pagina 34 Saggi Alfa beta 114 : sse:il ritorno dell'abietto 1. Esegeti e biografi di Joyce concordano nel ravvisare nella realtà costruita dalla narrazione del romanziere un carattere spiccatamente composito. Analizzando la genesi dei personaggi e delle situazioni, fanno a gara nel rinvenirvi i brandelli più eterogenei di una precedente realtà. Elementi disparati, estrapolati da figure di amici, conoscenti, nemici, o ricavati dalla persona dell'autore stesso o dai suoi parenti, risultano da queste indagini rifusi insieme a comporre le nuove entità psichiche e somatiche della finzione. Ma fin qui il procedimento letterario che ne emerge non appare possedere peculiarità particolari, anzi si può dire comune alla maggior parte dei romanzieri. Se tuttavia si analizza meglio questo processo compositiyo, soprattutto attenendosi ai personaggi principali di Ulisse, si può notare che questa contaminazione, perseguita al fine di conferire loro complessità e plasticità, passa attraverso un progetto di più ampio respiro e di più cogente necessità. Stephen Dedalus e Leopold Bloom raccolgono la maggior messe di elementi autobiografici ed eterobiografici, grazie ai quali moltiplicano le loro sfaccettature, e se li dividono, come si sa, in modo da distinguersi e da intersecarsi al tempo stesso. Entrambi non sono né positivi né negativi, e men che mai sono contrapponibili l'uno all'altro in base a queste qualità. Ma questo è il punto: se osserviamo questa obiettività, questa indifferenza di valori, questa contaminazione, per vedere di che cosa è composta, possiamo constatare che le componenti si devono invece riconoscere come originariamente positive o negative, successivamente capovolte o compensate tra loro e, soprattutto, accoppiate in base alla loro qualità di origine perché possano soddisfare un'esigenza di complementarità che non appare risolvibile nella semplice contaminazione tra elementi eterogenei, ma si rivela indirizzata alla restituzione di un intero risultante dalla ricomposizione di due classi di elementi, di due ordini di realtà. Prendiamo ad esempio la presentazione del personaggio di Bloom, che viene descritto con simpatia mentre pregusta un piatto prelibato a base di rognone. Noi sappiamo da Ellmann che Joyce provava, verso il cibarsi di interiora di animali, un senso di repulsione. Si tratta di quel tipo di disgusto che Julia Kristeva considera quale sintomo inequivocabile di quello che essa definisce un processo di abiezione. 1 Per altri versi sappiamo che il personaggio di Bloom condivide con Joyce attitudini, gusti, valori considerati positivi dall'autore, che evidentemente sentì la necessità di raggiungere una piena realtà, per il suo personaggio; attraverso quella complementarità sulla quale vogliamo qui soffermarci. Per seguire la mappa del viaggio tracciato in Ulisse occorre non tanto seguire l'intricata toponomastica dublinese, caso mai facendo leva sul dubbio conforto offerto dal Thom_'sOfficiai Directory, quanto rifare il percorso del desiderio di Joyce. E come il viaggio è un viaggio di ritorno, e l'eroe è continuamente rigettato in esilio dagli dèi, occorrerà esaminare questo rigetto in tutti i suoi versanti, e il fatale compimento, nonostante ogni rimozione, del ritorno del rimosso. Delle tre tappe che possiamo distinguere nella mappa del desiderio di Joycé (l'ascesi, l'abbandono dell'ascesi, l'opera artistica) solo l'ultima recupera l'abietto, ma per neutralizzarlo, per evitare che l'abietto si coauguli in trascendenza. La città di Dublino non sfuggirà a questa elaborazione, e anzi ne esemplifica la portata totalizzante: la città-labirinto irlandese, trasvolata dal volo di Dedalo del primo Joyce in fuga dall'ordine della Wirklichkeit, dal viluppo delle convenzioni simboliche sociali, verrà ricostruita come tutto il resto del mondo nell'opera del romanziere, attraverso una conciliazione che interessa, invece, un diverso registro della realtà. Riprendendo la classica distinzione posta dalla filosofia tedesca tra Wirklichkeit e Reatitiit, distinzione già elaborata da Freud e poi da Lacan (il quale ultimo, come è noto, propose di tradurre i due termini rispettivamente con realtà e reale),2 si tratta, in questa sede, di soffermarsi su una ulteriore distinzione che nasce in seno al reale. Posto che la Wirklichkeit, cioè il mondo effettuale dei rapporti sociali, Aldo Tagliaferri non ha mai costituito per Joyce un problema in sé, egli invece si scontra, già negli anni giovanili, con quella realtà che egli stesso crea come ostacolo e scarto decidendo di perseguire l'obiettivo del suo io ideale, coincidente (nel suo caso) con l'unione mistica con dio. Infatti il reale comporta strutturalmente una articolazione dialettica tra le scelte che mirano al raggiungimento dell'io ideale e gli «scarti» di tale percorso: in quanto rivolto all'attuazione dell'io ideale, il reale implica una scelta ineludibile rispetto all'abietto (alla realtà del peccato) e il giovane poeta intende appunto rimuovere tale ostacolo, che gli impedisce il raggiungimento del sommo bene. Il Joyce più maturo, convintosi che il male, fonte di ogni dolore e di ogni costrizione, non è che una conseguenza della frattura tra idealità e abiezione, si propone di realizzare una conciliazione tra le due polarità della frattura, fra i due tronconi del reale. Liberatosi dal gioco delle premesse fideistiche, Dedalo non solo può allora volare alto sulla realtà irlandese, ma anche trasfigurarla in reale e al tempo stesso evitare la frattura che il reale comporta. Il radicale cambiamento di rotta, precisandosi di pari passo con la stesura di Ulisse, è caratterizzato dall'adozione di un punto di vista che non è più quello del rifiuto bensì, quello dell'annessione. 2 L'oggetto abietto, sottratto alla coscienza fin dalla sua origine, che risale a meccanismi psichici • arcaici, preoggettuali, esercita al contempo richiamo e repulsione. L'ambiguità che lo caratterizza è evidenziata dal fatto per cui lo stesso atto di abiezione lascia trapelare una dipendenza nei confronti dell'oggetto abietto, come possiamo constatare nell'esempio, ampiamente illustrato da Julia Kristeva, del delirio antisemita scatenato e subìto da Céline, che si scagliava contro gli ebrei sentendosi oggetto passivo in balia del «potere ebraico». Proprio sulla natura duplice dell'oggetto abietto Joyce costruisce rigorosamente la sua opera letteraria che, mirando ad impossessarsi della realtà nella sua totalità, ricorre a due ordini di realtà tra i quali egli stabilisce nessi che occorre chiarire se si vuol mettere a fuoco la natura peculiare del realismo joyciano. Stephen Dedalus e Bloom, introdotti da espliciti riferimenti alla questione dell'oggetto abietto (nel primo caso attraverso l'episodio dell'abiezione-abiura di fronte allo spettro materno, nel secondo attraverso l'episodio del rognone), vivono parallelamente, si sfiorano, si incrociano, ma soprattutto sono accoppiati in un rapporto di complementarità, come la tonica e la dominante, «separate dal più grande intervallo possibile», sulle quali medita Stephen: il trapasso enantiodromico dal giovane e combattivo poeta al maturo e accomodante agente pubblicitario estrinseca esemplarmente, lungo l'intero arco di Ulisse, i rapporto tra il rimosso e il ritorno del rimosso, entrambi necessari alla costruzione di Joyce, il quale, per evitare che un residuo inerte - un dettaglio incalcolato - sfugga al suo disegno totalizzante acquisendo la minacciosa autonomia propria dell'oggetto abietto, segue, qui come altrove, la via di un assiduo e sistematico lavoro di accoppiamento tra i due versanti della rimozione. In questo modo Joyce evita l'ipostatizzazione del sacro in divinità, banalizza il sacro in umano quotidiano. L'incrociarsi di Dedalus e di Bloom prelude dunque al loro fondersi nella banalità quotidiana verso la quale è puntigliosamente convogliata la trama di Ulisse, e tuttavia il primo non diventa mai del tutto il secondo. Chiedersi, a questo punto, quale sia il margine di indipendenza e di interdipendenza tra i due personaggi significa ancora porsi la questione del ruolo che Joyce attribuisce alla realtà in quanto abietta e di quello che riserva a se stesso in quanto demiurgo. In una prima accezione realtà è tutto ciò che coinvolge l'attività psichica dell'uomo, alla cui onnipotenza nulla sembra sottrarsi; nella seconda, al contrario, realtà è tutto ciò che sussiste indipendentemente dalla sua attività psichica. Occorre rilevare subito che in entrambi i casi la realtà è pensata in rapporto all'umano, nel primo caso esplicitamente, e nel secondo perché essa implica una indipendenza dalla coscienza e dal desiderio dell'uomo. Nel secondo caso la realtà acquista, per così dire, il proprio peso specifico dal r fatto stesso di essere considerata dal punto di vista di una realtà umana che si scopre incapace di vincere l'opaca resistenza oppostale dal mondo esterno. Da ciò consegue che le due accezioni risultano interdipendenti proprio perché indipendenti, dato che tanto l'irrealtà del mondo quanto la sua realtà dipendono, in ultima analisi, dall'onnipotenza del . pensiero, nel primo caso trionfante, nel secondo negata e umiliata. Si può esemplificare l'umiliazione patita dalla coscienza alle prese con l'estraneità assoluta ricorrendo alla descrizione delle radici nella Nausea sartriana, dove il groviglio vegetale accentra in sé il massimo di realtà e il massimo di irrealtà: le radici divengono reali attraverso una intensa sensazione di irrealtà, di indifferenza e di inerzia rispetto alla coscienza di chi le osserva, sicché si può constatare che se da una parte è la loro realtà concreta a farle sembrare irreali, d'altra parte esse sono investite di un potere che, non più gestito dal soggetto, torna al soggetto dall'esterno. La drammatizzazione letteraria di questa situazione tiene conto in qualche modo del fatto che «la realtà psichica è una particolare forma di esistenza che non deve essere confusa con la realtà materiale» ,3 come sosteneva Freud con una formulazione che vuole prendere le distanze dall'idealismo, ma anche evidenzia l'origine della ferita narcisistica subita da una coscienza che non si vuole arrendere alla constatazione di tale differenza. La distinzione tra i due ordini di realtà è superata, peraltro, nel paradosso della divinità, che deve la sua immensa efficacia al fatto di sommare in un solo essere l'onnipotenza della psiche, postulata dalla prima realtà, e la totale estraneità rispetto all'uomo, propria della seconda. L'essere divino infatti è costruito sommando due indipendenze, quella del desiderio, che tende a liquidare qualsiasi ostacolo si presenti sulla sua strada, e quindi agisce al servizio di un narcisismo assoluto, e quella di una realtà esterna irriducibile, e quindi indipendente rispetto al desiderio. Per costruzione, e fin dalle origini della sua storia, la persona numinosa costituisce un'ipostasi inaccessibile perché giunge alla coscienza dall'esterno essendo in grado di annettersi ogni realtà. Di fronte all'onnipotenza narcisica assoluta ipostatizzata il soggetto umano riconosce il proprio limite, si assoggetta all'unica realtà totale, la quale a sua volta non può tollerare che venga indebolita la propria estraneità senza che, ipso facto, venga messa in crisi la sua esistenza. Il progetto, fondamentale nella poetica di Joyce, di impossessarsi radicalmente e sistematicamente della realtà, si realizza attraverso il recupero di tutto l'abietto per integrare la realtà divina nella sua opera. Il che equivale a dire che Joyce percorre la via della costruzione del dio immanente, alla cui apoteosi resta subordinata, in via secondaria, l'elaborazione lucida della divinità trinitaria. Ulisse è fondato, essenzialmente, non sulla reciproca ricerca-attrazione di un padre e di un figlio spirituali, bensì sulla reciproca complementarità delle due realtà, quella del rimosso e quella del ritorno del rimosso. È paradossale che le due realtà rimangano distinte fino alla fine, pur rinviando l'una all'altra, ma è anche necessario che l'una rimanga indispensabile all'altra: se non ci fosse rimozione, e dunque abietto, non ci sarebbe neanche l'enantiodromia dell'abietto, che Joyce sfrutta come arma contro il possibile e paventato ritorno della divinità trascendente. La complementarità dei contrari serve a Joyce per far coincidere la Realtà (il ritorno del rimosso), il dio immanente (un deus sive natura di ascendenza spinoziana) e la propria arte (la parola cui spetta il privilegio di incarnare il miracolo di tale coincidenza). Da un punto di vista biografico la questione si pone negli stessi termini, giacché le due realtà corrispondono anche a due momenti della vita dell'autore, quello giovanile e quello della maturità, momenti che ambiguamente rinviano e non rinviano alla stessa persona, spettando comunque all'artista-demiurgo il compito di utilizzare il proprio vecchio io, di integrarlo nell'Opera. Sia l'ascetismo del giovane Dedalus sia la sua abiura sono già sintomi di un esilio dalla Wirklichkeit e dalla trascendenza, dalla Pratria e dalla Chiesa, mentre Joyce, che può ormai guardare con pacata ironia ai propri eroici furori giovanili, si fa carico del mondo
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