la ricerca letteraria doveva far blocco con l'epistemologia, con la tecnologia. Eccolo così giungere a stabilire la luminosa corrispondenza omologica: essere «leggeri», oggi, non significa solo abbandonarsi a uno stato d'animo, a un'opzione psicologica abbastanza immotivata: è invece uli fondamentale aggancio con una rivoluzione tecnologica, quella stessa che vede il superamento della civiltà delle macchine, dello hardware, a favore del software elettronico (Lyotard parlerebbe di un passaggio dal materiale all'immateriale). Sta di fatto che non maneggiamo più cose fisiche, bensì le loro trascrizioni su nastro, o nelle memorie dei computer, per cui, bando agli spessori, ai pesi, largo ai fantasmi, agli ectoplasmi; inoltre, questa felice inconsistenza dei dati ne consente uno stoccaggio in gran numero. Le memorie artificiali se ne saturano consentendo operazioni complesse e combinatorie. Il che però apre un problema da cui la narrativa di Calvino è stata ossessionata, nei suoi anni buoni, e che forse non ha potuto risolvere. Ma continuiamo a scorrere nell'ordine queste lectures. Altre tre seguono alla proclamazione dell'obbligo di essere «leggeri» come altrettanti corollari: rapidità, esattezza, visibilità: sono appunto le doti aggiunte di quell'oggetto non più corpulento, bensì diafano, smaterializzato, che è richiesto dalla civiltà del software ( ovvero dalla nostra età incredibilmente matura e sofisticata). Nel proclamare la loro centralità, continua l'autoriconoscimento, da parte di Calvino, delle sue migliori virtù, con il conseguente abbandono delle tentazioni di segno opposto, così insistenti invece nella tradizione italiana. Per esempio, l'elogio dell'esattezza è anche la condanna dell'uso torbido delle connotazioni, delle parole allusive, vaghe, confuse; il trionfo della logica pulita imposta dalle scienze che non per
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