Alfabeta - anno X - n. 114 - dicembre 1988

pagina 12 I pacchetti di Alfabeta Alfabeta 114 Tra l'Islam e l'Occidente Rermann Resse Racconti indiani trad. Eva Banchelli Milano, SugarCo, 1984 pp. 128, lire 6.500 Rèné Guénon Studi sull'induismo trad. Antonino Anzaldi Roma, Basaia editore, 1983 pp. 134, lire 10.000 Slimane Zeghidour , La poésie arabe moderne entre l'Islam et l'Occident Paris, Éditions Karthala, 1982 pp. 368, F. 75 Divano Occidentale a cura di Gianroberto Scarcia Bologna, il cavaliere azzurro, 1986 pp. 200, lire 25.000. N el 1819 Goethe pubblicava le liriche del Divano occidentale-orientale, di contenuto erotico, gnomico, cosmico e mistico, frutto di un prolungato studio della poesia orientale, specialmente persiana, col dichiarato intento di impastare l' «argilla» dei Greci con l' «acqua dell'Eufrate». Diwàn è vocabolo arabo che sta appunto per raccolta di poesie. E Rer- •• ,•~ ,.. . ...... , . . . . , • • ••• .... . , . • . . . . , ··-· • • : . ~ ... • • • , •'·•. • •• ••• • • • • • •,: : .. • • • . . , . • • • ,, .,. ~. • • .,, • mano Resse scriverà nel 1914 sul giornale berlinese «Der Tag», nell'articolo Capolavori delle letterature orientali: «Al pensiero· indiano la Germania era stata preparata da Schopenhauer; [... ] mentre andava scemando il richiamo verso la letteratura islamica: eccetto l'improvvisa moda, di derivazione inglese, per 'Omar Khayyam, negli ultimi dieci, addirittura vent'anni, nessun poeta mediorientale ha infatti trovato molti lettori nel nostro paese. Ma anche questa situazione è destinata a cambiare a mano a mano che ci accorgeremo di come la comprensione politica dei popoli asiatici debba fondarsi sulla conoscenza delle loro tendenze filosofiche e letterarie». Inoltre, a proposito della traduzione in tedesco del Poema spirituale di Jalal al-Dio Rumi, apparsa nel 1849: «Attraverso il Mesnevi, che, scritto nel XII secolo, appartiene ai capolavori della poesia classica persiana, veniamo a conoscere una manifestazione assai significativa della spiritualità mistica del sufismo. Affine allo spirito indiano e da esso influenzata, ma più vicina, al nostro per le comuni fonti filosofiche greche e bibliche, questa dottrina persiano-islamica cerca di pervenire alla salvezza attraverso la mediazione pura, ponendosi come fine una sorta di nirvana, un 'morire prima della morte', un radioso dissolversi nella causa Pino Blasone prima delle cose, in cui la colpa e il tormento del divenire sono superati». 1 Se qui Resse riecheggia quasi letteralmente l'analisi di Nietzsche dell'«ideale ascetico» nella Genealogia della morale, d'altro canto è evidente l'allusione alla dottrina gnostica della wahdat al-wujùd (in arabo «unità dell'essere», monismo) e del tawhìd, termine usato dai teologi musulmani per indicare l'unicità di Dio, ma dai mistici ad esprimere l'assorbimento dell'io nell'unità dell'universo. È intuibile altresì come egli li accosti mentalmente, sviluppando un'intuizione di Schopenhauer, ai concetti vedantici induisti di advaita (in sanscrito «non-dualismo»), di yoga e di sayujya ( «unione» ascettica, «identificazione» con l'assoluto), o a quello in particolare buddhistico di nirvana (cfr. l'equivalente arabo fanà: «estinzione» dell'io individuale). In base a considerazioni analoghe, un altro indianista e pensatore «tradizionalista», il franco-egiziano René Guénon, aveva finito nel 1912 per abbracciare eccentricamente l'islamismo. Nel suo scritto su La metafisica orientale,2 nella scia dei grandi mistici e criticando la «pseudo-metafisica» della filosofia occidentale, egli insiste sull'uomo in quanto «stato» - sia pure privilegiato - dell'essere, e sull'ontologia e la fenomenologia in quanto facce distinte della stessa medaglia, di cui il primo termine conferisce però realtà al secondo. In effetti, la radice verbale araba WJD sta a significare esistenza piuttosto che essenza, significato questo espresso dalla radice KWN, per cui sarebbe più corretto tradurre la wahdat al-wujùd come «unità dell'esserci», volendosi indicare che tutti i fenomeni esistenti - ivi compreso l'uomo - sono emanati e quindi riconducibili a un'unica superiore realtà (la radice WRD, comune anche a tawhìd, esprime chiaramente l'idea di unità; lo sforzo del sufi consisteva appunto nel cercare di evadere dai limiti del wujùd per risalire, o «annullarsi» nel tawhìd). Perciò lo studioso iraniano Seyyed Rossein Nasr, polemico peraltro con l'evoluzionismo a sfondo religioso di ..T. eilhard de Chardin, accortamente, dal suo punto di vista, adotta nelle lingue europee la traduzione estensiva «unità trascendente dell'Essere». Ma già nell'evoluzionismo ante litteram del sufi persiano 'Aziz al-Dio Nasafi (XIII secolo), nella sua Discesa degli spiriti, l'intera natura era interpretata in graduale ascesi gnostica, in cui .l'uomo occupava lo stadio più avanzato: «Percorrere la via non è cosa esclusivamente umana. Tutte le specie del mondo esistente stanno compiendo un viaggio per raggiungere la loro meta e fine [... ] e anche l'uomo sta compiendo il suo viaggio. [... ] Il motivo che induce tutte queste persone a compiere il loro viaggio è l'amore». 3 Qui risalta una differenza con la concezione induista e specialmente buddhista, cara a Schopenhauer, laddove il kama («desiderio» o amore, distinto dall'aspirazione alla «liberazione»: moksa), anziché veicolo di realizzazione universale, è ciò che va dominato e soppresso affinché, sospesa la rappresentazione fenomenica del mondo (maya), ci si sottragga al flusso delle esistenze (samsara), destandosi dall'«ignoranza» alla coscienza estatica dell'essere: da una condizione di avidya a quella di samadhi. Comunque, ancora nel 1874 un «fondamentalista» islamico come l'egiziano Muhammad 'Abduh, nel saggio giovanile Waridàt, non faceva che ripetere sostanzialmente le tesi sulla wahdat al-wujùd esposte in La nicchia delle luci dal persiano al-Ghazzali nell'XI secolo, ovvero il neoplatonismo avicennizzante del grande poeta mistico andaluso lbn 'Arabi. La scena di quest'ultimo che assiste nel 1198 al funerale del «peripatetico» Averroé/Ibn Rushd, incompreso e perseguitato in patria, è emblematica non solo del declino di un,-epoca e di un travaso di culture, ma della civiltà islamica originale mediatrice fra Oriente e Occidente (e fra antichità e modernità) nel periodo di massima fioritura. In effetti, con la sua rigorosa unificazione dell'intelletto aristotelico e il conseguente «monopsichi9W..'M/lt• • r-•' •• ,,.....,, ~ • •• .~ .. , ...... _. - smo», Averroé compì nel campo della filosofia un percorso analogo e complementare a quello del sufismo monistico più o meno eterodosso. Sarà il filosofo libanese di estrazione cristiana e formazione occidentalizzante Shibli Shumayyil (1850-1917), con conversione tutta moderna e laicistica, ad adattare il termine tawhìd all'unità della natura nel suo divenire, operazione che giustamente il criticò letterario libanese Miche! Rayek definisce «immanentismo». In un mio articolo su Gibràn4 ho cercato di mostrare come l'immanentismo naturalistico, erede di quello panteistico, permei la corrente più significativa della poesia araba colta contemporanea, a partire da Jibran Khalil Jibran. Si legge in effetti nel basilare saggio-antologia La poésie arabe moderne entre l'Islam et l'Occident dell'algerino Siimane Zeghidour: «Fino al XX secolo, la letteratura araba si è espressa principalmente attraverso la poesia. È dunque importante conoscerne la la storia per comprendere l'evoluzione del pensiero arabo». Non sorprende pertanto che una delle forme in cui riaffiora oggi il pensiero arabo sia la critica letteraria, magari applicata alle letterature occidentali, come nei casi del palestinese Edward W. Sa'id o dell'oriundo egiziano Ihab Rassan, uno dei padri del post modernismo negli USA. Questi coniuga l'immanentismo con il suo neognosticismo, attendibilmente tributario dell' «esistenzialismo gnostico» del filosofo egiziano 'Adb al-Rahman Badawi, a sua volta influenzato da Sartre e da Reidegger. Del resto, già Jibran trapiantava con successo la sua opera nella lingua inglese e nel terreno della letteratura angloamericana, fecondato dal «trascendentalismo» ottocentesco emersoniano, non esente esso stesso da. tendenze panteistiche ed influssi orientali. Tornando tuttavia alla poesia in lingua araba, presto una nuova moderna forma di dualismo - tra coscienza e inconscio-sosti- - tuirà quella tradizionale fra trascendenza e immanenza, lacerando l'unità ritrovata dell'intera natura. Il libanese Khalil S. Rawi, uno dei maggiori successori di Jibran, destinato al suicidio, così conclude il poemetto «Il marinaio e il derviscio», influenzato da Coleridge e da T.S.Eliot: «Lasciami, che io prosegua/ il cammino nell'inconscio! I .. . I Ormai quei porti lontani / non mi traggono in inganno./ Lasciami al mare, al vento, / e alla morte, che sciorina I sudari azzurri per l'annegato: / un marinaio, ai cui occhi / è spenta la luce dei fari». Nel componimento «In noi morte e bellezza», della raccolta Ritorno dalla fonte del sogno della palestinese Salma al-Khadra al-Jayyusi, ecco allora l' «unità dell'esserci» mutarsi in accorata «nostalgia dell'essere»: «Quando la morte chiamerà / come io dirò al mio cuore - Vieni!-, / come lo sedurrò attraverso la tomba / irretendolo con lacci robusti I per distoglierlo dalle vette I del suo sogno impossibile? / Io sussurrerò: - Il sole si è dissolto I nel mare. Bisogna partire. - / ... / Il nostro viaggio non ha fine, / liberi come i jinn I e in balìa del vento / su un battello di mercurio errante, I dritta la prua del nostro amore I e della nostra disperazione / verso un punto di coscienza dell'universo». Difficile non scorgere in queste parole l'eco ispirata del succitato Nasafi («Ma lo scopo dell'uomo è la maturità, il suo fine la libertà»); fatto sta che esse ricordano anche la disperazione dell'eroina Shirin nei versi del persiano Nezami nel XII secolo: «Vorrei tanto « Varechina» cantare le tue lodi, / io da sola per tutto l'universo, / ma la voce non sa, non può librarsi,/ grave com'è del sonno della terra, / perché sei solo dentro il nulla eterno, I celato re dell'unità divina».5 Giungiamo così a un altro grande e complementare tema: quello dell' «assedio del nulla», che caratterizza soprattutto la sorella poesia persiana - fin dalla «quartine» del sufi Baba Taher o di 'Omar Khayyam nell'XI-XII secolo -: quale oggi finalmente scelta e tradotta in italiano da Gianroberto Scarcia nell'anta-

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