Alfabeta - anno X - n. 114 - dicembre 1988

Alfa beta 114 cana disciplina" dove "fiorisce il linguaggio del destino". Con Viviani ci troviamo nel medesimo ambito di oscillazione ermeneutica, di spazio linguistico ma anche ontologico dove l'evento, nel senso in cui Heidegger designa con Ereignis ciò che è più proprio (eigen), rivela e al tempo stesso nasconde l'essenza medesima della lingua. Dunque la forma che il pensiero assume nella riflessione di Viviani non è casuale, genericamente oscura o attribuibile a un parlare "en poète" particolarmente resistente all'interpretazione; in realtà Viviani rinuncia coscientemente all'agire violento del pensiero concettuale, si abbandona all'eventualità del senso, della verità, compie un atto di fede in cui non guasterebbe trovare un'affinità con la preghiera, per esempio quella contemplativa che Hurs von Balthasar delinea come un abIl convitato di ferro Giovanni Bottiroli S i è svolta a Torino, dal 6 novembre al 20 dicembre 1987, la prima fase di una mostra itinerante che nei prossimi mesi toccherà altre città italiane (Brescia e Ferrara) e San Marino: dedicata all'armatura, tale mostra ha la singolarità di fondarsi esclusivamente su materiale fotografico. Il risultato è di grande fascino, e induce a riflettere sulla validità dei motivi che l'hanno ispirata. A Dario Lanzardo e a Gianluca Trivero, che ne sono gli ideatori, non è probabilmente sfuggito il contrasto tra la presenza greve, narcotizzata, delle armature nei musei e la loro insonne carica simbolica nell'immaginario collettivo: la fotografia si vede così affidato il compito di cancellare quel divario, e di spingere l'oggetto sull'orlo vertiginoso della rappresentazione. Il visitatore di un museo scorge prevalentemente la funzione - cioè l'armatura come involucro di difesa; ma anche quando si lascia sopraffare dalle connotazioni barbariche, oppure quando ne apprezza il valore estetico, le superfice lucenti e impassibili, l'eleganza geometrica o le decorazioni nervose, è lonuuiìt" dall'avere esaurito la "profondità dell'apparenza". L'armatura non è soltanto un oggetto bello, è soprattutto un oggetto fantasmatico. Tra le coppie di attributi che meglio potrebbero alludere alla sua essenza duplice e irraggiungibile, ci limitiamo a segnalare il terrificante/fragile, l'articolato/liscio, la presenza/assenza. Per quanto riguarda la bandonarsi alla parola, o con le forme del discorso mistico in cui dono e perdono, raccoglimento e ringraziamento prevalgono sulla volontà di dominio del soggettivismo gnoseologico. Del resto il pensato, in questo bel libro di Viviani, non si lascerebbe condurre a forza dalla profondità alla superficie, dall'oscurità alla luce perché esso, nella sua arcana presenza, è già evidente, oscuramente visibile e luminoso. Infatti la "veste" attorno alla quale si esercitano i pensieri in questione non è un vestito che occorra strappare, casomai con la violenza tipica delle oggettivazioni razioidi, per avere di fronte un significato che se ne stava nascosto; nessun rivestimento che occulti qualcosa, che nasconda nel senso usuale del termine, piuttosto una "veste" che in quanto tale mostra, rivela, fa velo e protegge la profondità e il segreto nel e prima, basti pensare che il guerriero avvolto di ferro incuteva terrore ma era altresì rigido, vulnerabile, inerme (si ricordino i teutoni del Nevskij, i quali vengono affogati dal loro stesso peso nelle acque gelide). Quanto alla complicità dell'articolato e del liscio, il riferimento più suggestivo è probabilmente quello dei morbidi corpi femminili dentro l'armatura, secondo una tradizione che comprende Virgilio e Ariosto, Tasso e Calvino: «Gli spazi lisci dell'armatura divengono la continuazione delle levigate forme muliebri ma, ribaltando il senso di lettura, le articolazioni puntute, taglienti, le scaglie d'acciaio ne mostrano anche la severa lontananza» (Trivero). Infine, troviamo la duplicità più fascinosa, quella della presenza e dell'assenza. Da un lato, il guerriero è l'armatura, vale a dire che il suo corpo tende a confondersi con il suo involucro di ferro, annullandosi in esso (il motivo è ricorrente nelle leggende popolari); dall'altro - e coerentemente con questo processo - l'armatura è il cavaliere, al punto da rendere inadeguata e superflua la presenza di quest'ultimo. Così in Calvino il cavaliere perfetto e incorruttibile può essere solo inesistente. La seduzione permanente esercitata del guerriero catafratto sulla nostra immaginazione deriva dunque non dalle funzioni sociali, ma da quelle estetiche e fantasmatiche. L'armatura è una metafora confusiva, come si è appena detto: essa non simboleggia semplicemente i valori del coraggio, della fedeltà e del sacrificio, con i suoi «doppi» parodici (la malvagità, il tradimento, la disumanità). Come Cfr loro manifestarsi. Non si può non pensare al pudore, alla dialettica di prossimità e distanza che salvaguardia il segreto affinché si renda visibile senza tuttavia dissiparsi nella trasparenza oggettiva, dunque preservandolo come tale e mantenendolo nella riservatezza e nel ritiro che gli appartengono. Percorrendo le sei parti di cui si compone questo prezioso breviario della riflessione intesa alla lettera come ripiegamento, c_Qme piega che protegge il senso e gli consente di rivelarsi senza smarrire quanto possiede di arcano e di originario, si ha l'impressione che la "veste" sovverta il consueto rapporto tra profondità e superficie, tra noto e ignoto, che un pensiero segreto (quello, in ultima analisi, poetante) reclami e ottenga uno statuto epistemologico che nulla deve invidiare alle forme del discorso preteso oggettivo. "L'ignoto - scrive Viviani - è dove si è stati e si conosce ogni più piccola cosa"; il mistero, il non oggettivabile, dunque il poetico è un luogo del pensare e del linguaggio che fonda il sapere autentico, certo non comunicabile e trasmissibile dal senso comune eppure comune a tutti: "La parola della poesia è quella comune a tutti che non si lascia pronunciare". Questa indicibilità, lungi dall'essere un limite, è anche il fondamento dell'etica, di una parola che si appella all'altro nella distanza segreta dove l'altro può approssimarsi conservando la sua alterità. La poetica della veste delinea un discorso dove il linguaggio diviene, per dirlo con Lévinas, "rivelazione dell'Altro", relazione della parola con una differenza accolta e salvaguardata nella sua alterità, presenza straordinaria e irriducibile che si lascia vedere pur constre tutte le metafore vive, cioè non associabili a sensi stereotipati, l'armatura è l'incomprensibile teoria di se stessa, cioè dice qualcosa sulla natura del processo metaforico. O, se si vuole, l'armatura è un oggetto di linguaggio che dice qualcosa su alcune (possibili, sperimentabili) proprietà del linguaggio: maestoso, friabile, articolato, continuo, incontrollabile. Il visitatore della mostra - o chi ne esaminerà lo splendido catalogo - non potrà dunque incontrare l'oggetto-armatura al di fuori della mediazione linguistica costituita dalle fotografie: l'oggetto è rigorosamente un manque, un'assenza che genera rappresentazioni. Sta allo spettatore abbandonarsi al potere delle singole immagini o considerarne le virtuali organizzazioni narrative, in qualche modo facilitate dalle quattro sezioni: Il cavaliere armato presenta immagini grandi, frontali, divine e diaboliche al tempo stesso; Lo stile e la moda riporta lo spettatore a una considerazione più distaccata, storicizzata e precisa; L'occultamento e la maschera si rivolge a ciò che l'armatura ha di più perturbante: l'elmo, cioè la copertura del volto in base a una modalità naturalistica (mostruosa, crudele, ghignante) oppure antinaturalistica (astratta, geometrica, intervallata da fessure e da fori); Il personaggio e la spoglia presenta le armature come entità autonome, slegate dalla struttura di un racconto: questi «ritratti» costituiscono una sorta di galleria in cui i valori della pura rappresentazione vengono portati al massimo grado. Si è già lodata la qualità del catalogo: le fotografie di Lanzardo ... _ ... ,. ' . " .. sono accompagnate da una serie di interventi assai validi che riguardano la storia come la moda, la decorazione, l'arte, la letteratura e il cinema. Ne sono autori Dorfles, Bordone, Lanzardo, Dondi, Omodeo, Bertolotto, Poli, Bertetto, Trivero. Il convitato di ferro Torino, Palazzo Reale 6 novembre - 20 dicembre 1987 Catalogo a cura di Dario Lanzardo. Testi di G. Dorfles, R. Bordone, D. Lanzardo, G. Dondi, A. Omodeo, C. Bertolotto, F. Poli, P. Bertetto, G. Trivero Il Quadrante Edizioni, Torino 1987. Le «Metamorfosi» di Dorfles Mirella Bentivoglio A llestita prima alla Torre del Lebbroso di Aosta e, in seguito, a Morgex, la mostra personale di Gillo Dorfles ha offerto non poche sorprese, data la riservatezza del critico nel suo ruolo parallelo e quasi clandestino di artista. Dorfles pittore era noto nella sua qualità di protagonista storico del MAC, il movimento italiano d'arte concreta che, per ripetere una dichiarazione formulata nel '51 dallo stesso Dorfles, «non cercava di creare delle opere d'arte togliendo lo spunto e il pretesto dal mondo esterno e astraendone una successiva immagine pittorica, ma andava alla ricerca di forme pure, primordiali, da porre alla base del dipinto». Parole che trovano piena rispondenza in tutta l'estesa panopagina 21 servando la sua incognita. Tenendo presente la distinzione che lo stesso Lévinas pone tra fenomeno ed enigma non è azzardato affermare che quest'ultimo appare, al di là del consueto dualismo di soggetto e oggetto, il vero protagonista di questo discorso che si è tentati di definire, con una formula provvisoria e tuttavia indicativa, come un'ontologia del segreto che ha la stessa cadenza delicata e profonda dell'amore, la stessa modalità di mostrarsi tenendosi in qualche modo nascosto. Forse è per questo che Viviani scrive: "E se l'amore è un segreto, perché rivelarlo?". Cesare Viviani Pensieri per una poetica della veste Crocetti, Milano 1988 ramica (mezzo secolo di operatività) delle due mostre valdostane: ricerca come esplorazione assidua di un mondo iconico interiore. In giovinezza Dorfles seguì i corsi del Goetheanum, libera università di antroposofia fondata da Steiner nella Svizzera tedesca. Goethe fu un antroposofo ante litteram, se non altro per i suoi studi sugli archetipi delle piante; e Stei- · ner lavorò per sei anni alla biografia del poeta tedesco al quale avrebbe dedicato il suo centro di studi. Ebbene da un'attenta lettura delle due mostre antologiche si deduce quanto l'esperienza svizzera abbia influenzato e, in un certo senso, orientato la pittura di Dorfles. L'ipotesi antroposofica nega l'esistenza di «oggetti» situati in definibili contesti spaziali. Non ammette confini delimitanti un'iden- • tità materiale dell'oggetto: una marea di forze concentriche dà un graduale contorno alla forma che il nostro occhio percepisce come singola. In conseguenza, non esiste la linea retta ma il tracciato, il ritmato respiro delle cose di cui la forma è la coagulazione sensibile. Ed ecco che molte, tra le opere di Dorfles del primo periodo, riflettono una simile concezione, come l'eterea «Croce lunare» del '35, il «Paesaggio iperboreo» dello stesso anno, e l'iridescente «Entità verde» del '38 («cosmiche risonanze», scrive Caramel nell'introduzione critica). Ritroveremo questa sensibilità medianica dello spazio vivente nel «Blau-Griin-Violet Syndrome» del '52, dove protagonista non è più la forma continuamente nascente, ma la continuità avvolgente di un'atmosfera alona-

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