Alfa beta 114 intero annettendoselo attraverso la pratica artistica. Ma questa ardita scalata al cielo dell'onnipotenza non sarebbe stata possibile se Joyce non avesse rinunciato alla,trascendenza e, al contempo, non avesse valorizzato la femminilità e il mondo esterno, che ora partecipano di pieno diritto alla elaborazione del dio immanente. La riscoperta dei valori della banalit'à quotidiana «ester- •na» non costituisce solo un antidoto alle aspirazioni ascetiche del giovane Dedalus, né indica solo un capovolgimento meccanico, ricorrente nell'arte novecentesca, onde la materia cosiddetta bruta sfratterebbe la nobiltà dello spirito dal piano «superiore», bensì indica la via della conquista di quella realtà assoluta che è appannaggio del solo artista e dalla quale il prete viene escluso. Così al dio del fallito ascetismo giovanile si attua la sostituzione di una banalità (sessuale, corporale, edonistica, persino culturale) caricata di un fascino riflesso a costo di indulgere in quel «travaglio cloacale» che sconcertò anche Ezra Pound e scandalizzò i benpensanti intralciando la diffusione di Ulisse al suo primo apparire. Il trionfo del corpo comporta il rifiuto della spiritualità e dell'ideologia della trascendenza. Più in generale, l'energetica valutazione della concretezza sensoriale e della visceralità è un contrassegno della volontà di esorcizzare la tentazione trascendentale, alla quale Joyce non intende sacrificare alcuna realtà. La mossa decisiva che Joyce compie per contrastare l'esigenza di sacrificio imposta dalla divinità e ricordata con sgomento da Bloom all'inizio dell'episodio detto «Lestrigoni» consiste appunto nel rifiutarsi di sacrificare alla trascendenza alcun aspetto, per quanto marginale e infimo, della realtà. L'immagine di Dublino offertaci in Ulisse è la costruzione cui si dedica una coscienza che non si abbandona al culto della realtà e invece si impossessa di ogni particolare per garantire il massimo di concretezza al labirinto entro il quale essa si muove solo per uscire a colpo sicuro. Lasciarsi affascinare dal collage obiettivistico dei particolari significa estraniarsi dal disincantato realismo di Joyce e immiserire la portata del suo progetto: quella Dublino è soprattutto il luogo letterario in cui si attua un raccordo tra realtà e reale. Se da una parte è evidente che Joyce si impegna a fondo nello sforzo di rendere impeccabile la ricostruzione della città, e a tal fine ricorre anche a tecniche già sperimentate da quelle avanguardie storiche (si pensi in particolare al futurismo)• nei cui confronti si era spesso dimostrato scettico e ironico, d'altra parte, cercando di tradurre in termini linguistici la vitalità della città moderna, ancora una volta egli non fa che inseguire, tanto nelle impoetiche cacofonie del quotidiano quanto negli atteggiamenti meschini e bigotti di certi suoi concittadini, la rappresentazione di una totalità cui nulla possa sfuggire. Il singolo particolare è giustificato solo dalla totalità. Del senso finale di questa operazione letteraria fu consapevole Jung, il quale, nel suo noto saggio del 1932, dopo aver espresso per molte tortuose pagine il proprio disappunto di fronte a un testo in cui gli sembrava che l'autore facesse del proprio meglio per ridursi a mero cronista, alquanto bruscamente cambia punto di vista e mette in evidenza il valore assoluto che l'immagine assume nel romanzo, dove, .... • ! . ~ t·~J ,,.11""!_. :~ ~ ~ ~ . Saggi Alle sorelle ritrovate, Cornelius Cardew malgrado l'invadenza di una «atrofia dei valori», il mondo infine diventa il valore di sé medesimo. In effetti, come sappiamo, dal momento che l'epifania del mondo coincide con quella divina, l'immagine assoluta coincide con la realtà assoluta. Molto probabilmente la discrepanza tra la prima e la seconda metà del saggio junghiano consegue dai mutamenti apportati al testo nel passaggio tra una prima stesura che irritò moltissimo Joyce, e la stesura definitiva, accolta dal romanziere con soddisfazione. Comunque sia, allontanandosi dalla interpretazione proposta da Curtius, largamente citato nella prima parte del saggio, e facendo piuttosto ricorso alla propria conoscenza del pensiero indiano antico, Jung avanza alcuni penetranti rilievi: coglie bene l'importanza che assume nel romanzo l'appassionato rifiuto di quel «'bene' tradizionale che si rivela come un tiranno, come un illusorio sistema di preconcetti che impoverisce con molta crudeltà la possibile ricchezza della vita reale»,5 evidenzia il risultato del sistematico lavoro di immanentizzazione («L'io del creatore di quelle figure non si ritrova più ed è come se esso si fosse disciolto nelle innumerevoli figure dell'Ulisse») e ribadisce, soprattutto, come l'opera di distruzione operata nel testo costituisca «uno sforzo molto serio di mettere sotto il naso dei contemporanei un'altra realtà» (nell'originale tedesco: «die Wirklichkeit, wie sie auch ist»). Il fatto che lo psichiatra svizzero mirasse a individuare, in altra sede, degli archetipi collettivi, preesistenti a qualsiasi testo di qualsiasi artista, situava il suo discorso, ovviamente, su un piano di realtà diverso da quello che a Joyce, animato da propositi radicalmente anti-idealistici, premeva di riscattare, ma ciò non inficia la fondatezza delle conclusioni generali cui infine pervier:ie Jung. 3. La finalità cui è rivolta la complessa strategia joyciana degli accoppiamenti risulta particolarmente calibrata nella contrapposizione della visione prospettica e della visione ciclopica. 6 La visione prospettica della realtà è una, ma tridimensionale, e ottenuta attraverso ìl due, l'interazione di due visioni indipendenti e differenti l'una dall'altra. La realtà «banale» di Joyce è composta da questa doppietta di sguardi, da questa giustapposizione delle visioni dei due occhi. Non si tratta semplicemente dell'occhio che guarda e di quello che guarda il primo occhio guardare, o dell'occhio che guarda verso l'interno (realtà interiore) e di quello che si rivolge all'esterno. Tutto ciò partecipa dello strabismo della visione prospettica, ma non lo esaurisce. Della visione prospettica si può dire che gli sguardi dei due occhi sono interdipendenti, nel comporre la visione, proprio in quanto sono indipendenti, come le due realtà che in sostanza qui simboleggiano. La radice di questo strabismo è allora piuttosto nell'ambivalenza stessa del concetto di abiezione, che indica, come si è detto, sia l'atto del rigettare sia la conseguente condizione di appartenenza all'abietto ritornante trionfalmente. Riconosciamo qui la struttura dell'identità dialettica di rimozione e di ritorno del rimosso illustrata da Lacan in opposizione anche alla nozione junghiana di accumulo di rimosso (nozione che fonda altrimenti il meccanismo enantiodromico ). I due occhi sono i due versanti della rimozione, quello attivo e quello passivo. ' Ulisse è il ritorno del rimosso, il ritorno che conduce alla rappresentazione dell'intero. Nello strabismo prospettico vibra l'umanità neoeroica di Ulisse, l'umanità fiera di conoscere la doppiezza della realtà e di saperne fare uso, in contrapposizione all'impossibilità di strabismo del Ciclope, negato alla visione dialettico-prospettica. È questa contrapposizione a spiegarci, tra l'altro, il motivo per cui Bloom, solitamente flessibile e tollerante, si oppone aggressivamente al Ciclope, rappresentante esemplare della visione monoculare: la verità della visione ciclopica appartiene al registro della Wirklichkeit e quindi riduce tutto a una banalità che non è assolutamente quella cui aspira Bloom. 4 Contemporaneo a quello di Joyce è il progetto del giovane Gide, illustrato in Se il grano non • muore (1920), di «rappresentare tutto». Rappresentare tQtto, per Gide, significa naturalmente rappresentare anche l'abietto. Ma per l'omosessuale francese l'abietto, seppur rigettato e abbracciato insieme secondo la legge enantiodromica, lo è nel registro della realtà effettuale, delle relazioni simboliche e morali, per cui la totalizzazione pagina 35 avviene per giustapposizione del desiderio represso e della sua giustificazione letteraria che ne costituisce la realtà necessaria e complementare. Per Joyce l'abietto non è tale, come ormai sappiamo, secondo Wirklichkeit, ma nel senso della Realitii.t, dove il desiderio, e la sua rimozione, operano l'articolazione dialettica della realtà esorcizzata dall'io ideale e di quella numinosamente ritornante, caricata di intenso e ambiguo fascino, dall'esterno . Il volo dedalico di Joyce supera il mondo dei rapporti simbolici sociali fin dall'inizio della sua avventura, ed è questo che fonda la superiorità dell'irlandese sul francese; è questo, in particolare, che ha permesso a Joyce di trasvolare vittoriosamente le pastoie istituzionali impostegli dalla realtà irlandese, mentre Gide restava penosamente dipendente dalla realtà della borghesia francese dalla quale egli proveniva. La realizzazione della totalità, mediante inclusione dell'escluso, avviene dunque, nei due casi, su due piani diversi. In Joyce le d_uemetà del symbolon appaiono più obiettive, impersonali, e l'operazione del loro ricongiungimento risulta più universale perché è il desiderio stesso a produrre i cocci. Si può chiosare questa ultima osservazione affermando che la fede religiosa di Joyce si direbbe maggiore di quella professata e quasi esibita da Gide. Pèr il primo infatti dio rifluisce tutto intero nel mondo, che non risulta essere quello della perversione, bensì quello della banalità. Invece in Gide dio rimane escluso come un rimorso da riscattare, e l'opera del francese sembra una confessione in vista di un'assoluzione, ossia di qualcos'altro rispetto a se stessa. Note (1) Julia Kristeva, Poteri dell'orrore. Saggio sull'abiezione, Spirali Edizioni, Milano 1981. Quanto al nesso tra objet e abjet, si veda Jacques Lacan in Lembi del reale, Marsilio Editori, Venezia 1979, p. 29. Ai fini delle presente trattazione non è irrilevante che il passo lacaniano si trovi in un seminario dedicato a Joyce nel 1976. (2) In particolare si veda Jacques Lacan, Intorno alla psicanalisi nei suoi rapporti con la realtà in AA. VV., Scilicet. Rivista del/'Ecole freudienne de Paris, Feltrinelli, Milano 1977. (3) Sigmund Freud, L'interpretazione dei sogni, in Opere, Boringhieri, Torino, voi. 3, p. 564. Sulle implicazioni di tale distinzione si vedano le due note di Catherine Millot pubblicate sulla rivista «Ornicar?», Ornicar? Psicanalisi, Clinica, Insegnamento, Marsilio Editori, Venezia 1978, p. 129. (4) Cfr. Giovanni Cianci, Joyce futurista, in «il Verri», marzo-giugno 1987. In particolare: «Nessuna empatia con il 'vortice travolgente della modernità', nessuna modernolatria, segna l'esperimento metropolitano del decimo capitolo di Ulisse» p. 79. (5) Cari G. Jung, Ulisse. Monologo, in Opere, Boringhieri, Torino 1985, voi. 10, t. I. (6) Riprendiamo l'utile distinzione tra visione ciclopica e visione prospettica da una tesi discussa all'Università di Milano nell'anno accademico 1985-86: Visione ciclopica e visione prospettica sulla lettura del XII episodio di «Ulisse» di Andrea Bordoni. (7) André Gide, Se il grano muore, Bompiani, Milano 1982, p. 266. La questione, che evidentemente per Gide non era secondaria, riaffiora, come è noto, anche in Les Faux Monnayeurs (1925). Si noti, per converso, quanto scriveva Jung a proposito dell'Ulisse: «Ma io sospetto che Joyce non abbia voluto 'rappresentare' nulla», cit., p. 123. Ciò va inteso nel senso per cui il romanzo di Joyce tende a coincidere con la realtà, e non a «rappresentarla».
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==