Alfabeta - anno X - n. 114 - dicembre 1988

I pagina 6 fra differenti ambiti sistemici (economico, politico, sociale); è una visione essenzialmente «olistica» (e anche qui il rapporto di continuità con l'«organicismo» della cultura marxista non è irrilevante), che si rifiuta di riconoscere l'esistenza di gerarchie fra livelli. Da qui deriva il pessimismo critico nei confronti delle categorie moderne di progresso e di progetto di prevedere-misurare-calcolare gli effetti dell'agire umano, mentre l'ecologia insegna che l'intenzionalità cosciente opera su segmenti limitati di più vasti sistemi di interazione, e non è quindi mai in grado di prevedere eventuali conseguenze controfattuali (Bateson). Concentrazione sul presente: il miglioraA più voci mento della qualità della vita non si ottiene scommettendo sul futuro dell'utopia, ma operando sulle cause immediate di sofferenza e disagio, intervenendo sugli equilibri sistematici per correggere gli automatismi negativi e sfruttarne le tendenze positive. Infine (e qui è forse il fattore di maggiore distanziamento dal 68) la nuova cultura alternativa è radicalmente libertaria: attenta alle differenze e alle minoranze, antidecisionista, impegnata nella conservazione del più elevato livello possibile di contingenza sociale, di possibilità di scelta fra opzioni alternative. Questo atteggiamento di considerazione (oserei dire di sacro terrore) per i rischi dell'irreversibilità, e m qualche modo la traduzione sul piano etico-politico della concezione epistemologica elaborata dalle cosiddette «scienze della complessità» (cibernetica, teoria dei sistemi, teoria dell'informazione, nuove teorie evoluzioniste in biologia e cosmologia), di un complesso di discipline scientifiche che hanno radicalmente trasformato la concezione tardomoderna del tempo. Da un lato, esse hanno introdotto l'idea di storia, di un processo temporale irreversibile, anche al livello delle teorie fondamentali della fisica (Prigogine ), dall'altro, hanno tolto alla storia ogni aura finalistica: l'irreversibilità non è direzionata, è il prodotto di eventi di natuTemi. Tradizione del nuovo Alfabeta 114 I ra casuale, probabilistica, vincolati esclusivamente da strutture generate da eventi precedenti dello stesso tipo: Non ho qui lo spazio per riassumere nemmeno le linee generali di questa tesi. Concludo ribadendo la mia convinzione: l'immaginario del 68 e la sua rielaborazione da parte dei nuovi movimenti non è anti- •moderno (regressione alla mitologia tradizionale), né moderno nel senso di un'àdesione al mito del progresso; è piuttosto lo sviluppo di una indagine del tempo e della storia che ridisegna la nozione stessa di moderno. Simulazionee arte Proponiamo quest'altro argomento, sviluppando o continuando la «Tradizione del nuovo» da cui partivamo nel n. 101 di «'Alfabeta» (leggendo Menna, Vergine, Argan, Colonetti, Grazio/i, Pignotti). È infatti giusto rilanciare dopo Venezia (e dopo una certa caduta del «post-moderno» a New York ne~'architettura stessa che è la disciplina da cui proviene) il dibattito essenziale del Novencento. Che non è questo recente e triste sulla fine della modernità o sulla sua ripresapur fluida e repressa - con formulazioni di crisi o di vecchia speranza - ma è fin da Benjamin e ancor prima relativo al rapporto fra l'arte contemporanea (con «divorzio», come disse Dorfles, dal pubblico) e la comunicazione di massa (in tempi, oggi, dove il primato è della «ricezione» secondo Jauss, o del pubblico). Sia coloro che commentiamo, sia chi voleva intervenire sul nuovo o nuovo-vecchio (con scritti pronti: Meneguzzo, Vescovo, Vincenzo, Patella) ci potrebbe aiutare con interventi molto sobri a dar seguito a questo discorso svolto dalle cose di oggi in seno ali'arte_.Deve emergere poi con simili divergenze interne la questione letteraria. I Occorre anzitutto una battuta teorica fortissima, per contraddire • Baudrillard. Io sostengo che Warhol ha giustamente fatto un bel quadro col manifesto del pomodoro Campbell: questo pomodoro è buono, con la sua materialità intrisa di ricordi d'odore, e chi si aggira solingo in un supermarket compra bene, sopravvivendo, questo e altri prodotti Campbell: io raccomando la minestra di porri e patate, c'è qui un'aura di patata e di Warhol. È vero nello stesso tempo che a sentire certi curatori dell'équipe del Moma, preparanti una gran mostra di Warhol per poi, l'effimero di Warhol, il suo fenomeno di gusto (che investe più campi e ha il capodopera nel pastello e nell'impaginato di «Interview») non tocca tanto lo «statuto» dell'arte, quanto, piuttosto, la sua propria critica e crescita - a dirne con gli epistemologi della non certezza - nei modi onnivori dell'ironia. A me pare così: in Warhol l'ironia mangia il mercato per un attimo. Ma, insieme al nostro aforisma, sentiamo direttamente il provocatore, che ha ragione anche lui con le sue tesi di «transeste-. tica» (nell'ed. Politi in apertura di collana di teoria dell'arte). «Si è convenuto di dire che non esiste più avanguardia né sessuale né politica né artistica, che questo movimento che corrispondeva all'accelerazione lineare di una storia, a una capacità dianticipazione e dunque a una possibilità di critica radicale nel nome del desidério, della rivoluzione, della liberazione delle forme, che questo movimento rivoluzionario è compiuto». In quanto, precisamente, «l'iperrealismo del nostro mondo [è) quello in cui l'evento 'reale', l'incontro reale, ha luoFrancesc Leonetti go sotto vuoto, spurgato dal suo contesto umano e visibile solb da lontano, televisivamente». Oggi secondo Baudrillard «dietro tutto il movimento convulsivo dell'arte contemporanea c'è una specie di inerzia, qualcosa che non riesce a superare se stessa e che gira su di sé in una ricorrenza sempre più rapida di tutte le forme». E addirittura: «è come per il cancro»; «si potrebbe leggere come una rottura del codice genetico, una rottura del codice segreto dell'estetico»; ed è appunto «con l'Iperrealismo e la Pop Art che tutto questo è cominciato, con l'elevazione alla potenza ironica della realtà fotografica della vita quotidiana. Oggi questa scelta comprende tutte le forme e tutti gli stili, senza distinzioni, che entrano nel campo transestetico della simulazione». Baudrillard giunge a parlare di uno «stadio frattale, o ancora stadio virale, o stadio irradiato del valore». E conclude con un ritocco della sua valutazione delle opere d'arte di oggi come feticci dicendo: «l'arte è travestita dall'idea, [... ] tutta l'arte moderna è astratta in questo senso, che è attraversata dall'idea molto più che da un'ispirazione delle forme e delle sostanze; tutta l'arte moderna è concettuale in questo senso». Ma qui la terminologia è dubbia, non di astrazione si parla né tanto meno di concettuale nel suo senso proprio o tecnico dell'arte; c'è solo ~n rilievo sfumato, non pertinente, e in ciò rivelativo. · «Che fare dopo l'orgia» si è chiesto Baudrillard, partendo da Baudelaire-Benjamin a modo suo: «non già una difesa dello statuto tradizionale dell'opera d'arte»; e bisogna invece «seguire le vie inesorabili dell'indifferenza e dell'equivalenza mercantile e fare dell'opera d'arte una merce assoluta». Ma se di certo ci interessa l'immersione di Baudelaire nel mercato, per batterlo, non di orgia si tratta, a fissare con cura il panorama, pur avendo perduto via via ogni criterio intervallare. Siamo arrivati alla conclusione, o meglio all'omologazione che è utile ad ogni atteggiamento neoconservatore, cinico o narcisista; ma c'è una stratificazione di ricerche, di cui distinguere alcuni fili con accuratezza strettissima. I I I fili sono_~istinti e ti~ati, c?n una capacita necessana e v10- • lenta di burattinaio, da Menna in un suo scritto lungo e formibabile (nella collezione Politi, piccola, graziosa e prepotente). Col titolo complessivo: «Il progetto moderno dell'arte». Partiamo dal finale: «occorre tentare altri varchi e altri sentieri, sapendo che essi non sono garantiti da una razionalità sicura di attraversare con la propria onnipotenza gli spessori e le oscurità del reale» (e il termine primo «varchi» contiene la precedente idea di un superamento, il termine «sentieri» trasporta qui - e pur laicizza - la metafora boscosa e miracolosa di Heidegger). Nella nota conclusiva Menna, riferendo la propria nozione di «costruttività» all'84, dà richiami ad altri teorici: Cacciari («la successione delle nostre operazioni costruttive permane così sempre in statu nascendi, intrecciando in sé, secondo modalità mai predeterminabili, arbitrarietà e contestualità»); e Tafuri («un intricarsi di prospettivismo e di disseminazioni»); e anche il «progetto dolce» di Bonito Oliva; e ancora Gregotti col suo concetto di «modificazione» per definire una pratica dell'architettura che non rinuncia al nuovo ma lo intende come «un costruire nel costruito». Un luogo importante della riflessione più matura di Menna si può rapportare all'analisi di Baudrillard, condividendone certi aspetti ma criticando, implicitamente, tutta la valutazione. Perché Menna approfondisce il limite storico dell'avanguardia e della sua propria «ideologia estetica» con crisi all'incontro con la società di massa: «l'arte pensava di avere come termine di riferimento una comunità di individui, di soggetti, cioè, non ancora espropriati della loro capacità di autodirezione, e invece si trovava di fronte alla moderna società di massa e alla enorme dilatazione quantitativa che la caratterizza», mentre l'arte svolge procedimenti qualificanti. La collettività di grande numero differisce non solo di grado ma di natura: e riferendosi ben giustamente alla sociologia sensibilissima di David Riesman, se ne ricorda la scoperta di un «trayasso da una struttura sociale composta da ,i1individui a 'direzione interiorizzata' o 'au- -toJ:liretti' [... ] alla 'eterodirezione' la quale :presuppone la presenza massiccia e deter-, minante dei mezzi di comunicazione di massa, i soli in grado di incanalare i gusti fluttuanti e il 'desiderio senza oggetto' del nuovo tipo di consumatore». Questa analisi tipologica è più penetrante, mi pare, della nuova nozione pura di «pubblico» che l'Autore e il testo «pigro» avrebbero ignorato... A questo punto si possono raccogliere bene le osservazioni acute di Vattimo su una «generalizzazione dell'esteticità» e sulle pratiche sociali non necessariamente artistiche (e non previste da Adorno) come il femminismo, la gay liberation, la lotta degli emarginati, che vengono a farsi «esponente della rivolta contro l'organizzazione». Menna osserva che proprio questa miscela esplosiva «formatasi nel '68 con l'apporto dei modelli alternativi dell'arte e con l'esigenza sempre più diffusa di una pratica politica che facesse perno intorno al nuovo bisogno di soggettività» ha indotto una realizzazione degli ideali caratteristici delle Avanguardie per una rivoluzione particolarmente estetica e percettiva degli individui: producendo però una esteticità diffusa, sino al «Beaubourg supermarket dell'avanguardia». E certo questo moderno è finito (e magari arriva oggi ai «feticci»). Ma nel lavoro artistico e in quello intellettuale c'è - come diceva Benjamin - «la via più lunga». E Menna contrappone nettamente «l'attraversamento analitico». Esso, presente variamente dopo il 60, «ha trovato nell'Arte Concettuale la sua definizione più coerente ed estrema, e risponde appunto a un'esigenza di autoriflessione e di verifica, prima di continuare a ritenere possibile una transitività immediata dell'artistico nell'estetico, e, quindi, nella vita quotidiana». L'Arte Concettuale si colloca dunque sul versante opposto della ideologia estetica delle avanguardie, pur ritrovando gli stessi motivi per restituire interezza al soggetto diviso di oggi. Così l'asse si sposta sul polo dell'artistico e del politico, abbandonando per il momento il polo dell'estetico e del sociale, con una forte divaricazione. E con quell'atteggiamento, già proprio dei maggiori artisti dell'avanguardia e ora ritornante in alcuni giovani artisti, di parzialità e separatezza inevitabile dell'arte verso la dimensione globale del vivente. Solo così riparte la via lunga della ricerca. Certo in tutto l'altro di oggi, e nel pubblico, permane l'ostilità agli specialismi e vagheggiamento di una cultura «auratica» che ci sta alle spalle: ma ha il carattere puramente fantasmatico di un esteticità destrutturata, ingenuamente spontaneistica. Dunque il progetto che è oggi per definizione «critico» vuol mettere in atto «una sorte di decelerazione e di scarti alla transitività veloce e unidirezionale del messaggio puramente spettacolare» (dove ha finito a inserirsi quel post-moderno che nell'analisi precedente di Menna è stato da lui riesaminato nel testo primo di Hithcock e di Johnson col loro «eclettismo» nel '32). E gli artisti nuovi oggi.e i giovani scrittori autentici «sanno di operare in un ambito settoriale, a volte marginale addirittura rispetto alle grandi correnti dell'informazione di massa, ma in questo ambito non rinunciano a pensare e a realizzare una forma che abbia anzitutto un valore per sé, non commisurata cioè alle aspettative del consumatore o pronta per la messa in scena». III Tocchiamo, per merito di Menna che ha un suo filo • (lui solo) diretto e conseguente nei cataloghi di mostre nel quinquennio, un terreno di discussione con accordi e disaccordi possibili limpidamente. Ci serve allora di sentire subito coloro che, nel versante di pratica critica del decennio scorso, si sono valsi delle nuove nozioni con un esercizio non facile. Per esempio, Grazioli e Parmesani, attivi in «Flashart» che è la rivista italiana decidente nella circolazione del gusto fra '78 e oggi; e che ora nella stessa collana Politi si raccolgono. A me pare ~he in essi sia prevalente l'uso di figure critiche o filosofiche di altre discipline, o già proprie della Retorica: e dunque essi si spostano sostanzialmente, mi pare, sia dal post-moderno in senso stretto e dall'anacronismo (eclettica assunzione di rife-

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