Alfabeta - anno X - n. 114 - dicembre 1988

Alfabeta 114 Verità ed errore Renato Cristin I saggi contenuti in questo volume perseguono tutti, attraverso l'analisi di diversi filosofi, l'obbiettivo di individuare la verità attraverso le determinazioni dell'errore. Non aspirano certo alla verità singolare e assoluta, ma evidenziano negli autori affrontati il concetto di verità che di volta in volta emerge. Come criterio di ricerca è stato scelto il problema dell'errore proprio per far risaltare il complicato e contraddittorio rapporto fra la verità e il suo contrario. Attraverso dunque Cusano (tema del saggio di G. Santinello), Leibniz (V. Sainati), Hamann e Jacobi (M.M. Olivetti), Schleiermacher (G. Moretto), Hegel (R. Bodei), James (G. Riconda), Adolfo Levi (D. Venturelli) e Habermas (G. Cunico), con un intervetno nel campo psicanalitico (O. Meo), verità ed errore si incrociano in una relazione inesauribile. L'elemento teoretico che accomuna i vari saggi sembra ritrovabile in questa connessione: la verità non si presenta come semplice affermazione del vero, l'errore non appare come semplice opposto dell'orthotes: verità ed errore si compenetrano in una dimensione inquietante che caratterizza la fatticità dell'esistenza. Il senso esistentivo e fattuale della verità viene alla luce, attraverso i singoli studi, nel pensiero dei filosofi esaminati. Nel saggio su Leibniz (Leibniz e la verità) Vittorio Sainati affronta il problema da un duplice punto di vista: logico e per così dire esistenziale al tempo stesso. Questo doppio approccio alla questione della verità risponde al senso autentico della riflessione leibniziana, non ristretta soltanto sul versante logico e proposizionale delle teorie della verità, ma estesa fino ad abbracciare il senso ontologico e morale della comprensione umana della verità. Il sapere assoluto e il sapere prospettico si fondono nella teoria della monade come microcosmo: qui la verità è rispecchiamento della verità di ragione assommate nella nozione di Dio e, al tempo stesso, realizzazione delle verità di fatto nell'infinita varietà e fattualità del reale. Questa duplicità della verità, questo suo appartenere alla sfera divina e a quella della finitezza mondana rispecchia l'essenza dell'uomo, in cui libertà e dipendenza si integrano sul piano dell'armonia prestabilita. Dell'uomo (e della verità) nell'interpretazione leibniziana Sainati fornisce un'immagine suggestiva: «se l'uomo di Spinoza è chiamato a vivere panteisticamente in Dio, l'uomo di Leibniz vive (e pensa) soltanto in prossimità di Dio: né ricco né povero, e per questo sempre inquieto>; (p. 84). Il senso poi della costruzione della filosofia da parte dell'uomo viene analizzato da Remo Bodei sull'esempio di Hegel (Prospettive della verità. Sulla storia della filosofia in Hegel). In particolare viene ricercato il tenore di verità della filosofia e della storia nelle riflessioni hegeliane sulla storia della filosofia. Bodei e sottolinea come la verità inerisca alla dimensione dello sviluppo della filosofia: qui si esprime un eone.ettodi verità che abbraccia, come in Leibniz, le sfere dell'infinito e del finito, dell'assoluto e del relativo, ma invade anche totalmente il tempo storico in cui si afferma, senza esitazioni, fino a quando non diventa «insufficiente a rendere comprensibile ciò che viene dopo» (p. 141). È a questo punto che una nozione di verità si sostituisce a un'altra, perché «noi viviamo sempre nella verità, malgrado essa sia in itinere, in quanto quella verità che di volta in volta si presenta, quando è giunto il suo tempo, è la verità piena e completa per quell'epoca: in cui sorge, è il suo orizzonte di autocomprensione» (p. 139). Ricordo infine il saggio di Gerardo Cunico su Habermas (Errore e verità nel prospettivismo comunicativo di J. Habermas), in cui la teoria dell'agire comunicativo viene interpretata come garante della verità del discorso. Pur rilevando limiti nella formulazione della teoria della razionalità comunicativa, Cunico segnala come Habermas ponga un problema ineludibile per qualsiasi teoria della verità, e cioè il problema di una comunicazione intersoggettiva o universale che conservi il carattere di verità del discorso (oltre a quelli di veridicità, giustezza e comprensione). L'ipotesi habermasiana di una teoria discorsiva (o argomentativa) della verità viene analizzata in una rassegna che attraversa tutte le opere di Habermas, in uno studio che si presenta, anche per la sua ampiezza, come una monografia. Insieme agli altri saggi citati di cui si compone, il volume appare come un lavoro teoretico su un concetto (la verità) e il suo doppio (l'errore) dalle molteplici implicazioni nel panorama filosofico attuale, che vanno dall'ermeneutica alla teoria critica, dalla filosofia analitica all'epistemologia post-relativistica. AA.VV., Il problema dell'errore nelle concezioni pluriprospettivistiche della verità, a cura di A. Caracciolo, Genova, Il Melangolo, 1988, pag. 292, lire 30.000. Il grammofono e l'usignolo Paolo Vineis I I problema della verifica di efficacia è divenuto ormai centrale nella medicina clinica. Sono disponibili buoni testi di epidemiologia valutativa, vengono organizzati corsi di formazione per •il personale sanitario e vengono · stimati indicatori dell'accuratezza dei test diagnostici o degli esiti a lungo termine delle terapie. In questi casi l'oggetto di indagine è perlopiù ben definito, semplice e misurabile (pur con un grado variabile di precisione e riproducibilità). Esempi tipici di valutazione sono per esempio: la misura della concordanza tra radiologi nel porre diagnosi di cancro della mammella: la misura della frequenza di errori nel sospettare la presenza di Cfr • • ecens1om un tumore del collo dell'utero, applicando la metodica del Pap-test; la stima della sopravvivenza a çjnque anni dopo terapia per cancro polmonare. È evidente che in ciascuno di questi esempi la valutazione si basa su variabili relativamente semplici e oggettive (immagini radiologiche, letture citologiche, rilevazione dei decessi). La quantificazione, rispettivamente della concordanza diagnostica, degli errori di interpretazione e degli esiti della terapia, è resa possibile in larga parte dall'esistenza di protocolli operativi in base ai quali il diagnosta o l'epidemiologo standardizzano il loro lavoro. Che venga avvertita l'esigenza di una verifica empirica anche in Fernando Grillo campi lontani dalla pratica più strettamente scientifica (intesa nel senso delle scienze naturali) sembra piuttosto ovvio. Sapere se la psicanalisi «serve» non è irrilevante, sia per il paziente - e per le sue finanze -, sia per l'analista - essendo la verifica di efficacia una prova parziale della bontà dei presupposti teorici - , sia per chi si ponga il problema dei rapporti tra diversi paradigmi della conoscenza scientifica. Meno ovvio è invece il modo in cui tale verifica possa attuarsi. Proprio il caso della psicanalisi è emblematico della frattura tra scienze dell'uomo e scienze della natura, tra comprensione (circolo ermeneutico) e spiegazione (ragionamento nomologico-deduttivo o induttivo). È d'altra parte ben noto - e non merita qui richiamarlo nei dettagli - il fatto che tale dicotomia si è rivelata, grazie al lavoro di filosofi come Kuhn e Rorty, artificiosa e semplicistica. Né le scienze naturali sono interamente ricostruibili in senso nomologico-deduttivo (o induttivo), né le scienze umane sono interamente estranee a concetti come la riproducibilità delle osservazioni, la formulazione di leggi probabilistiche, la predizione e pertanto la verifica empirica. È dunque di grande utilità ogni ponte gettato' tra i due versanti, ogni esplorazione delle simmetrie e disimmetrie reciproche. I saggi contenuti nel volume curato da Conte e Dazzi si pongono nella prospettiva di chiarire quanto sia ancora sostenibile il modello «ricostruttivo-archeologico» caro a Freud (in cui analista e analiz- • zando costruiscono insieme una verità «narrativa»), e quando sia plausibile invece - anche nella psicanalisi - un primato dell' Erkliiren {lo spiegare) sul Verstehen (il comprendere). Alcuni di tali saggi sono così radicali nello sviluppare l'assunto iniziale da chiedersi che cosa ancora abbiano in comune i loro autori con la psicanalisi freudiana. Holt, per esempio, sostiene tra l'altro: che è impossibile testare proposizioni relative a concettichiave della metapsicologia freudiana; che è impossibile misurare alcuna entità fisica inerente ad essi; che Freud faceva un uso eccessivo di metafore e altre figÙre retoriche basate sulla contraddizione; e che se fossero riconosciute come metafore perderebbero il loro presunto valore esplicativo. L'origine di tutto questo sta, secondo Holt, nel fatto che la teoria freudiana ha le sue radici almeno in parte nell'esegesi biblica anziché in discipline scientifiche. Per quanto alcune delle analisi e dei suggerimenti di Holt siano interessanti, risulta piuttosto difficile capire in che misura ciò che propone sia ancora la psicanalisi freudiana e non sia invece qualche forma di psicologia sperimentale. Inoltre - e questo mi sembra più importante - il programma di Holt è di tipo «fisicalista» (mirando a misurare qualche entità fisica inerente a concetti-chiave della metapsicologia freudiana), deriva cioè da una filosofia decisamente superata. In quanto al ruolo delle metafore, esso è stato ampiamente messo in evidenza (da M. Hesse, Holton, Kuhn, Rorty) anche all'interno delle discipline scientifiche più forti; non si vede pertanto perché non dovrebbe valere - a fortiori - nella psicanalisi. Il saggio di Griinbaum sulla valutazione clinica della psicoanalisi non è meno radicale, anche se sul piano argomentativo è più convincente. L'idea centrale è che il fondamento teorico della teoria psicanalitica veniva da Freud cercato all'interno dell'esperienza clinica; essendo però il colloquio con !'analizzando fortemente condizionato dal punto di vista dell'analista, l'esperienza clinica non costituisce una prova indipendente della teoria. In altre parole, il suo valore probativo è messo in discussione dal fatto che essa è contaminata dagli assunti teorici a priori. Di questo pericolo era consapevole lo stesso Freud, quando sosteneva: «Esiste il pericolo che influenzare il paziente renda dubbia la sicurezza obiettiva delle nostre scoperte. Ciò che va a vantaggio della terapia, andrebbe a scapito dell'indagine (cioè a scapito della validazione clinica della teoria generale della personalità)» (Introduzione alla psicanalisi). Perdipiù, come sottolinea Griinbaum, Freud era restio ad attribuire i fallimenti terapeutici alla scorrettezza delle interpretazioni e ne incolpava invece le resistenze del papagina 23 ziente. Siamo dunque di fronte a un caso classico di «contaminazione» delle prove? Sembra effettivamente che il rapporto tra la teoria e i suoi supporti fattuali (o indiziari) sia circolare: non solo l'analista influenza il paziente nel presentare il suo resoconto dei fatti, usando poi le informazioni così raccolt~ per corroborare la teoria, ma in caso di insuccesso esplicativo-terapeutico della teoria dà la colpa al paziente vanificando ogni possibilità di falsificazione. In realtà questa interpretazione è certamente semplicistica, per esempio perché Freud sosteneva che una rapida guarigione può, abbreviando il trattamento, minacciare lo studio scientifico del caso. Egli era cioè chiaramente consapevole del ruolo euristico dell'insuccesso, dell'importanza epistemologica dello scacco. Ma Griinbaum muove un'altra critica non da poco alla derivazione di una teoria dall'osservazione clinica freudiana: se è vero che la metapsicologia trae conferma dal successo terapeutico, non si può non tener conto del fatto- che, apparentemente, diverse forme di terapia psicologica si rivelano efficaci, pur avendo basi teoriche completamente diverse. In sostanza il successo terapeutico è aspecifico, «confermando» teorie tra loro antitetiche: «... se il presunto esito terapeutico positivo dell'analisi è realmente placebogenico, allora questo successo curativo è probatoriamente inservibile a sostegno dell'edificio teorico di Freud» (p. 102). Ne consegue la proposta, da parte di Griinbaum, di organizzare studi longitudinali controllati (non diversi, mi pare, da quelli utilizzati per esempio per valutare l'efficacia di un farmaco), in cui tutte le tecniche di osservazione vengano opportunamente standardizzate. Griinbaum insiste sul fatto che - al di là delle interferenze da parte dell'analista - gli stessi resoconti introspettivi ricavati dalla autosservazione sono fortemente inaccurati e inservibili allo scopo, si noti bene, di trarre inferenze causali: «le affermazioni relative ai nessi causali fra stati mentali non sono meno fallibili delle analoghe affermazioni riguardanti gli stati fisici» (p. 120). È sorprendente qui che non solo Griinbaum faccia riferimento al mondo fisico (rivelando un fisicalismo latente) ma anche parli di riconoscimento di nessi causali. L'idea di base è che il colloquio analitico serve a ricostruire nessi causali esattamente come nelle scienze fisiche, idea non solo pre-wittgensteiniana, ma anche difficilmente accordabile, mi sembra, con i fondamenti teorici freudiani. I rischi di un atteggiamento positivista verso la valutazione della psicanalisi sono esemplificati da un altro saggio del volume, quello di Dahl. Il suo obiettivo è «la misurazione del significato in psicoanalisi attraverso l'analisi al calcolatore di contesti verbali». Senza voler immediatamente e interamente rigettare questa soluzione, pare tuttavia che non solo siamo ormai lontani anni-luce dalla psicanalisi' eome sviluppata nei primi

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