Alfabeta - anno X - n. 114 - dicembre 1988

.i rarsi poi appena un tanto al di là di Furyo; nell'universo (ancor più e stereotipatamente di rappresentazione) delle rockstars; così, il videoclip bowiano Little China Giri ( China categoria esoticamente omologabile a Japan) ci presentava, all'altezza circa di quel film, un semi-avverato amplesso, fr:a il Bowie (l'ufficiale inglese di Furyo) e una leggiadra orientalina, tra flutti crespi e ulteriori scenari esotizzati, sull'onda di ammiccanti marimbe, vocalizzi, esoticissime melodie; mentre Sakamoto (l'altro ufficiale, quello nipponico), nel video di Forbidden Colours, accessoriato da samurai scompariva all'incombere del suo doppio occidentale, David Sylvian (ancora in quegli anni doppio a sua volta, nell'immaginario new wave, dello stesso David Bowie). Così, la forte sequenza del bacio, di Bowie e Sakamoto, in Furyo, adduce a compimento, per quell'unica brevissima intensa volta, quell'adesione di alterità, così inserita fra le scie di una spettacolarizzazione rock e video-rock, industriai culturalmente sovra/determinata. In realtà, quell'ineffabile congiungimento, affatto inadempibile (se non in quella esemplare, spettacolarissima messa in situazione), è precisamente, secondo il classico schema esotico-etnologico, l'assimilazione (seppure mutua) degli alieni: d'aliud in aliud, dall' «incompréhensibilité» alla differenza fusiva; donde la reduplicazione peccaminosa. Reduplicazione di un corpo nell'altro, soprattutto se di un corpo rock in un altro corpo rock; reduplicazione, soprattutto, di «occidentale» in «orientale», e di «orientale» in «occidentale», perché la suddivisibilità non produca che amalgama (con Affergan, differenza). È proprio questa critica reduplicazione a ricondurci all'istanza del desiderio esotico: e più precisamente, alla sua mutuazione nell'odierno. Ci si è già chiarito quanto esotismo abbia da sempre detto dell'articolarsi di un culto della differenza complementarmente al perseguimento di una omogeneità, di un riassorbimento al limite esorcistico dell'Altro: e le declinazioni le più squisite della differenza esotica sempre hanno traversato, spesso per modi ingenuamente «snob», gli ingranaggi, sempre hanno alimentato i miti, della cultura di massa - la quale sempre si è fatta forte di questo apparato differenziante, per certificare, nella pratica della differenza, la pr~- pria massificazione trionfante. Gli anni Sessanta-Settanta segnarono una mimetizzazione subdola e profonda di questo desiderio: il mito dell'oriente indiano valse come uno slabbramento dello schema esotico classico, una devoluzione all'Altro, fortemente eticizzata, e pur sempre determinata nella tensione al voyage: il cui termine utoI pacchetti di Alfabeta ... ')..! ' ' :O-~!:O. ' ' Juan Hidalgo pico ultimativo si ravvisava nell'azzeramento del sistema di riferimento (quello detto occidentale), ottenibile a patto di una resa incondizionata e acritica e al limite acoscenziale (al sistema etico di quell'altrove); donde, soprattutto, la nozione di trip. La pulsione all'omogeneo-differente si sarebbe comunque reinsinuata, importando, sui modi della cultura giovanile, quei modelli in scala allargata ed estesamente massificata - dall'artigianato stile cadeau, all'abbigliamento femminile, alla cura del corpo (la medicina alternativa, le alimentazioni alternative, ecc.) - per una riorganizzazione utopistica del domestico; d'altro canto, nella varietà del trip, il mito del voyage poteva riproporsi in quanto straziato sentimento di Oriente. - This is the End: «la fine della strada»: da Jim Morrison ad Alan Sorrenti. Sotto nuove ulteriori luci, a Franco Battiato. Una volta consumato, cioè eluso, il modello di una nuova moralità, alternativa sino all'extra-coscienzale, ossia di una morale anti-morale (anti- occidentale), il desiderio esotico amorale al fondo, er definizione) potrà esaudirsi proprio nella chiusa, asfittica dialettica di una differenza omogeneizzata - di una omogeneità differenziata: perché la varietà suprema dell'Esotico non potrà essere se non la infinita reduplicazione di una forma nell'altra, in favore, proprio, di un azzeramento relativo delle forme: di una loro fagogitazione stilizzata, nelle sorti progressive delle mode. Esclusa alla piena alterità, la differenza può risiedere senza traumi nella omogeneizzazione (delle culture, dei conflitti): secondo quel preciso processo a cui abbiamo assisitito in questi anni, quello della riduzione delle alterità, del processo storico, ad un sistema differerenziato e differenziante di rappresentazione, detto il sistema dei looks - tutti compresenti sull'unico piano di fagogitazione che segna il trionfale declino della dialettica. Il Giapponese occidentalizzato può costituire così la coscienza deviantemente occidentale (perché poi Tokyo, non lo dimentichiamo, è ad ovest di Los Angeles, secondo la magnifica intuizione di Colombo) dell'Occidente: captante perché irriducibile, nonostante. Non è precisamente questo il Giappone che lo sguardo di Barthes ipnoticamente decomponeva, a cui si decomponeva (una ventina d'anni fa, all'incirca); perché ci appare adesso darsi come tutto travestito in un'amplificazione di Occidente, corrompendoci gli stessi nostri riferimenti e referenti, straniandoceli - col pregio esclusivissimo di restare ad essi inappartenente, chiuso nel suo «arcaico»: per Masao Maruyama, la modernità giapponese è data dalla sopravvivenza di un carattere inverosimilmente «pre-moderno» nel- !' «ahurrissante floraison de la 'modernité'» (A. Mizubayashi): ed è forse questa disciplina tecnologica che è baluginata per qualche istante negli occhi del Wenders di Tokyo Ga, e assai meglio nelle visioni del Chris Marker di Sol Solei/; che viene implicitamente demonizzata nel reazionarismo trascendentale del Mishima di Shrader. Vedo Sony, cammino Honda, sento Panasonic ... ecco il nostro stesso sistema sensoriale mediato, sub specie iperrealistica, dall'estremizzazione al limite straniante del la- ';Oro dell'industria cultura1e. Non ci propone forse, l'abolizione di tempo/distanza/persona, elaborata dalla tecnologia giapponese, una estrema «condensation de signes et d'images», sino al «ravissement», al fuori-del-mondo (M. Guillaume)? Se il Giappone si occidentalizza, l'Occidente è tutto giapponesizzato: l'ineffabile congiungimento consumandosi tutto nell'universo della produzione di massa - secondo quanto testimoniava splendidamente Ridley Scott in Biade Runner, ove un sorriso ambiguo di giapponesina campeggiava in insegna intermittente, su quella città futura (una Los Angeles possibile) priva di qualsiasi identità culturale, appunto perché co.mposta di tutte le identità, di tutte le razze possibili ma soprattutto di quelle inventate od imitate, che è la città, ormai, della replicazione: della simulazione, nel postmodernismo «sixties», acido-tragico, di un Robert Ashley Philip K. Dick. L'arte marziale-amatoriale del karaoke, d'importazione giapponese, disciplina del playback in discoteca su inci- • sioni rigorosamente altrui e di successo, ove la perfezione simulativa, straniante, può scatenare entusiastiche ovazioni, illustra quasi en abyme questo stato di oscillazione dell'identità post o iper-esotica. Così, se il coltissimo sound dei Japan riproduceva rarefazioni di concreto desiderio esotico, in un'appropriazione ai limiti del filologico e pure decisamente eurocentrica: in un mimetismo critico e straniato, un orientalismo, se volete, decentrato; allo stesso modo e inversamente, il Sakamoto pop, su di una base plurivocamente estremorientale, innesterà echi di tecno-pop occidentalizzato, di scansioni new-wave: conseguendo così una seduzione duplice, del pubblico giapponese che vede nel suo sound tradotte (simulate) le proprie proiezioni occidentalistiche, e del pubblico occidentale che lo fruisce come riverbalizzazione all'odierno, ossia simulazionè, di tutto ciò che ha sempre proiettato come desiderio di Oriente, come giapponefilia (e poco importa poi che queste giapponeserie siano in gran parte echi, a propria volta, di tradizioni coreane, come confessò Sakamoto alla Repubblica, qualche annetto fa). È quanto accade, d'altronde, nella colonna sonora dell'Ultimo Imperatore: se Sakamoto vi opera una intellettualizzazione di motivi estremorientali, rovesciandoli in un vago ravelismo e cioè in un singolare Japonisme invertito (il Japonisme - occidentalistico - di un giapponese ... ), Byrne, alla maniera del Brautigan japanese di SÒmbrero Fallout (del '76), stilizza una sorta di alieno orientalismo western, tra marcette esotiche e brechtismi, rarefazioni del no- . where. Così infine in una Lauri e Anderson dell'84, Kokoku («ushano kokoku», in giapponese, è Home of the Brave): gli echeggiamenti japonesques verranno ivi assimilati ad un continuo vago e iterativo, «deliziosamente protetti» entro «l'agglomerato frusciante d'una lingua sconosciuta» (Barthes): la quale è poi essenza d'Occidente decantata, pura, ormai estranea a sé. «And on a very distant star, slimy creatures scan the skies. ( ... ) And they say: Look! Down here! A haunted planet spinning 'round». È in questi ultimi due testi che, in un atto finale di spoliazione, il desiderio esotico sa abdicare a se stesso, svuotarsi di se stesso: perché la suddivisibilità (già musicale, già linguistica) finalmente vi appare l'esssenza antinomica di un contraddittorio amalgama, fino all'auto-esautorazione: proprio mentre l'«incompréhensibilité étemelle» si trascende, rilanciata negli spazi. «And we say: [... ] We're so nice». Chicchi di ri~o.• • •• o : ·.. , . dA . •I!'\ " • __ç,

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==