Alfabeta - anno X - n. 114 - dicembre 1988

pagina 4 l'uomo si sostituisce una forza più impersonale, la tecnica. Il bene e il male esistono ancora, e lottano fra loro, ma le grandiose possibilità della scienza applicata sembrano promettere, almeno nel sogno, la vittoria su tutti gli antichi malanni, la vecchiaia, il lavoro ripetitivo, la noia, persino la morte. Doveva arrivare la seconda guerra mondiale, la diffusione con i mass media degli orrori hitleriani (a cui sarebbero seguiti quelli staliniani), la bomba atomica, per far dubitare gli americani del loro sogno: gli europei avevano già avuto il tempo e la possibilità di disilludersi. I giovani lettori di fantascienza degli anni Venti e Trenta crescono, mettono su famiglia, da una parte e dall'altra dell'oceano l'oggetto dei loro amori giovanili si trasforma sotto i loro occhi. Negli anni Cinquanta non ci sono più i superscienziati di «Doc» Smith, gli scontri galattici di Hamilton, le legioni dello spazio di Williamson, le imprese a fumetti di Buck Rogers e Brick Bradford. Anche gli scrittori che avevano imparato negli anni Quaranta ad essere meno approssimativi e più plausibili.nelle loro estrapolazioni scientifiche, come Heinlein e Asimov, sono costretti a problematizzare i loro racconti. Le tre leggi della robotica servono naturalmente (come dichiara l'autore) a rassicurarci che le macchine non prenderanno mai il sopravvento su di noi, ma nei gialli fantascientifici degli anni Cinquanta anche Asimov mette in scena l'inquietudine dell'uomo nei confronti di un partner che ha il suo stesso aspetto e il suo stesso comportamento, ma il cuore di una macchina: l'androide, o robot umanoide. Le nuove star della fantascienza di quegli anni sono personaggi come Bradbury, a cui non frega un accidente della scienza e usa gli scenari del futuro solo per esprimere tutto il suo disagio per la società industriale di massa e la sua nostalgia per il mondo rurale: o come Sheckley, che sghignazza su tutto, viaggi interstellari e civiltà galattiche, robot e società dello spettacolo, per dirci: «guardate che questa è la nostra società, siamo noi che siamo fatti così, io ho solo aggiunto qualche particolare, ho esagerato un po' perché le nostre tragiche buffonate siano più evidenti». N ella tradizione filosofica occidentale vi è un appiattimento del concetto di verità che lo rende subalterno al sapere; il sapere, in quanto capitale accumulato di esperienza e di conoscenza del mondo esistente viene scambiato per un criterio di verità. Questo appiattimento trova origini filosofiche autorevoli, nella concezione della verità come «adequatio rei ad intellectus», come «omoiosis», o corrispondenza all'ente. Ma la verità che i greci chiamano «aletzeia» non è riducibile alla verità della corrispondenza. Heidegger insiste nel sottolineare come «aletzeia» significhi «non esser nascosto». Ma che cosa è nascosto, e soprattutto, che cosa nasconde, che cosa produce il nascondimento? Rispondiamo subito senza perifrasi: l'esperienza produce il nascondimento, ed il nascondimento è all'opera nel Sapere, nel conoscere il mondo per esperienza, nel conoscere l'inevitabilità del destino del mondo, nel conoscere il non essere dell'armonia. Questo conoscere, questo «aver saputo e dunque sapere» nasconde. È proprio di questo sapere che occorre liberarsi. Ed è l'innocenza che costituisce la via da percorrere per cogliere, o meglio porre in essere la verità. Dell'innocenza parla William Blake: «What is the price of experience? Do men buy it for a song? Or wisdom for a dance in the street?» A più voci La logica combinatoria è ancora all'opera: le società del futuro sono costruite con gli stessi elementi delle nostre, i mattoni sono solo rimescolati ma sono sempre quelli, e il rimescolamento fa apparire degli aspetti delle cose, della nostra vita, che altrimenti non sarebbero venuti alla luce. Basta cambiare la disposizione dei mattoni e le vecchie rassicuranti utopie si trasformano negli inferni più allucinati: come 1984 o Il mondo nuovo. Il lettore continua a leggere le riviste e i libri di fantascienza nelle metropolitane, al bar durante la pausa del pasto, e questo non cambia sicuramente la sua vita: fa un risolino, si appassiona alla storia di una guerra o di un viaggio, e magari non immagina che in quel racconto si sta parlando di lui o dei suoi vicini di scrivania. Ma intanto anche nella sua testa è cambiato il modo di vedere se stesso, la coscienza con cui vive la sua vita non è più quella solida, del senso comune, che gli garantisce la continuità del suo io. Queste erano già le cose che agli inizi del secolo avevano scritto i grandi protagonisti della crisi del romanzo. Alcuni scrittori di fantascienza, negli anni Sessanta e Settanta, le riprendono: e il lettore della metropolitana, che non ha mai letto e forse non leggerà mai né Proust né Joyce né Virginia Woolf né Musil, rischia di entrare in contatto con questo io fluttuante e insicuro, che deve sempre combattere per dare un senso provvisorio anche ai suoi gesti più semplici e quotidiani, sulle pagine di paperbacks con i mostri e gli eroi spaziali in copertina. Incontrerà problemi del genere nei romanzi di Philip Dick, dove i protagonisti fanno fatica a distinguere fra la realtà e la simulazione della realtà, non sanno se vivono in un universo concreto o nelle allucinazioni di qualche magnate dell'industria o manipolatore di media, e cercano sempre con poco successo di riaffermare una loro umanità di cui sono i primi a essere poco convinti. Leggerà i libri di James Ballard, e assisterà al tentativo di descrivere i depositi nella nostra mente dei nuovi miti dell'era supertecnologica, i «fossili dell'immaginario» lasciati dai flussi e riflussi rapidissimi di una tecnologia già desueta appena lanciata (leggendo L'impero del sole abbiamo poi appreso che il primo di questi fossili, in ordine cronologico e logico, è la luce accecante della bomba di Hiroschima che il piccolo Jim vede nello stadio di Shangai). La buona, vecchia fantascienza dell'anteguerra, e la nuova, aspra fantascienza del dopoguerra, avevano in realtà un paradosso in comune: usavano un vecchio medium, la parola scritta e stampata, per raccontare la storia dell'emergere di una nuova civiltà che si basava su nuovi media. I film di fantascienza degli anni Venti e Trenta sono enormemente più famosi dei libri di fantascienza degli stessi anni, perché si esprimevano con un medium già basato interamente sull'immagine: .e per questo Metropolis o King Kong hanno lasciato nel nostro immaginario dei sentimenti molto più corposi. Ma il cinema è l'ultimo grande mezzo di comunicazione della società industriale: la sua tecnologia è il punto d'approdo di una tecnica ancora ottocentesca, come la fotografia, il modello di consumo che offre fa ancora parte dei riti di una società di massa, il radunarsi in uno stesso luogo di un gran numero di persone che uniformano il proprio comportamento. Le metafore della fantascienza, il viaggio alla velocità della luce, l'annullarsi dello spazio nell'iperspazio, la contiguità e la simbiosi fra uomo e macchina, l'arrotolarsi del tempo su se stesso e l'esplodere dell'io fra mille modelli culturali di civiltà aliene, tutte queste metafore si realizzano invece più radicalmente nei nuovi media elettronici, il video, la televisione, il computer. In questa rete comunicativa che ai nostri occhi inguaribilmente moderni appare così omologante e invece è così pervasa dalla differenza, dalla potenzialità di adeguamento e di aderenza alle esigenze sempre diverse della nostra sete_di informarci e di comunicare, si realizza (o potrebbe realizzarsi) la lezione più interessante della fantascienza, e cioè che il nostro mondo non è univoco e monolitico, ma è il prodotto dell'interazione di una pluralità di universi possibili, con i quali è possibile un gioco combinatorio che può essere teso tanto alla comunicazione quanto all'isolamento. L'esplosione dei media elettronici aveva messo in crisi la fantascienza, che pareva destinata a ripiegarsi su se stesocenza Franco Berardi Bifo In Blake la conoscenza e la verità sono strettamente collegate con il male; è l'esperienza del male - perché non vi è esperienza che non sia esperienza del male, della caduta - che introduce alla verità. Ma la verità è nella forza di liberarsi dall'esperienza. La poesia di Blake è, in quanto profezia, inscindibilmente apocalisse. Ricordiamoci che apocaliss,e significa, etimologicamente, atto di togliere il velo, di scoprire e rivelare quel che è nascosto. Il gesto di svelare (apocaliptein) è da Blake attribuito alla poesia, all'attività che, simbolicamente e profeticamente, rivela la verità nascosta dall'essere apparente del mondo, la verità nascosta dall'esperienza, la verità nascosta dal conoscere: l'innocenza è questa verità, velata e nascosta dall'esperienza del Male. Bataille riscopre il senso di questa innocenza: «L'opera di Blake propon~va all'uomo non di farla finita con l'orrore del male, ma di sostituire alla fuga dello sguardo uno sguardo lucido. In tali condizioni non restava nessuna possibilità di riposo. La delizia eterna è allo stesso tempo l'eterno risveglio: forse è l'inferno, che il Cielo poté cacciare soltanto invano». (G. Bataille, La letteratura e il male, 84-5). L'energia che sta all'origine dell'eterna delizia sprigiona dall'esperienza del male. Male che assume le forme dell'erotismo e dello spreco, del sacrilegio e della violenza. Tutto ciò che Bataille chiamerà l'«eccesso» (ma già Blake aveva scritto: «The road of excess leads to the palace of wisdom», in «Marriage of Heaven •an Hell»). In Blake, Dio è identificato con la forza del Male, con l'Energia Negativa che anima la storia. La ribellione contro la caduta, manifesta nel mondo presente, nell'inferno della rivoluzione industriale, nella sofferenza psichica e materiale, è una rivolta contro Dio. E la forma più compiuta di questa ribellione contro l'inevitabilità della Caduta, contro la verità e l'inevitabilità del trionfo del Male è la regressione creativa verso l'innocenza. Questa regressione è resa possibile dal visionario, dal poeta. Il mondo storico ha le forme di un inferno dell'esperienza: il contenuto metafisico dell'esperienza sta nella priorità e nella superiorità del Male, e dunque nell'inevitabilità della Caduta, della perdita di sé, della disgregazione. Eppure è solo attraverso l'esperienza che può nascere - come apocalisse, come scoperta, come rivelazione, come esercizio della libertà - l'innocenza. L'innocenza è la capacità di ribellarsi all'inevitabile. La dialettica e la simmetria di Espe:- rienza ed innocenza sono in fondamento dell'idea di libertà in Blake. Libertà è sottrarsi all'inevitabile. La dimensione dell'immaginazione è la dimensione in cui questa libertà si rende possibile, ed in cui l'innocenza - non sempre regressione all'infanzia od all'illusione, ma consapevoAlfa beta 114 j sa, a rinchiudersi nella ripetizione di formule e di moduli che avevano avuto un senso decenni addietro, ma non ne avevano più nella situazione di esplosione combinatoria determinata dai nuovi media. Ben pochi autori negli anni Settanta, per esempio, avevano saputo scrivere qualcosa di intelligente su un tema e un fenomeno che avrebbe dovuto essere invece molto congeniale alla fantascienza: quello del co'mputer. Alla fine degli anni Ottanta nuovi autori sembrano viceversa essere capaci di un rinnovamento che può portare la fantascienza a essere uno strumento agile per l'immaginario e la creatività: quelli che sono stati, pur con qualche forzatura, accomunati sotto l'etichetta di «cyberpunk», e che hanno il loro principale esponente in William Gibson con i suoi romanzi Neuromancer e Count Zero. Ancora una volta si gioca con i mattoni ben noti del presente per parlare di un universo possibile attraversato da tutte le contraddizioni del nostro rappresentate e evocate in modo molto lucido. Con Gibson la parola accetta la sfida delle tecnologie informatiche, e scrive del computer e come un computer: non nel senso che simula o emula il word processor, ma descrive e potenzia in modo allucinato la nuova interazione fra l'uomo e la macchina, tenta la rappresentazione di un nuovo «spazio interno», quello delle reti di computer e delle menti umane che vi sono connesse. L'immaginario della fantascienza, che sembra arrancare dietro le premesse e le realizzazioni delle nuove tecnologie, può tornare a essere uno strumento di creatività e di costruzione di un discorso su di noi, che mai come oggi è possibile solo se «si parla d'altro». «Case batté se stesso sulla tastiera penetrandovi, e trovò uno spazio azzurro infinito dov'erano allineate delle sfere dai colori in codice appese a una griglia a maglie strette di pallida luce fluorescente azzurra. Nel non-spazio della matrice l'interno del costrutto di certi dati possedeva illimitate dimensioni soggettive. Case cominciò a planare in mezzo alle sfere come se scorresse su binari invisibili... ». lezza del Male e libertà dal conosciuto - può essere conquistata, esercitata, come condizione autonoma, visionaria. «Wisdom is sold in the desolate market where none come to buy.» L'esperienza costa più di una canzone: non vi è esperienza se non attraverso il male, non vi è esperienza se non (dice Vattimo) nell'ac-cadere. Ma questo sapere dell'esperienza non è vero; questo sapere si fa talmente strutturato da divenire strutturante. L'intuizione di Blake consiste proprio nel proporre un'idea della verità come attività conoscitiva che si sottrae al conosciuto. «Innocence dwells with wisdom, never with ignorance» (Blake: Vala or the Four Zoas). L'innocenza non è condizione di ignoranza del male, di semplice illusione, bensì libertà dell'immaginazione dall'aver conosciuto l'ineluttabilità del corrompersi, del venir meno. L'innocenza non è condizione di verità se non conosce la sua premessa tragica. «lnnocence is helpless» (Bronowski: The Man without a mask). La dimensione autentica dell'innocenza è quella di una conoscenza che si sottrae al sapere. Dunque la verità di cui stiamo parlando non è adeguamento del conoscere a ciò che si dà nel mondo, bensì attività di conoscenza che pone in essere la propria libertà, che rende possibile il dispiegarsi della differen-

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